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“Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù il Nazareno, cammina!”. (Atti 3,6)

Pietro ha imparato bene la lezione da Gesù: sa che può dare proprio quando non ha niente. Gesù ci ha salvati gratuitamente proprio quando sulla croce non aveva più niente di suo. Pietro non ha né oro né argento (che bella una Chiesa libera da queste pastoie!) e allora può dare gratis Gesù. Quando siamo calcolatori andiamo in perdita (in perdita di amore), quando ci impoveriamo donando gratuitamente possiamo fare miracoli. Vi propongo una piccola storia di Bruno Ferrero: forse può essere utile anche per certi rapporti educativi… Una sera, mentre la mamma preparava la cena, il figlio undicenne si presentò in cucina con un foglietto in mano. Con aria stranamente ufficiale il bambino porse il pezzo di carta alla mamma, che si asciugò le mani col grembiule e lesse quanto vi era scritto:

“Per aver strappato le erbacce dal vialetto: £ 5.000

Per aver ordinato la mia cameretta: £ 10.000

Per essere andato a comperare il latte: £ 1.000

Per aver badato alla sorellina (tre pomeriggi): £ 15.000

Per aver preso due volte ‘ottimo’ a scuola: £10.000

Per aver portato fuori l’immondizia tutte le sere: £ 7.000

Totale £ 48.000”.

La mamma fissò il figlio negli occhi, teneramente. La sua mente si affollò di ricordi. Prese una biro e sul retro del foglietto scrisse:

“Per averti portato in grembo per nove mesi: £ 0

Per tutte le notti passate a vegliarti quando eri ammalato: £ 0

Per tutte le volte che ti ho cullato quando eri triste: £ 0

Per tutte le volte che ho asciugato le tue lacrime: £ 0

Per tutto quello che ti ho insegnato giorno dopo giorno: £ 0

Per tutte le colazioni, i pranzi, le merende, le cene e i panini che ti ho preparato: £ 0

Per la vita che ti do ogni giorno: £ 0”.

Quando ebbe terminato, sorridendo la mamma diede il foglietto al figlio. Quando il bambino ebbe finito di leggere ciò che la mamma aveva scritto, due lacrimoni fecero capolino nei suoi occhi.

Girò il foglio e sul suo conto scrisse: “Pagato”. Poi saltò al collo della madre e la sommerse di baci.

 

Quando nei rapporti personali e familiari si cominciano a fare i conti, è tutto finito. L’amore è gratuito. O non è.

 

 

“I sacerdoti, chiamati  gli apostoli ordinarono loro di non parlare lare assolutamente nè di insegnare nel nome di Gesù”. (Atti 4,18)

Stupisce vedere gli Apostoli, che prima paurosi, insicuri nella fede, ora affrontano il Sinedrio, le percosse, la prigione pur di poter testimoniare il nome di Gesù. Dove trovare il coraggio della fede? Questa favoletta non dice tutto, ma può darci qualche indicazione: Coraggio, inseguito dalla Paura, cercò un rifugio per la notte. Bussò alla porta della Viltà, ma lei non gli apri, dicendo che non lo conosceva. Bussò allora alla porta della Menzogna, ma lei non gli aprì, dicendo che non era in casa. Bussò infine alla porta della Pigrizia, ma lei non gli aprì, dicendo che era già a letto. Allora Coraggio si fece coraggio. Bussò alla porta della Volontà e lei gli aprì, dicendo di entrare. E quando al mattino uscirono fuori, la Paura, vedendoli insieme, si dileguò.

 

 

“All’udire queste parole essi si irritarono e volevano metterli a morte”. (Atti 5,33)

Tutta la lunga storia della Chiesa è costellata di martiri che hanno dato la vita per la fede e per i fratelli. Ecco l’esempio di un recente martirio in America Latina raccontato da L. Boff. Così fu ucciso il Francescano lvan Bettencourt, nel 1975: figura ideale dei discepoli di Gesù. Aveva solidarizzato con i contadini espulsi dalle loro terre dai potenti latifondisti. Lo sequestrarono e lo torturarono, perché confessasse che era marxista e sovversivo. Gli tagliarono le orecchie e lo interrogarono. Gli tagliarono il. naso e lo interrogarono. Lo castrarono e lo interrogarono. Gli tagliarono la lingua e smisero d’interrogarlo. Lo ferirono in tutto il corpo, e, poiché si muoveva ancora, lo mitragliarono. Infine lo gettarono in un pozzo profondo e riempirono il pozzo. Fu ucciso, perché difendeva i fratelli.

 

“Trascinarono Stefano fuori della città e si misero a lapidarlo”. (Atti 7,58)

Il martirio di Stefano ci aiuta a riflettere sul senso e valore delle prove che incontriamo nella vita. I membri di certe tribù dell’Africa, quando devono attraversare a guado un corso d’acqua di notevole portata, ritengono vantaggioso per la loro sicurezza portare un pesante carico sul capo. Questo peso li costringe a camminare con passo più fermo ed a mantenersi sempre in perfetto equilibrio, con lo sguardo fisso in lontananza. Non è questa una bella figura del credente che sta attraversando una prova di cui porta il peso? Egli deve fissare il suo sguardo su Gesù, il. capo della sua fede (Ebrei 12,2) e questo per non essere portato via dal dubbio e dallo scoraggiamento e per non essere preoccupato per la forza delle onde. Deve portare il suo peso ben eretto, con fiducia, contando per questo sull’aiuto del suo Signore. Sarà allora sorpreso nel constatare che la prova attraversata in queste condizioni è meno pesante da sopportare di quanto temesse. Deve assicurare i suoi passi appoggiandosi sulla preghiera e sulla Parola di Dio, per discernere la sua volontà nei dettagli delle decisioni e delle scelte quotidiane. Deve mantenere il suo equilibrio. La prova ci fa prendere coscienza della nostra debolezza. Ci avvicina al Signore. Cerchiamo di portare la prova “sul capo” ed il Signore la porterà con noi.

 

 

“Quello che Dio ha purificato non considerarlo profano”. (Atti 11,9)

Già ai tempi degli Apostoli era difficile accettare fino in fondo l’universalismo del messaggio cristiano. Anche ai giorni nostri ci sono difficoltà ad accettare che Dio sia per tutti. Nella sua autobiografia, Mahatma Gandhi racconta di come quand’era studente in Sudafrica avesse nutrito un profondo interesse per la Bibbia, soprattutto per il discorso della Montagna. Si convinse che il cristianesimo era la risposta al sistema delle caste, che per secoli aveva costituito una piaga per l’india, e pensò seriamente alla possibilità di diventare cristiano. Un giorno si recò in chiesa per partecipare alla Messa e farsi dare le istruzioni necessarie. All’ingresso Io fermarono e gli spiegarono gentilmente che se desiderava ascoltare la Messa poteva farlo in una chiesa riservata ai negri. Egli se ne andò e non ritornò mai più.

 

 

“Che cosa devo fare per essere salvato? Risposero: Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia”.

(Atti 16,31)

Quante volte nella mia vita mi sono chiesto: “Ma come si fa ad aver fede? Che cosa devo fare? La strada sarà quella della conoscenza o quella dell’esperienza? Ma sarò in grado di fare ciò che mi chiederà il Signore?”. Il carceriere di Paolo e Sila che, vedendo le celle aperte, stava per suicidarsi, davanti ai due apostoli che non solo non  sono scappati, ma che lo fermano dal compiere quell’atto estremo, chiede: “Che cosa devo fare?”. La risposta che viene data è semplicissima: “Credi in Gesù!, comincia di lì perché lì è l’essenza”. L’essenza è cominciare! Smettiamola di chiederci tanti perché: cominciamo! Una tempesta terribile si era abbattuta sul mare. Lame affilate di vento gelido trafiggevano l’acqua e la sollevavano in ondate gigantesche che si abbattevano sulla spiaggia come colpi di maglio, o come vomeri d’acciaio aravano il fondo marino scaraventando le piccole bestiole del fondo, i crostacei e i piccoli molluschi, a decine di metri dal fondo del mare. Quando la tempesta fu passata, l’acqua si placò e si ritirò. Ora la spiaggia era una distesa di fango in cui si contorcevano nell’agonia migliaia e migliaia di stelle marine. Erano tante che la spiaggia sembrava colorata di rosa. Il fenomeno aveva richiamato molta gente da tutte le parti della costa. Arrivarono anche delle troupe televisive per filmare lo strano fenomeno. Le stelle marine erano quasi immobili. Stavano morendo. Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c’era anche un bambino che fissava con gli occhi pieni di tristezza le piccole stelle di mare. Tutti stavano a guardare e nessuno faceva niente. All’improvviso il bambino lasciò la mano del papà, si tolse le scarpe e le calze e corse sulla spiaggia. Si chinò, raccolse con le piccole mani tre stelle del mare e, sempre correndo, le portò nell’acqua. Poi tornò indietro e ripeté l’operazione. Dalla balaustrata un uomo lo chiamò: “Ma che fa, ragazzino?”. “Ributto in mare le stelle marine. Altrimenti muoiono tutte sulla spiaggia”, rispose il bambino senza smettere di correre. “Ma ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia: non puoi certo salvarle tutte. Sono troppe!”, gridò l’uomo. “E questo succede su centinaia di altre spiagge lungo la costa! Non puoi cambiare le cose!”. Il bambino sorrise, si chinò a raccogliere un’altra stella di mare e gettandola in acqua rispose: “Ho cambiato le cose per questa qui”. L’uomo rimase un attimo in silenzio, poi si chinò, si tolse scarpe e calze e scese in spiaggia. Cominciò a raccogliere stelle marine e a buttarle in acqua. Un istante dopo scesero due ragazze ed erano in quattro a buttare stelle marine in acqua. Qualche minuto dopo erano in cinquanta, poi cento, duecento… Così furono salvate quasi tutte.

 

 

“Quello che voi adorate senza conoscere io ve lo annuncio”. (At. 17,21)

Questa frase di Paolo agli Ateniesi mi ha fatto venire in mente una storia che per questioni di spazio vi devo riassumere. Letta in un certo modo può insegnarci qualcosa. L’abate di un monastero andò a trovare un santo eremita e gli raccontò che il suo monastero una volta fiorente di monaci e di opere buone ora languiva: poche vocazioni, tristezza, abbandono. Quello che l’abate voleva sapere era questo: “E’ a causa di un nostro peccato che il monastero si è ridotto in questo stato?” “Sì”, rispose il sant’uomo, “un peccato di ignoranza” “E di che peccato si tratta?” “Uno di voi è il Messia sotto false spoglie e voi non lo sapete”. L’abate al suo ritorno, radunò i monaci e li informò di ciò che aveva scoperto. Essi si guardarono l’un l’altro increduli.

Il Messia? Qui? Incredibile! Ma a quanto pare era lì in incognito.. Allora, forse... E se fosse stato il tale? O il talaltro, laggiù? O...? Una cosa era certa: se il Messia era lì sotto false spoglie, non sarebbe stato facile riconoscerlo. Così si misero a trattare chiunque con rispetto e considerazione. “Non si può mai sapere”, pensavano dentro di sé quando avevano a che fare con i loro confratelli, “magari è questo”. li risultato fu che l’atmosfera del convento divenne tutto un vibrare di gioia. Presto dozzine di aspiranti vennero a chiedere di entrare nell’ordine, e la chiesa tornò a riechegqiare dei santi e lieti canti dei monaci, i quali irradiavano lo spirito dell’Amore.

 

 

“C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. (At. 20,35)

Racconta l’Abbè Pierre:

Ricordo un giorno, in una bidonville di Rio de Janeiro, dove da qualche anno una giovane francese missionaria laica si prende cura di quei poveri negri... Un giorno, mentre rigovernava la sua stanzetta, le si avvicina una povera mamma negra, le mette sul tavolo un pacchetto e se ne va: la giovane la richiama e le chiede che cosa ci sia in quel pacco. La donna risponde: “E’ per te”. La giovane si avvicina, apre il pacco: dentro, c’è un chilo di patate. La giovane missionaria dice: “Ma non è logico: io non sono ricca, ma ho il necessario, e poi, non ho bambini; a casa tua, hai dei bambini che sono sempre affamati... riprendi dunque le tue patate e portale a loro...”. La donna rifiuta.., e la giovane insiste. Allora la povera donna negra si mette a piangere e dice queste parole meravigliose: “Allora tu non vuoi che anch’io, per una volta, possa avere la gioia di donarti qualcosa?”.

 

 

“Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”.(Atti 20,35)

Due fratelli, uno scapolo e l’altro sposato, possedevano una fattoria dal suolo fertile, che produceva grano in abbondanza. A ciascuno dei due fratelli spettava metà del raccolto. All’inizio tutto andò bene. Poi, di tanto in tanto, l’uomo sposato cominciò a svegliarsi di soprassalto durante la notte e a pensare: “Non è giusto così. Mio fratello non è sposato e riceve metà di tutto il raccolto. lo ho moglie e cinque figli, non avrò quindi da preoccuparmi per la vecchiaia. Ma chi avrà cura del mio povero fratello quando sarà vecchio? Lui deve mettere da parte di più per il futuro di quanto non faccia ora, è logico quindi che ha più bisogno di me”. E con questo pensiero, si alzava dal letto, entrava furtivamente in casa del fratello e gli versava un sacco di grano nel granaio. Anche lo scapolo cominciò ad avere questi attacchi durante la notte. Ogni tanto si svegliava e diceva fra sé: “Non è affatto giusto così. Mio fratello ha moglie e cinque figli e riceve metà di quanto la terra produce. Io non ho nessuno oltre a me stesso da mantenere. E’ giusto allora che il mio povero fratello, che ha evidentemente molto più bisogno di me, riceva la mia stessa parte?” Quindi si alzava dal letto e andava a portare un sacco di grano nel granaio del fratello. Un giorno si alzarono alla stessa ora e si incontrarono, ciascuno con in spalla un sacco di grano!

 

 

“Sei inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi, perché mentre giudichi gli altri, con­danni     te stesso, infatti, tu che giudichi, fai  le medesime cose”. (Rom. 2,1)

Ero convinto di possedere una grande carità nel giudicare gli altri quando un giorno, camminando sulle rive di un fiume, vidi un uomo sdraiato accanto a una donna e, vicino a loro, un fiasco di vino. Mi dissi: “Se solo potessi ricondurre quell’uomo sulla retta via…” In quel momento vidi un battello che colava a picco e sette persone dibattersi disperatamente nell’acqua. L’uomo si gettò subito nel fiume e riuscì a condurre a riva sei dei sette passeggeri. Poi si rivolse a me: “Hasan, se sei migliore di me, in nome di Dio salva almeno l’ultimo passeggero!” Ma io ero come paralizzato. Allora, come se avesse intuito quel che mi passava nell’animo, quel tale gridò guardandomi negli occhi: “Quella donna è mia sorella. E quel fiasco non contiene che acqua di sorgente. Ecco come tu giudichi! Ecco quello che sei!” Mi gettai ai suoi piedi piangendo: “O tu che ne hai salvato sei su sette, salva anche me che sto piangendo nel mare dell’orgoglio camuffato da carità.”  L’uomo rispose: “Dio ti aiuti.”

 

 

“Come per la disobbedienza di uno solo, tutti sorto stati costi­tuiti peccatori, cosi anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti”. (Rom. 5,l9)

Si racconta che Federico il Grande un giorno fu avvicinato da un povero uomo che voleva parlargli. “Non ho tempo di ascoltarti”, gli disse il re senza fermarsi. “Sire, ho solo due parole da dirle”. “Sia rispose Federico ma due parole, non di più”. “Fame, freddo”, gridò allora il poveretto al posto della piccola supplica che aveva preparato. “Pane, carbone”, rispose il re con altrettanta brevità. E gli fece dare cento talleri. Non è forse possibile riassumere anche in due parole lo stato di miseria nel quale è immersa la razza umana? Queste due parole sono: Peccato e morte. Ma a queste due parole anche Dio in Gesù ci risponde con altre due parole meravigliose: PERDONO e VITA ETERNA.

 

 

“Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo spirito, alle cose dello spirito”. (Rm. 8,5)

Un giorno un professore di filosofia sale in cattedra e, prima di iniziare la lezione, toglie dalla cartella un grande foglio bianco con una piccola macchia di inchiostro nel mezzo. Rivolto agli studenti, domanda: “Che cosa vedete qui?” “Una macchia di inchiostro”, risponde qualcuno. “Bene, continua il professore così sono gli uomini: vedono soltanto le macchie, anche le più piccole, e non il grande, stupendo foglio bianco che è la vita!”. Guarda la vita con gli occhi dello Spirito e vedrai ancora le macchie ma sul grande foglio dell’amore.

 

 

‘Siate perseveranti nella preghiera”. (Rom. 12,12)

In questo periodo della novena di Natale siamo invitati ad una preghiera più assidua. Ma non sempre è facile pregare! Questa sorridente leggenda della Navarra ci invita a volgere il nostro cuore interamente al Signore. Un saggio abate volle un giorno mettere alla prova il più promettente tra i suoi novizi. Chiamò a sé il giovane. Ascolta Pietro, voglio farti un dono disse. Ti regalerò un cavallo di razza che tu potrai cavalcare e usare a tuo piacimento, se sarai capace di recitarmi dal principio alla fine il Pater Nostro senza mai, neppure per un istante, distogliere il tuo pensiero dalla preghiera. Oh rise Pietro meravigliato è puerile, padre, quel che mi chiedete. E davvero io in premio potrei avere un cavallo...? Impaziente com’era di vedersi in groppa a un bel puledro di razza, il giovane cominciò la sua orazione: Padre nostro che sei nei cieli... Ma il suo pensiero era lontano dalle parole di fede; inseguendo il bel sogno, Pietro mormorava meccanicamente: Venga il tuo regno... come in cielo così in terra... e ad un certo punto si trovò senza accorgersene a chiedere: Ma il cavallo, avrà poi una sella perché io lo possa montare? L’abate rise divertito e consolò il giovane, In fondo era stata un’ottima lezione...

(leggenda della Navarra – Rielaborazione)

 

“Siate perseveranti nella preghiera”. (Rom. 12,12)

La perseveranza è l’atteggiamento di chi si propone un obiettivo ben chiaro e poi, costi quello che costi, lo raggiunge. Anche nella preghiera è così: se ti rivolgi costantemente a Lui, Egli ti illuminerà. In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali, e non si perdeva un solo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l’altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po’, il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri. Le piante del giardino cominciarono a considerano con rispetto, e anche con un po’ d’invidia. “Quello spilungone è un po’ matto”, bisbigliavano dalie e margherite. La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l’avrebbe seguito per non abbandonano un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all’unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai. Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. “Si è innamorato del sole”, cominciarono a propagare ai quattro venti. La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome “girasole”. “Perchè guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te”, gridarono le bocche di leone per farsi sentire. “Amici”, rispose il girasole, “sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po’. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...”.

 

 

“Teniamo viva la nostra speranza” (Rom. 15,4)

Quante volte davanti a certe situazioni difficili ci siamo chiesti “perché Dio non si fa vedere?”. Tre bambini giapponesi, passeggiando in un bosco, scoprono un cuculo. Il primo dice: Se non canta, lo ammazzo. Non essere così brutale replica il secondo, io lo invito a cantare. Interviene allora il più piccolo: lo aspetterò semplicemente che canti! Così è per Dio! Non si può forzargli la mano. Si può solo attendere che la grazia canti in noi, come il cuculo nel bosco giapponese. E desiderare che canti!

 

 

“Voi siete chiamati ad essere santi”. (1 Cor. 1,2)

La nostra vocazione è la santità. Questa parola può spaventarci: siamo consapevoli della nostra debolezza e abbiamo della santità un’idea troppo alta legata a certi racconti sui santi che invece di avvicinarceli ce li rendono talmente lontani da pensare che essere santi è solo di qualcuno. Ecco una definizione insolita di santità ma che ci fa pensare. Durante la visita ad una chiesa di Torino, un bimbo della scuola materna ha chiesto alla maestra spiegazioni riguardo alle vetrate luminose della chiesa, che rappresentavano alcuni santi. Qualche giorno dopo, alla festa dei santi, un sacerdote che stava affiancando nella spiegazione, ha chiesto ai bambini della classe che aveva visitato la chiesa, se sapevano spiegargli chi erano quelle persone che la gente festeggia e chiama “santi”. Il bimbo che aveva chiesto spiegazioni sulle vetrate si è alzato di scatto e con voce sicura ha risposto: “Sono quelli che fanno passare la luce ...

 

 

“Chi si unisce al Signore forma con Lui un solo Spirito”. (1 Cor. 6,17)

Non importa se sei importante o se meno, se hai avuto grandi o piccoli doni, essi ti sono dati per formare un unico con Dio e con gli altri. Questa favola ci ricorda che se anche sei solo un “pezzettino” servi al grande disegno, e se manchi tu, manca qualcosa a tutti. C’era una volta un piccolo pezzo di un ‘puzzle’ di cartone, che era scivolato dietro un frigorifero e che nessuno era più riuscito a trovare. Era un pezzo di ‘puzzle’ molto grazioso: aveva la forma di un ornino e portava sul dorso un curioso disegno giallo, marrone, rosso e bianco. Stava da così tanto tempo dietro il frigorifero che aveva dimenticato che cos’era. Perciò aveva deciso di chiamarsi ‘pezzettino’. Lo aveva deciso guardandosi intorno: tutti gli altri che vedeva erano oggetti ben definiti. Il tavolo era il tavolo, la sedia era la sedia, perfino il gatto era il gatto. Ma lui cos’era? Così decise di partire per scoprirlo. Con le sue gambette tonde uscì in giardino e cominciò la sua ricerca. Vide di non essere un pezzettino di sasso e neppure una goccia d’una pozzanghera e nemmeno una parte d’un riccio. E così via. Dopo lungo vagare si fermò tra i cocci d’una bottiglia, in mezzo alla strada. Passò di là un bambino in bicicletta e pluf! Il piccolo pneumatico si sgonfiò. Oh, no! disse il bambino e guardò per terra. Tra i pezzi di bottiglia rotta vide ‘pezzettino’; lo afferrò e corse in casa, gridando: Mamma, mamma, l’ho trovato! Ho trovato il pezzo del mio ‘puzzle’. Un istante dopo, ‘Pezzettino’ si trovò abbracciato a tanti pezzetti come lui e con immensa gioia capì che la sua ricerca era finita. Ora sapeva chi era! Ora avevano un significato anche le macchie colorate sul dorso: il giallo e il marrone erano parti del muso di una tigre, il rosso e il bianco erano denti e bocca spalancata. Tutti insieme i piccoli pezzi formavano una magnifica tigre nella giungla. Benvenuto! Ti aspettavamo! gridarono in coro gli altri pezzetti di ‘puzzle’. Ci mancavi tanto! Anche voi mi siete mancati tanto, fratellini miei disse ‘pezzettino’ al colmo della felicità.

 

 

“Questo vi  dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve”. (1Cor. 7,29)

Avevo un solo desiderio: dedicarmi completamente a Dio. Mi recai dunque al Monastero. Un vecchio monaco mi domandò: “Che cosa vuoi?” Dissi: “Voglio dedicarmi a Dio”. Mi aspettavo una risposta gentile, paterna, e invece egli urlò “Ora!” Ero sbalordito. Gridò di nuovo “Ora!” e poi prese un bastone e venne verso di me. io scappai, e lui dietro brandendo il bastone e urlando “Ora! Ora!”. Questo accadeva parecchi anni fa. E ancora oggi lui mi insegue, ovunque io vada. Sempre con quel bastone, sem­pre con quel monito: “ORA!”. (Da “Il Monastero magico” di Teofane il Monaco)

 

 

“Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?”. (1 Cor. 15,55)

Si dice che Luigi XI fosse astuto e crudele. Alla fine della vita, si sentì ripreso nella coscienza e cercò dei mezzi sicuri per allontanare la morte: quaranta sentinelle sorvegliavano il castello di Plessis—les—Tours, perchè temeva, non senza motivo, di essere vittima di qualche vendetta, Inoltre, per prevenire ogni malattia fatale, si circondò di numerosi medici. Rendendosi conto malgrado tutto questo dell’insufficienza di tali mezzi, fece venire dall’Italia Francesco da Paola, un eremita francescano che si pretendeva fosse capace di prolungare la vita degli umani. Il re gli promise una forte somma se lo avesse mantenuto in salute e gli avesse assicurato lunghi giorni. Ma quest’uomo, che era un saggio gli spiegò che Dio solo aveva il potere di prolungare l’esistenza e che era molto più importante morire bene che vivere a lungo. Vogliamo porre in evidenza il suo precetto, perché temiamo che molta gente, come il re Luigi XI, pensi di più a vivere a lungo che a terminare bene la propria vita terrena. Ma, che cosa significa “morire bene”? Si tratta di finire i propri giorni a casa piuttosto che all’ospedale? Andarsene durante il sonno, senza soffrire, attorniati da quelli che amiamo...? Non si tratta di questo! Significa morire in pace con Dio, andare verso Lui senza timore, perché si possiede Gesù come Salvatore.

 

 

“Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà”. (2 Cor. 3,17)

Quante discussioni: per essere cristiani è meglio la lotta o la contemplazione? E’ meglio ritirarsi per incontrare Dio o incontrare il Dio che è incarnato nella storia? Un racconto di  Gibran: Due uomini percorrevano la valle. Uno dei due, additando il fianco della montagna, disse: “Vedi quell’eremo? Lassù vive un uomo che da tempo si è separato dal mondo. Ogni sua aspirazione si concentra in Dio, e nient’altro cerca su questa terra. E l’altro disse: “Non troverà Dio finché non lascerà l’eremo e la solitudine del ritiro e non ritornerà nel nostro mondo per dividere con noi gioia e dolore, per danzare con i nostri ballerini alle feste di nozze, e per piangere con quelli che piangono intorno alle bare dei nostri morti”. Il suo compagno, pur essendone convinto nell’intimo, rispose: “Sono d’accordo con tutto ciò che dici. Però ritengo l’eremita un uomo buono. E non può essere che giovi più un buono con la sua assenza che non l’apparente bontà di molti?”.

 

 

Fratelli, noi abbiamo un tesoro in vasi di creta”. (2 Cor. 4,7)

Gli indù raccontano una strana leggenda. La leggenda del capriolo delle montagne. Tanti anni fa, c’era un capriolo che sentiva continuamente nelle narici un fragrante profumo di muschio. Saliva le verdi pendici dei monti e sentiva quel profumo stupendo, penetrante, dolcissimo. Sfrecciava nella foresta, e quel profumo era nell’aria, tutti intorno a lui. Il capriolo non riusciva a capire da dove provenisse quel profumo che tanto lo turbava. Era come il richiamo di un flauto a cui non si può resistere. Perciò il capriolo prese a correre di bosco in bosco alla ricerca della fonte di quello straordinario e conturbante profumo. Quella ricerca divenne la sua ossessione. Il povero animale non badava più né a mangiare, né a bere, né a dormire, né a nient’altro. Esso non sapeva donde venisse il richiamo del profumo, ma si sentiva costretto a inseguirlo attraverso burroni, foreste e colline, finché affamato, esausto, stanco morto, andò avanti a casaccio, scivolò da una roccia e cadde ferendosi mortalmente. Le sue ferite erano dolorose e profonde. Il capriolo si leccò il petto sanguinante e, in quel momento, scoprì la cosa più incredibile. Il profumo, quel profumo che lo aveva sconvolto, era proprio lì, attaccato al suo corpo, nella speciale “sacca” porta muschio che hanno tutti i caprioli della sua specie. Il povero animale respirò profondamente il profumo, ma era troppo tardi...

 

 

“Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza”. (2 Cor. 6,2)

Si racconta che poco dopo la morte del rabbino Mokshe, il rabbino Mendel di Kotyk chiese a uno dei discepoli: “A che cosa più di tutte dava importanza il tuo maestro?” Il discepolo ci pensò su un attimo e poi rispose: “A quello che stava facendo in quel momento”. La salvezza è oggi, non domani. Cristo ti chiama e ti salva adesso. In un suo brano B. Wolfe ci invita ad essere occupati a tempo pieno: Se osservi un uomo veramente felice, lo troverai occupato a costruirsi una barca, a comporre una sinfonia, a coltivare dalie giganti nel suo giardino o a cercare uova di dinosauro nel deserto del Gobi. Non cerca la felicità come se fosse un bottone rotolato sotto il calorifero. Non si sforza di raggiungerla come se fosse uno scopo in sé; si è accorto di essere felice se è impegnato a vivere per tutte le 24 ore del giorno.

 

 

“Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza”. (2 Cor. 6,2)

Un bel libro scritto da una vecchia suora benedettina narra la vita di S. Placido, uno dei primi compagni di S. Benedetto, la figura della semplicità. Questa suora, un’anima bella, dotata di molto ingegno e di capacità d’arte, ne ha fatto un pretesto per esporre la spiritualità benedettina e lo ha fatto in modo originalissimo: a ogni pagina una figura e una didascalia. Incomincia presentando il piccolo Placido in famiglia. Papà e mamma sono molto preoccupati di lui perché cresce bene, è vivace, ma non sa parlare; sa dire una parola sola: “Sì”. Dice allora il padre: “Portiamolo da S. Benedetto e vediamo se egli ne sa cavar fuori qualche cosa”. E vanno, ma veramente un po’ timorosi, perché pensano che egli avrebbe richiesto un titolo di studio. Glielo presentano: “Questo è il nostro Placido; sa dire solo “si”. San Benedetto si rischiara nel volto, fa un bel sorriso e risponde: “Questo è fatto proprio per noi; ce n’è d’avan­zo!”; perché la vita cristiana consiste nel dire sempre di sì al Signore e nel dirlo proprio ora.

 

 

“Il Signore Gesù, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perchè voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. (2 Cor. 8,9)

Il racconto che segue a prima vista sembra non aver alcun rapporto con questa frase di Paolo che meditiamo oggi. Ma, proviamo a pensarci. Un giorno il Gran Re di Persia bandì un concorso fra tutti gli artisti del suo vasto impero. Una somma enorme sarebbe andata in premio a chi fosse riuscito a fare il ritratto più somigliante del Re. Giunse per primo Manday l’indù, con meravigliosi colori di cui lui solo conosceva il segreto; quindi Aznavor l’armeno, portando una creta speciale; poi Wokiti l’egiziano, con scalpelli e ceselli mai visti e bellissimi blocchi di marmo. Infine, per ultimo, si presento Stratos il greco, munito soltanto di un sacchetto di polvere. I dignitari di corte si mostrarono indispettiti per l’esiguità del materiale portato da Stratos il greco. Gli altri artisti sogghignavano “Che cosa può fare il greco con quel misero sacchetto di polvere?”. Tutti i partecipanti al concorso furono rinchiusi per varie settimane nelle sale del palazzo reale. Una sala per ogni artista. Nel giorno stabilito, il Re cominciò a esaminare le opere degli artisti. Ammirò i meravigliosi dipinti dell’indù, i modelli in carta colorata dell’armeno e le statue e all’egiziano. Poi entrò nella sala riservata a Stratos il greco. Sembrava che non avesse fatto niente: con la sua polvere minuta, si era limitato a smerigliare, levigare e lucidare la parete di marmo della sala. Quando il Re entrò poté contemplare la sua immagine perfettamente riflessa. Naturalmente, Stratos vinse il concorso. Solo uno specchio poteva soddisfare pienamente il Re.

 

 

"Chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà".

(2 Cor. 9,6)

Leggiamo quest'oggi un racconto. Può farci meditare profondamente. Una madre soffrì moltissimo a staccarsi dai suoi figli. Sapeva però che solo lasciandoli andare per le loro strade sarebbero stati felici. Così, nascose la sua sofferenza in una grande buca nel bosco e, quando l'ultimo figlio partì, chiuse la buca e vi piantò un virgulto di quercia. La quercia, come tutte le querce, crebbe molto lentamente. Quando la madre morì non era che un alberello adolescente. Oggi è una quercia immensa, la più grande e nobile di tutta la foresta. Gli altri alberi la guardano intimoriti e gli uomini vengono da ogni parte ad ammirarla. Ogni tanto la grande quercia ha un fremito: accade quando fra coloro che vengono a goderne la maestà e la frescura c'è qualche figlio del figlio del figlio di qualche figlio di colei che la piantò. Poiché la sofferenza di una madre che rende liberi i suoi figli si dilata all'infinito. E' fra i doni più ricchi che possa dare l'umanità.

 

 

“Dio ama chi dona con gioia”. (2 Cor. 9,7)

Da un racconto di Archibald Cronin:

L’infermiera del distretto era una donna di una cinquantina d’anni, dal corpo robusto, dal viso segnato da rughe. Non bella, ma c’era una tale franchezza nel limpido sguardo dei suoi occhi grigi, che i suoi lineamenti, per quanto fossero comuni, ne erano illuminati. In tutti i casi difficili la sua presenza rassicurava la mia mancanza di pratica. Per vent’anni era stata sola a curare la gente della regione. Il suo compito era stato terribilmente duro: ogni giorno un giro di venti chilometri, senza parlare delle notti. Spesso ne ammiravo il coraggio, la pazienza, la severità e la gaiezza. La nota fondamentale del suo carattere sembrava essere un completo oblio di sé; non era mai troppo occupata per dire una parola di conforto, né troppo stanca per rispondere, di notte, ad un appello urgente. Beninteso, per quanto fosse adorata nel paese, il suo salario era dei più magri. Una sera, mentre prendeva il tè dopo un lavoro particolarmente spossante, mi azzardai a toccare questo argomento: Perché non vi fate pagare di più? le chiesi E’ ridicolo lavorare per così poco... Alzò leggermente le sopracciglia stupita, poi sorrise: Ho quel che mi abbisogna per vivere rispose. No insistetti. Dovreste guadagnare di più. Lo sa Dio se voi lo meritate. Ci fu un silenzio. Dottore disse se Dio sa che lo merito, che cosa chiedere di più? Per me questo solo conta. Queste parole per se stesse erano poca cosa, ma l’espressione dei suoi occhi diceva molto di più. Bruscamente fui illuminato, sentii la ricchezza della sua vita e, in confronto, il vuoto della mia.

 

 

“Dio ama chi dona con gioia”. (2 Cor. 9,7)

Il parroco di una delle sterminate periferie di Parigi, incaricò un giorno la scrittrice Madeleine Delbrel, sua buona parrocchiana, di portare un pacco di vestiti ad una poverissima famiglia di non credenti. Madeleine prese il pacchetto e si recò all’indirizzo che le aveva dato il parroco. Salì i cinque piani del freddo casermone di cemento e consegnò il pacco alla donna dall’aria sciupata con un bambino accanto, che era venuta ad aprire la porta. La donna ringraziò e Madeleine riprese le scale. Era appena giunta a pianterreno che si sentì richiamare. Era la donna del quinto piano che urlava: “Vieni a riprenderti il tuo pacchetto! Sono degli stracci schifosi! Siamo poveri, ma non viviamo di rifiuti!”. Madeleine risalì. Vide che la donna aveva ragione: il pacco conteneva biancheria sporca. C’era stato qualche errore. Si scusò e ridiscese, addolorata. Non sapeva che cosa fare. Passò davanti ad un negozio di fiori e vide un cesto di magnifiche rose rosse. Le comperò, ritornò sui suoi passi, incontrò il bambino della donna e gli diede i fiori, dicendogli: “Portali alla tua mamma Quel bambino fu il primo battezzato del quartiere.

 

 

“Fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato non è modellato sull’uomo”. (Gal. 1,11)

IL CONTENITORE E IL CONTENUTO

C’era un guru che tutti consideravano la Sapienza Incarnata. Ogni giorno egli teneva un discorso su vari aspetti della vita spirituale ed era evidente che nessuno mai aveva superato la varietà, la profondità e l’attrattiva del suo insegnamento. I suoi discepoli gli chiedevano con insistenza quale fosse la fonte da cui traeva una sapienza tanto inesauribile ed egli disse loro che stava tutto scritto in un libro che avrebbero ereditato dopo la sua morte. Il giorno che seguì alla sua morte, i discepoli trovarono il libro esattamente dove egli aveva detto. C’era una pagina sola, con un’unica frase che diceva: “Capite la differenza fra il contenitore e il contenuto e avrete accesso alla fonte della Sapienza”.

 

 

“Non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me”.  (Gal. 2,20)

IL SANTO RIVEDUTO E CORRETTO

Quella notte sognò di morire. Si presentò sicuro alle porte  del paradiso perché la sua vita era piena di opere buone. Bussò alla porta e dal di dentro la voce del Padre domandò: " Chi è?" Quell'uomo che si riteneva 'santo' rispose: "Signore, tu mi conosci bene: ‘sono io!’ Posso entrare?" Toh! Le porte del Paradiso rimasero chiuse! Fu tale i dispiacere che l'uomo si svegliò all'improvviso e decise di cambiare vita. Visse giorno per giorno non più con le opere buone come le pensava e voleva lui, ma imitando Gesù, il suo stile, il suo amore. Quando venne veramente la morte, bussò alle porte del Paradiso. La voce del Padre gli chiese: "Chi sei?" Questa volta l'uomo rispose: "Sono Gesù, perché Lui è la mia vita!" Allora le porte del cielo si spalancarono.

 

 

"I frutti dello Spirito sono: carità, gioia, pace...". (Gal. 5,22)

Specialmente per chi vive la vita delle comunità cristiane e desidera ispirarsi al Vangelo, succedono momenti di scoraggiamento: la preghiera diventa arida, i frutti sperati da gesti di carità non vengono, divergenze di idee tra cristiani amareggiano... E qualche volta quando ci prendiamo troppo sul serio diventiamo pessimisti, la speranza sembra svanire. Eppure il cristiano è uomo di gioia, e anche il gusto prenderci in giro e un po' di umorismo farebbero bene. Ecco alcuni piccoli esempi tratti dai padri del deserto.

 

 

 

 

“Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto”. (Ef. 1,4)

Dio Padre può vivere felice, se il figlio cattivo è lontano da casa? Un padre si adirò con suo figlio, per la sua pessima condotta. Fu costretto a cacciarlo di casa. Saputolo, un suo amico venne a pregarlo: “Ti devo chiedere un favore”. “Dì pure” rispose il padre. “Riprendi a casa tuo figlio” supplicò l’amico. E il padre: “Chiedimi qualche altra cosa, perché a mio figlio, ho già perdonato tutto! L’ho già ripreso in casa. Non potevo vivere senza di lui!”.

 

 

“Siamo predestinati ad essere figli adottivi del Padre per opera di Gesù Cristo”. (Ef. 1,5)

Si racconta di un vecchio artista italiano che aveva perso in parte la sua capacità. Una sera era seduto scoraggiato davanti a un quadro che aveva appena terminato. Si rendeva conto che aveva perduto in parte il suo tocco. La tela non sprizzava di vita come un tempo, ed egli se ne andò tristemente a dormire. In seguito il figlio, artista anche lui, esaminò l’opera del padre, e anch’egli ne notò la manchevolezza. Prendendo la tavolozza, lavorò fino a notte fonda, aggiungendo un piccolo tocco qui, una macchia lì, un po’ di colore da un lato, e un’ombra dall’altro. Egli lavorò finché il dipinto non soddisfece quello che suo padre aveva immaginato. Venne il mattino, e quando il padre entrò nello studio, fu pienamente felice di fronte alla tela perfetta ed esclamò: “Ho lavorato meglio di quanto credessi” Noi spesso siamo scontenti della nostra vita, del nostro modo di vivere la fede. Ma Gesù opera in noi. E il Padre al termine della vita non guarderà tanto alle nostre opere, quanto a ciò che è stato compiuto da Gesù e vedrà il quadro ormai portato a termine.

 

 

“Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati”. (Ef.2,1)

Un sacerdote aveva appena terminato una predica tutta incentrata sulla conversione dai peccati, quando un uomo lo raggiunse dicendo: " Lei parla del carico del peccato. Io non lo sento. Quanto pesa? Venti chili, cento chili?" "Mi dica, se lei posasse un carico di cento chili sul petto di un morto, questi lo sentirebbe?" "No, poiché è morto", rispose il giovane. Il sacerdote riprese: " Ebbene, l'uomo che non sente il carico del proprio peccato è morto moralmente".

 

 

‘Fratelli, voi non siete più stranieri, né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. (Ef. 2,19)

Grazie a Gesù non siamo più esseri che vagolano per un mondo ostile e per una durata breve di tempo: abbiamo la dignità di figli di Dio. Questo breve racconto di Renzo Pezzani può farci riflettere su ciò che siamo: Quando un mendicante si accorse che tutti gli uomini e le cose avevano un nome ed egli no, capì di essere infelice e provò a darsene uno. Ma nessun nome gli stava bene. Un giorno, chinatosi a bere ad un torrente, dall’altra sponda qualcuno lo chiamò: “Fratello, hai del pane?” Egli buttò il pane di là dell’acqua, poi camminando ripeté tra sé quel nome: fratello! Quando vennero le stelle e i lumi brillarono alle finestre delle case, il mendicante bussò ad una porta: “Chi sei?” gli fu chiesto. Rispose: “Il fratello”. E la porta gli fu aperta. Aveva finalmente trovato il proprio nome.

 

 

“Rendete continuamente grazie al Signore in ogni cosa”. (Ef. 5,20)

Una vita talmente semplice, comune, quella di San Giuseppe, da sembrare insignificante, eppure...

Tre amici decisero che avrebbero vissuto la vita con passione: poi si sarebbero ritrovati. Il primo viaggiò: scoprì nuove terre, navigò nuovi mari, portò in patria prodotti mai prima veduti, e il suo volto recava i segni dell’intensità delle sue esperienze. Il secondo studiò: portò alla luce pensieri nuovi, indicò all’uomo orizzonti mai prima sperati, idee e metodi di studio impensati, e il suo volto aveva assunto i nobili tratti di colui che sa. Il terzo amico s’innamorò, si sposò, ebbe molti figli, dovette lavorare duramente per mantenere la sua famiglia, e il suo volto era rimasto quello di un uomo qualunque. Quando si ritrovarono, il terzo amico non poté nascondere né agli altri né a se stesso la propria delusione: che piccola passione di vita era stata la sua al confronto di quella degli altri due! Mentre ritornava a casa dall’incontro, deluso e amareggiato, un sant’uomo lo fermò, lo prese per la mano e lo condusse poco discosto sulle rive di un fiume. Vedi quel ponte gli disse e  due pilastri che lo sorreggono? I due pilastri sono i tuoi amici: senza scienza e conoscenza il ponte non reggerebbe. Ma il tavolato del ponte sei tu, che sorreggi il peso di tanti. Quelle che tu pensi siano state piccole e insignificanti passioni sono le singole assi del ponte che una dopo l’altra, giorno dopo giorno hanno reso possibile a tanti il passaggio sull’altra riva. Il viso dell’uomo s’illuminò ed assunse quella fierezza che ognuno dovrebbe avere, se si rendesse conto del valore profondo d’ogni suo gesto quotidiano.

 

 

"Per me, il vivere è Cristo". (Fil. 1,21)

Si può essere degli ottimi filantropi, dei sindacalisti sinceri, delle persone che si lasciano commuovere dalle miserie dell'uomo, ma si è dei cristiani solo se è Cristo il motivo del nostro essere ed agire. Quando si recò a Cambridge per ricevervi dal principe Filippo, in qualità di presidente onorario dell'università, la laurea honoris causa in teologia, Madre Teresa giunse verso mezzogiorno in convento, dove s'incontrò con il pubblico e la stampa. Un giornalista le chiese: Cos'è che l'ha indotta a iniziare il suo lavoro, che l'ha ispirata e sostenuta durante tutti questi anni? La Madre rispose: Gesù. Il giornalista rimase sconcertato. Egli si aspettava evidentemente delle lunghe spiegazioni, ed invece non sentì pronunciare che una parola. Ma per la Madre questa sola parola bastava a riassumere tutta la sua vita, a spiegare la sua fede, le sue imprese, il suo coraggio, il suo amore, la sua devozione, i suoi risultati. Tutto era dovuto a Gesù, ogni sforzo e ogni sacrificio erano per Lui. La Madre espresse nuovamente questa sua convinzione quando mi disse: "Padre, lo dica loro: lo facciamo per Gesù". La frase è diventata il suo motto, la sua parola d'ordine, la spiegazione per ogni attività e per ogni successo delle suore. "Lo facciamo per Gesù", qualsiasi cosa, sempre!

 

 

“Fratelli miei, state lieti nel Signore". (Fil. 3,1)

Un grande maestro di gioia e allegria fu proprio d. Bosco che conquistava i suoi giovani con la serenità e la gioia. Adolescente a Chieri, Don Bosco fonda l’originalissima “Società dell’allegria”, un club di amici che si impegnano a vivere nella gioia. La Società dell’allegria ha un regolamento composto di due soli articoli, chiari come il sole. Primo: “Ogni membro della società dell’allegria deve evitare ogni discorso e ogni azione che disdica a un buon cristiano”. Secondo: “Esattezza nell'adempimento dei propri doveri”. Più tardi, fatto prete, chiederà spesso a qualche ragazzo: Vuoi essere amico di don Bosco? Oh, sì. Allora devi essere a+b—c. Sai cosa significa a+b—c? No. Te lo dico io. Devi essere a, cioè allegro; più b, cioè buono; meno c, cioè meno cattivo.

 

 

“Il Signore è vicino. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Gesù Cristo”. (Fil. 4,6—7)

PREGARE PER TUTTA LA FAMIGLIA

Una mamma, che era stata educata secondo principi cristiani, aveva mantenuto l’abitudine di far recitare al suo figlioletto questa preghiera: “Signore, benedici papà, benedici la mamma, fa’ di me un bravo figlio.”Una sera, dopo la preghiera, il piccino alzò gli occhi verso la madre: “E tu, la fai la tua preghiera?” “Qualche volta.” “E papà?” “Non lo so... mi stupirebbe!” “Oh!... riprese il fanciullo, non è certo un bambino come me che può pregare per tutta la famiglia! Dovete aiutarmi.” Queste semplici parole di un bambino penetrarono nel cuore della mamma. Da quel giorno ricominciò a pregare e più tardi fu la volta anche di suo marito. Si è detto che la preghiera è come il respiro dell’anima, un contatto privilegiato permanente con il cielo dove il credente ha i suoi veri interessi. Il suo contenuto: è tanto vario quanto lo sono i nostri bisogni. La sua forma: possono essere lodi, ringraziamenti, richieste, a volte un grido di aiuto. Preghiamo quando siamo soli, in famiglia, o con i nostri fratelli credenti. Dio apprezza le nostre preghiere che sono l’espressione di un’umile fiducia in Lui. Le ascolta, e le esaudisce nel modo e nel tempo che riterrà più opportuni per noi.

 

 

"Ora io gioisco nelle sofferenze che sopporto per voi, e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti del Cristo per il suo corpo, che è la chiesa". (Col. 1,24)

"Una volta racconta Madre Teresa stavo cercando di confortare una bambina malata, che soffriva molto. A un certo punto le dissi: "Dovresti essere felice che Dio ti fa soffrire, perché le tue sofferenze sono una prova che Egli ti ama molto. Le tue sofferenze sono altrettanti baci di Gesù". "Allora, Madre rispose la bambina dica per favore a Gesù di non baciarmi così tanto". Fu molto bello che la bambina non dicesse "dica per favore a Gesù di smettere di baciarmi", ma soltanto "di non baciarmi così tanto".

 

 

“Badate che nessuno vi inganni”. (Col. 2,8)

Questo racconto può essere dedicato in modo particolare a tutti coloro che si lasciano tentare dalla droga, dall’alcool o dall’eccessiva velocità sulla strada. In una tribù indiana, i giovani venivano riconosciuti adulti dopo un rito di passaggio vissuto nella più stretta solitudine. Durante questo periodo di solitudine dovevano provare a se stessi di essere pronti per l’età matura.

Una volta uno di loro camminò fino ad un alta montagna. Quando arrivò in cima, vide sotto di sé il mondo intero. Il suo sguardo spaziava senza limiti, e il suo cuore era pieno di orgoglio. Poi udì un fruscio vicino ai suoi piedi, abbassò lo sguardo e vide un serpente. Prima che il giovane potesse muoversi, il serpente parlò. “Sto per morire”, disse. “Fa troppo freddo quassù per me e non c’è nulla da mangiare. Mettimi sotto la tua camicia e portami a valle”. “No”, rispose il giovane. “Conosco quelli della tua specie. Sei un serpente a sonagli. Se ti raccolgo mi morderai e il tuo morso mi ucciderà”. “Niente affatto”, disse il serpente. “Con te non mi comporterò così. Se fai questo per me, non ti farò del male”. Il giovane rifiutò per un po’, ma quel serpente sapeva essere molto persuasivo. Alla fine, il giovane se lo mise sotto la camicia e lo portò con sé. Quando furono giù a valle, lo prese e lo depose delicatamente a terra. All’improvviso il serpente si arrotolò su se stesso, scosse i suoi sonagli, scattò in avanti e morse il ragazzo a una gamba. “Mi avevi promesso”, gridò il giovane. “Sapevi che cosa rischiavi quando mi hai preso con te”, disse il serpente strisciando via.

 

 

“Voi mogli state sottomesse ai mariti... Voi mariti, amate le vostre mogli... Voi figli obbedi­te ai genitori... Voi padri, non esasperate i vostri figli..”. (Col. 3,18—21)

“C’era una famiglia molto numerosa e molto unita. I suoi componenti avevano ricevuto tutti un’eccellente educazione morale, ma erano arrivati a pensare che molto di ciò che avevano appreso era costituito da pregiudizi anacronistici o da alienazioni che limitavano la loro libertà. Perciò genitori e figli seguivano la filosofia di chi cerca soprattutto la propria realizzazione. Al padre piaceva scommettere sui cavalli perché lo soddisfaceva molto, malgrado perdesse al di sopra dei suoi mezzi. Alla madre piaceva andare alle riunioni sociali e frequentare uomini giovani perché così si sentiva più donna e realizzata. Anche i figli avevano i loro “passatempi” nei quali si sentivano liberi; uno fumava marihuana con gli amici, un altro era andato a vivere con un’artista del cinema, un altro ancora si dedicava ai viaggi e viveva bene con denaro in prestito. Tutti si sentivano realizzati e liberi dai pregiudizi. Il tempo passò e giunse il momento in cui il padre rovinò la famiglia con le sue scommesse. La moglie lo abbandonò per un uomo molto più giovane di lei, che più tardi la lasciò per un’adolescente. Un figlio diventò schiavo della droga; l’altro diventò succube dell’artista cinematografica che dirigeva la sua vita e si serviva di lui per divertirsi occasionalmente; il terzo figlio si trova senza amici perché non poteva pagare i suoi debiti. E la famiglia che era stata tanto unita si sfasciò.”

 

 

“Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue azioni”. (Col. 3,9)

Uno zio di mio padre faceva il curato in un paesino nei dintorni del lago d’Orta. Era un omone, con modi ruvidi e casa da contadino, che noi si andava a visitare molto di rado e morì che ero ancora bambina. L’unico ricordo vivo che conservo di lui è un vocione pari alla sua taglia, con il quale amava ripetere: “Vi raccomando lo sgombero! Senza uno sgombero ben fatto non c’è verso di rimodernare come si conviene una casa”. Compresi molti anni dopo che quella era la sua versione personale delle riflessioni profonde di san Paolo sulla fede capace di trasformare un “uomo vecchio” in “uomo nuovo”

 

 

“Voi padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino”. (Col. 3,21)

Come è difficile capire, educare un figlio. Anche Giuseppe e Maria avranno avuto difficoltà umane in questo senso. Ci vuole durezza o morbidezza? Ecco una leggenda araba da interpretare: Il discepolo di un filosofo andò a trovare il Maestro sul suo letto di morte. “Non avete ancora qualcosa da dire al vostro discepolo?” gli chiese. Allora il Saggio spalancò la bocca e disse al giovane di guardarvi dentro. “C’è ancora la mia lingua?”, gli disse. “Certo”, rispose l’altro. “E i miei denti, ci sono ancora?”  “No”, replicò il discepolo. “E sai perché la lingua dura più a lungo dei denti? Perché è morbida, è flessibile, I denti cadono prima perché sono duri. Ora hai appreso tutto ciò che vai la pena di apprendere. Non ho altro da insegnarti

 

 

“Come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore”. (1 Ts. 5,2)

Un giovane sacerdote confidò un giorno a San Filippo Neri: Qui a Roma è facile a molte persone fare fortuna. Spero anch’io di avere buona sorte, e di ottenere, prima o poi, uno zucchetto da Monsignore. Ve lo auguro di tutto cuore rispose il santo ma poi, giunto a quel punto, quali sarebbero le vostre aspirazioni? Vi dirò in confidenza che, dopo lo zucchetto di monsignore, spero di ottenere un anello di Vescovo. Benissimo, e poi, che cosa intenderesti fare? Sapete come va il mondo: una volta Vescovo, non dispero di giungere a ricevere il rosso cappello cardinalizio. E poi... via! Sapete bene che è tra i Cardinali che viene scelto il nuovo Papa... e la fortuna a volte fa certi scherzi! E poi? E poi! Ma sapete che mi fate ridere con questo “e poi”? Vi sembra cosa da nulla essere Sommo Pontefice, capo di tutta la cristianità? Allora sarebbe il momento di godersi finalmen­te la vita, e rallegrarsi del destino glorioso che ci è stato riservato. E poi? E poi basta, che cosa volete di più? Ve lo dirò io fece il santo curvandosi all’orecchio del prete ambizioso. E così facendo disse tre volte, con voce chiara, tagliente: E poi morire; e poi morire; e poi morire!

 

 

“Chi non vuoi lavorare, neppure mangi”. (2Tess. 3,10)

Viveva in una città un uomo molto ricco di nome Kouo. Nella città vicina, un uomo poverissimo di nome Hiang. Quest’ultimo si recò dal primo perché gli svelasse il segreto della sua ricchezza. Sono un ladro, un ladro molto abile gli disse Kouo. E da quando mi sono dato al furto, il primo anno ho avuto di che vivere; il secondo, mi ero già messo dei denari da parte; il terzo, possedevo grandi ricchezze. Adesso, come puoi vedere, posseggo un’intera regione. Hiang fu soddisfatto della risposta, anche se aveva capito che si trattava di furti ma non di quali furti. Si mise a svaligiare case e templi arraffando quanto gli capitava fra mano, sino a che non fu arrestato, punito per le sue malefatte e costretto a vendere, per rifondere i danni, quel poco che possedeva.

Quando gli fu resa la libertà, sicuro che Kouo lo avesse ingannato, andò da lui a lamentarsi. Kouo gli chiese: Come ti sei organizzato? Hiang glielo spiegò. E Kouo gli rispose con un sospiro: Come hai potuto ingannarti sul mio tipo di furto? Ascolta. Ho inteso dire che il cielo ha le sue stagioni e la terra i suoi frutti. Ho rubato al cielo la virtù delle sue stagioni e alla terra i suoi frutti. Ho carpito i doni della pioggia e del sole per far crescere il mio grano e far maturare le mie messi. Sulla terra, ho rubato animali ed uccelli in libertà. Nel mare, pesci e tartarughe. Tutto ciò era furto poiché i cereali, i boschi, ogni tipo di animale sono tutti prodotti dal cielo, e nessuno di essi mi appartiene. Ma rubando al cielo non ho avuto alcun danno; mentre l’oro, le gìade, i gioielli, le stoffe sono beni che appartengono ad altri uomini. Come potrebbero essere ancora liberi doni del cielo? Quando li si ruba, si è puniti. Perché lamentarsene?

 

 

“Uno solo infatti è Dio”.  “uno solo, infatti, è Dio”. (1Tim. 2,5).                    

Un giorno che ricevette degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che ti prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”. Il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”.  Ecco ciò che conta più di tutto: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. “lo sto alla porta e busso”, dice Dio nella Bibbia. Aprirai, oggi, la tua porta?

 

“Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese”.

(1Tim. 2,8)

LE SCARPE NUOVE

C’era la riunione di preghiera, e Gian Luca, di dieci anni, per la prima volta vi era andato con suo papa. I membri dell’assemblea, inginocchiati, avevano molti importanti argomenti da presentare al Signore: le missioni, gli ammalati, i credenti perseguitati, le autorità del paese. Ma Gian Luca era distratto. A cinquanta centimetri da lui, c’era un bisogno che gli sembrava molto più urgente. In ginocchio dietro a suo padre, il ragazzino vedeva solo la sua schiena, curva davanti a Dio, e poi anche le suole bucate delle sue scarpe. Quelle scarpe bucate ecco ciò che impediva a Gian Luca di ascoltare! A casa, mancava il denaro per sostituirle. Mentre suo padre a sua volta intercedeva per i bisogni del mondo intero, Gian Luca rifletteva. Non riteneva giusto che, a forza di preoccuparsi degli altri, di dare per i missionari, per le vedove, per l’evangelo, si arrivasse ad avere un solo paio di scarpe e in quello stato. Ma Dio, avrebbe ascoltato un bambino, e per qualcosa di così banale? Nel suo cuore, fece salire questa preghiera: Signore, tu conosci mio papà, è per te che lavora, e ha bisogno di un paio di scarpe nuove. Quando, il giorno dopo, un fattorino suonò portando un pacco, il solo che non fosse stupito quando il pacco fu aperto era Gian Luca: esso conteneva un bel paio di scarpe nuove, e di buona fattura.

 

 

“Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te”. (2Tim. 1,6)

E’ prezioso questo consiglio di S. Paolo e non riguarda solo il vescovo Timoteo ma ciascuno di noi. La polvere del quotidiano è il pericolo più grave per la fede. Oggi una preoccupazione, domani la non voglia di pregare, un altro giorno un egoismo e poco per volta la fede, l’entusiasmo, la gioia perdono brillantezza e poi gradualmente spariscono. Un giorno un monaco venne a trovare il Profeta. E’ duro consacrarsi totalmente a Dio gli disse. E’ duro vivere solo per lui. Lo so. Ma ecco, ti voglio consolare. Un giorno il Signore mi diede questo messaggio. Oggi io lo dà a te. Quando sarai nella tua cella, leggilo. E leggilo ogni volta che sentirai sconforto. Il monaco partì e giunto nella sua cella lesse il messaggio. C’era scritto: “Colui che Mi cerca Mi trova. Colui che Mi trova Mi conosce. Colui che Mi conosce Mi ama. Colui che mi ama, lo  amo.”

 

 

“So in chi ho creduto e son con­vinto che Egli i capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato”. (2Tim. 1,12)

Questo atto di fede di San Paolo mi fa venire in mente la storia della vecchia Nancy sentita raccontare da un predicatore. Era una vecchia scozzese, ammalata che aspettava serenamente il momento della morte. Il parroco andava a trovarla ed era ammirato da come questa anziana parlasse e vivesse la Sacra Scrittura. Un giorno le pose questa sconcertante domanda: “Lei non ha mai dei dubbi, Nancy? E se malgrado tutte le sue preghiere, Dio permettesse che la sua anima si perda?” Nancy si drizzò sul gomito e pose la mano sulla sua preziosa Bibbia: “Mio caro giovane, è tutto ciò che ha da dirmi? Ma è Dio che farebbe la più grande perdita. Ammettiamo che la mia anima sia perduta, e questo dopo tutto non sarebbe una perdita così grave; ma Dio, Lui, perderebbe il suo onore e il suo carattere! Io ho avuto fiducia in Lui; ho preso in parola le sue pro­messe. Se Lui mancasse di parola, diventerebbe mentitore e l’universo precipiterebbe nel caos!”.

 

 

"Rifiuteranno di dar ascolto alla verità per volgersi alle favole". (2Tim. 4,4)

Il re Luigi XIV, spinto dalla curiosità, desiderava udire il celebre predicatore Massillon. Il suo nome era su tutte le bocche ed i suoi discorsi attiravano un numero sempre crescente di uditori. Anche sul re la seria predicazione di Massillon fece una grande impressione. Lo chiamò in udienza privata e gli disse: "Ho già sentito un gran numero di oratori ed in generale sono stato contento di loro, ma come mai, dopo aver udito la sua predicazione, sono tanto scontento di me stesso?". Così quel re bigotto, e nello stesso tempo tanto colpevole, risentiva del lato tagliente della Parola di Dio. Questa non solletica le orecchie, non lusinga, ma rivela all'uomo quello che egli è alla luce di Dio: un peccatore degno della condanna, che può essere salvato solo dal sangue di Gesù Cristo. Luigi XIV, sotto la prima impressione della predicazione, espresse la sua intenzione di ascoltare il predicatore Massillon almeno una volta all'anno. Ma, in realtà, questi non ricevette mai nessun altro invito da parte sua.

 

Quando la verità ti tocca. dentro e vuol cambiarti, per qualcuno è meglio non ascoltarla.

 

 

“La tua carità è stata per me motivo di gioia”. (Filemone 7)

Un giorno un contadino si presentò alla porta di un convento con in mano un magnifico grappolo d’uva. Quando il frate portinaio aprì la porta, il contadino, sorridendo, gli disse: Tieni, ti voglio regalare il grappolo più bello della mia vigna. A me? Il frate arrossì tutto per la gioia di quel dono. Lo vuoi regalare proprio a me? Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai sempre aiutato quando te lo chiedevo. E la gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del fraticello illuminava un po’ anche lui. Il frate portinaio mise il grappolo d’uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina. Ad un certo punto però gli venne un’idea: perché non portare il grappolo d’uva all’abate, per dare un po’ di gioia anche a lui? Prese così il grappolo e lo portò all’abate, il quale ne fu sinceramente felice. Ma si ricordò che c’era nel convento un vecchio frate ammalato e penso: Porterò a lui il grappolo, così si sentirà un po’ sollevato. Così il grappolo d’uva emigrò di nuovo. Ma non rimase a lungo nemmeno nella cella del frate ammalato. Costui pensò infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco, che passava la giornata a sudare sui fornelli, e glielo mandò. Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano, questi lo portò al frate più giovane del convento, che pensò bene di darlo a un altro. Finché, di frate in frate, il grappolo d’uva tornò al frate portinaio. La gioia che gli portò fu molto più grande di quella che aveva provato ricevendolo per la prima volta.

 

 

“Che giova, fratelli, se uno dice di aver la fede ma non ha le opere?”. (Gc. 2,14)

Un filosofo, osservando sua moglie nettare gli oggetti di casa, ritoccare i fiori nei vasi, rassettare la biancheria, pensò: “E’ ben vero che esistono due tipi umani: quelli che sanno usare le mani e quelli che sanno usare il cervello. Per fortuna io sono di questi ultimi. Poi la moglie morì, e nessuno ebbe più cura della casa del filosofo. Sulle prime egli non se ne dispiacque, perché nulla di quanto lo attorniava pensava poteva influenzare il suo pensiero. Ma sbagliava nel giudicare così. Perché le ragnatele, la polvere, il disordine fecero impallidire poco per volta la sua intelligenza, come se prima l’armonia di cui la moglie lo circondava ne fosse stata la vera radice. Il filosofo si ribellò a questa stupida ipotesi. Finché una sera, non riuscendo più a cucire un’idea con un’altra, raccolse per terra un vasetto che la moglie aveva decorato con le sue mani. Guardandolo rifletté: “Quella donna aveva delle abili mani”. Ma mentre diceva così i fiori che decoravano il vaso gli si depositarono in mano, vivi e profumati. Allora il filosofo che come tutti i filosofi aveva grandi pensieri e piccoli sentimenti capì che il lavoro della sua compagna, espresso dalle mani, era stato in realtà opera del suo cuore: un lavoro piccolo forse, ripetitivo, limitato, ma tale da fare da culla alla sua intelligenza. Il declino della sua mente era in verità iniziato quando il cuore di lei aveva cessato di battere.

 

 

“Da che cosa derivano le guerre e le liti che cono in mezzo a voi? Bramate e non riuscite a possedere”. (Gc. 4,1-2)

Questo racconto è tratto da "Il Novellino", opera del 13° secolo: Un romito entrò per riposare in una grotta. Vi trovò uno splendido tesoro, allora fuggì via gridando: "Ho visto la morte!" Tre banditi lo incontrarono e, non vedendo pericoli incombenti, gli chiesero: "Padre, dov'è questa morte? Faccela vedere."L'eremita li condusse alla grotta e fece loro vedere il tesoro scoperto. A quella vista i tre si sentirono risuscitare per la gioia e dissero al santo: "Hai ragione, Padre, vai pure lontano!" Rimasero soli, con quell'immenso tesoro. Però l'oro era molto: come trasportarlo? Si decide di mandare uno in città, per abbondanti provviste; gli altri due sarebbero rimasti a guardia di quella insperata fortuna. Ma... Ma quello che scende in città, abbagliato dallo splendore dell'oro, così tra sé ragiona: "Io, in città, mangerò e berrò; poi comprerò il cibo, ma lo avvelenerò; così i miei due amici moriranno e io sarò il solo padrone di tutto il tesoro". Ma i due rimasti a guardia così ragionarono: "Il tesoro, diviso in due, ha parti più grandi. Uccideremo il compagno, appena sarà tornato con il cibo. "E così fecero. Uccisero l'amico e mangiarono le provviste avvelenate. Morirono tutti e tre ingannati dal fascino delle ricchezze!

 

 

“Fratelli, siate anche voi pazienti”. (Gc. 5,7)

A proposito di pazienza, ecco alcuni apoftegmi dei padri del deserto. Un monaco. vedendo due uomini che portavano un morto su una barella, disse ad uno di loro: "Porti i morti? Va piuttosto a sopportare i vivi!" Due fratelli abitavano nello stesso luogo. Un giorno venne un anziano desideroso di metterli alla prova. Con un bastone cominciò a devastare gli ortaggi del primo fratello. Questo lo vide e si nascose. Ma quando rimase soltanto un cavolo uscì allo scoperto e disse al vegliardo: " Padre, se ti piace, lascialo: te lo cucinerò e lo mangeremo insieme". Il vegliardo allora si prostrò davanti a lui ed esclamò: " Grazie alla tua pazienza lo Spirito Santo è su di te fratello". Quando San Giovanni il piccolo era superiore del monastero di Scete, venne un giorno atrocemente insultato da un suo monaco. Il santo lo ascoltò in tutta tranquillità. E quando gli fu chiesto da uno dei suoi assistenti perché mai non gli avesse imposto il silenzio, dato che ciò era in suo potere, rispose: "Quando una casa brucia, non sarebbe da stolti buttarvi della legna? Quel buon fratello era talmente preda dell'ira che, se lo avessi ripreso in quel momento, la sua collera sarebbe ancora cresciuta invece che diminuire.

 

 

“Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, salmeggi”. (Gc. 5,13)

Un giorno mi lamentavo con un prete per le continue distrazioni nella preghiera. Senza troppi complimenti, mi disse: “Fatti furbo: fa diventare preghiera le distrazioni”. Un grande asceta, noto in tutto il mondo per la sua grande santità, abitava in una profonda caverna. Sedeva tutto il giorno immerso in profonda meditazione e il suo pensiero era sempre rivolto al Signore. Ma un giorno, mentre il santo asceta stava meditando, un topolino sbucò dall’ombra e comincia a rosicchiargli un sandalo. L’eremita apri gli occhi arrabbiatissimo. “Perché mi disturbi durante la meditazione?”. “Ma io ho fame”, piagnucolò il topolino. “Vattene via, topastro della malora”, sbraitò l’asceta, “come osi infastidirmi proprio mentre cerco l’unione con Dio?”. “Come fai a trovare l’unione con Dio chiese il topolino, “se non riesci neppure ad andare d’accordo con me?”.

 

“Siate ricolmi di gioia anche se dovete essere un po’ afflitti”. (1Pt. 1,6)

Racconta Blakhall, un uomo cieco: Vent’anni fa, quando ero ancora nuovo alla condizione di cieco, la mia figlia più piccola, che allora aveva undici anni, mi fornì una dose di coraggio sufficiente per tutta la vita. “Papà”, mi chiese un sabato mattina, “mi faresti un telescopio?” Come richiesta era un po’ eccessiva, ed io risposi dondolandomi sui talloni che non avevo le lenti adatte. “Ma”, aggiunsi con molta imprudenza, “se vai al villaggio e compri un paio di specchietti, ti faccio un periscopio”. Andò e tornò prima che potessi cambiare idea, mi procurò cartone e nastro adesivo e in meno di mezz’ora il periscopio era belle pronto. Pochi minuti dopo sentii mia figlia che, nella stanza accanto, faceva vedere il nuovo giocattolo a un compagno. “Lo ha fatto il mio papà”, disse come per caso. “Il tuo papà?” le fece eco incredulo il ragazzo, ed io aspettai con il fiato sospeso ciò che avrebbe risposto la mia bambina. “Lo ha fatto lui”, ripeté mia figlia, e aggiunse poi le parole che rimisero di nuovo ordine nel mio universo: “Le sue mani non sono cieche”.

 

 

“L’erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno”. (1Pt. 1,24)

Un giovane novizio si recò da un vecchio eremita. Quel giorno era terribilmente amareggiato: tutti gli sforzi che faceva per mettere in pratica la Parola gli sembravano inutili. Sì inginocchiò ai piedi dell’anziano monaco e con il volto fra le mani confessò: La mia vita spirituale è come un cesto di vimini: l’acqua della Parola vi scorre tutta via! Lascio questa vita e torno nei mondo. Il vecchio eremita abbracciò il novizio e lo istruì con dolcezza: Fratello, tu non conosci i poteri dell’acqua. L’acqua di sorgente compie nel cesto almeno due meraviglie: lo lava, e un cesto pulito può essere utile a molte cose, e poi rende più resistenti i vimini, affinché durino più a lungo. I medesimi effetti li opera in te la Parola di Dio. Forse tu non te ne accorgi, ma gli altri coloro che ti usano appunto come un recipiente sentono che possono fidarsi di te. Sentono che sei in grado di “contentarli”. Quale grande onore essere un cesto di vimini nella vigna del Signore, non trovi?

 

 

“Esorto gli anziani a non spadroneggiare sulle persone loro affidate, ma  a farsi modelli del gregge”. (1Pt. 5,1—3)

Un vescovo stava visitando le parrocchie a lui affidate quando capitò in uno sperduto paesino di montagna. Vedendo che il parroco era un tipo molto alla buona, lo classificò come un ignorante e prese a trattarlo dall’alto al basso. Immagino che lei non sia molto preparato neanche sui rudimenti del catechismo. Vediamo: quanti sono i peccati capitali? Otto rispose il parroco. Come immaginavo... commentò sprezzantemente il vescovo. Per sua norma e regola i peccati capitali sono sette. Ma Eccellenza, lei dimentica il disprezzo verso i propri simili.

 

 

“Dio resiste ai superbi ma grazia agli umili”. (1Pt. 5,5)

Tutto il Vangelo è un inno all’umiltà: pensate a Maria, a Giuseppe, ai poveri, pensiamo soprattutto a Gesù che “da ricco che era si fece povero per far ricchi noi”, pensiamo anche agli inviti di Gesù a diventare piccoli. Un ragazzo passeggiava con il nonno lungo il ciglio di un viottolo, in aperta campagna. Osservando un campo di messi biondeggianti, incantato da quel mare d’oro, si stupì nel vedere che alcune spighe piegavano in giù il loro stelo, toccando quasi terra, mentre altre se ne stavano ben dritte e slanciate verso il cielo. Chiese al nonno la spiegazione di quello strano mistero. Il nonno colse due spighe: una ripiegata, l’altra diritta; stritolò la prima e disse: Vedi, quella ripiegata è carica di frutti. Poi tentò di sgranare l’altra e disse: Vedi, questa è vuota. Accade spesso così anche fra gli uomini, ragazzo mio: le teste leggere s’innalzano scioccamente al di sopra delle altre...

 

 

“Cercate di essere irreprensibili davanti a Dio”. (2 Pt. 3,14)

C’era un vecchio che si guadagnava da vivere vendendo un po’ di tutto. Egli dava l’impressione di non essere tanto intelligente, poiché spesso la gente lo pagava con monete false e lui le accettava senza protestare, oppure dicevano di averlo pagato quando non era vero e lui si fidava della loro parola. Quando giunse la sua ora, egli alzò gli occhi al cielo e disse: “Oh, Dio! Ho accettato tante monete false dalla gente, ma non l’ho mai giudicata nel mio cuore. Mi sono limitato a pensare che non si rendevano conto di quello che facevano. Anch’io sono una moneta senza valore, ti prego, non giudicarmi”. Allora si udì una voce che diceva: “Com’è possibile giudicare qualcuno che non ha giudicato gli altri?”

 

 

“Ciò che era fin dal principio, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi”. (1 Gv. 1,1.3)

Un viaggiatore aveva preso una guida indiana per attraversare una regione particolarmente difficile del Nord America. Era inverno. La neve era caduta abbondantemente e ricopriva il suolo. Improvvisamente il viaggiatore scorse sulla neve delle orme umane non molto nitide. Qualcuno ha dunque potuto passare qui da solo! disse alla sua guida. Chi ha potuto avventurarsi così. in questa solitudine? Oh, replicò l’indiano, non ingannarti, uomo bianco, è passata di qua tutta una squadra! Ma, rispose il viaggiatore meravigliato, non è possibile! Io vedo qui le impronte di un solo uomo! La guida sorrise vedendo lo stupore del suo cliente. “Uomo bianco, tu ignori che, quando gli indiani si spostano, vanno uno dietro all’altro. il capo cammina in testa. il secondo mette i piedi nell’orma lasciata dal capo, il terzo fa lo stesso, e così di seguito fino all’ultimo, di modo che si vede una sola impronta di passi, là dove è passata un’intera tribù”. Non credete che la pista indiana dovrebbe essere il modello di quella che potrebbe essere chiamata la “pista cristiana”? Cristo, il Capo, ha lasciato le sue orme sulla terra ed ogni credente dovrebbe aver cura di mettere i suoi piedi nelle orme di quelli del suo Modello divino.

 

 

“Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” . (1 Gv. 1,5)

Una volta un re, convocò tutti i maghi, i sapienti e i sacerdoti del suo regno. Li minacciò dei castighi più terribili se non gli mostravano Dio. Quei poveretti si disperavano e si strappavano i capelli senza saper cosa fare, quando arrivò un pastore che annunciò a tutti di essere in grado di risolvere il problema. Si affrettarono a presentarlo al re. Il pastore allora condusse il sovrano su un terrazzo e gli indicò il sole. “Guardalo!”, disse. Dopo un istante, il re abbassò gli occhi, gridando: “Vuoi accecarmi?”. “Mio Signore”, disse il pastore, “il sole è solo una piccola cosa del Creatore, neanche una scintilla del suo splendore... come puoi pensare di posare gli occhi su Lui in persona?”.

 

 

“Il sangue di Gesù ci purifica da ogni peccato”. (1Gv1,7)

Erano le dieci passate e quella sera  due infermiere erano ancora al lavoro. Un operato stava causando loro serie preoccupazioni. Aspettavano il chirurgo con impazienza. Ogni minuto era prezioso, era in gioco la vita di un uomo. Finalmente il medico arrivò. Dopo aver esaminato il malato e riflettuto alcuni secondi, dichiarò: “Presto, quattro flaconi di sangue!” ed usci. Bisognava agire, nella scorta c’era soltanto un flacone del gruppo richiesto. Una delle infermiere apparteneva a quel gruppo sanguigno; decise di dare il proprio sangue. Due ore più tardi ella era sola nella sua camera. Benché stanca, non si addormentò subito. Pensava a Colui che, per amore per lei, aveva dato molto di più, tutto il suo sangue, quel sangue di cui la Bibbia dice: “il sangue di  Gesù ci purifica da ogni peccato’. (1Gv. 1,7). Con una trasfusione si era potuta prolungare una vita. Con il sangue di Cristo, il peccato, quella malattia che rode tutta l’umanità, può essere perdonato. Non esiste altro rimedio a questo male: “In nessun altro è la salvezza; poiché non v’è sotto il cielo alcun altro nome che sia stato dato agli uomini, per il quale noi abbiamo ad essere salvati” (At. 4,12).

 

 

“Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto”. (1 Gv. 2,1)

Si racconta che Federico il Grande un giorno fu avvicinato da un pover uomo che voleva parlargli. “Non ho tempo per ascoltarti”, gli disse il re senza fermarsi. “Sire, ho solo due parole da dirvi”. “Bene  rispose Federico  ma due parole, non una di più”. “Fame, freddo”, esclamò l’infelice al posto del piccolo discorso che si era preparato. “Pane, carbone” rispose il re con altrettanta brevità. E gli fece pervenire cento talleri. Non è forse possibile riassumere ugualmente in due parole lo stato di miseria nel quale è immersa la razza umana? Queste due parole sono: Peccato e Morte. Per mezzo del peccato del primo uomo, la morte è entrata nel mondo, e “la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Rom. 5,12). Dunque è proprio il peccato che è all’origine di tutti i mali di cui soffre l’umanità, in particolare del più terribile di tutti, la morte, quell’ombra che aleggia su noi come una minaccia permanente. Riconosciamo questo fatto. E poi? Facciamo come il povero mendicante: avviciniamoci al Dio sovrano che è sempre pronto ad ascoltarci, e, senza molte parole, confessiamo il nostro stato tragico e senza rimedio. Egli ci ascolterà, e a sua volta pronuncerà le parole di cui la nostra anima ha bisogno. La sua risposta è pure racchiusa in due parole: Perdono e Vita eterna. Sì, la sua Parola, la Bibbia contiene questa duplice promessa: “Chiunque crede in Lui riceve la remissione dei peccati” (At. 10,43) e “Chi crede nel Figliuolo ha vita eterna” (Gv. 3,36).

 

 

“Il mondo passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”. (1Gv. 2,17)

Una storia ebraica narra di un rabbino saggio e timorato di Dio che, una sera, dopo una giornata passata a consultare i libri delle antiche profezie, decise di uscire per la strada a fare una passeggiata distensiva. Mentre camminava lentamente per una strada isolata, incontrò un guardiano che camminava avanti e indietro, con passi lunghi e decisi, davanti alla cancellata di un ricco podere. “Per chi cammini, tu?”, chiese il rabbino, incuriosito. Il guardiano disse il nome del suo padrone. Poi, subito dopo, chiese al rabbino: “E tu, per chi cammini?”. Questa domanda, conclude la storia, si conficcò nel cuore del rabbino. E tu, per chi cammini? Per chi sono tutti i passi e gli affanni di questa giornata? Per chi vivi? Puoi vivere solo per qualcuno. Ad ogni passo, oggi, ripeti il suo nome. Mai avrai avuto una giornata così leggera.

 

 

"Egli ha dato la sua vita per noi: quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli". (1Gv. 3,16)

Un racconto di L. Tolstoj: Tre viandanti si trovavano insieme presso una sorgente che scaturiva dalla roccia sulla quale c'era la scritta: "La sorgente sia il tuo modello". I tre discussero sul significato della frase. Il primo disse: "La sorgente, lungo il suo percorso raccoglie altre acque e diventa un grosso fiume. Anche l'uomo deve ingrossare, durante la sua vita, il suo capitale per diventare ricco. Il secondo disse: "Per me la scritta vuol dire che l'uomo, nel suo modo di parlare, deve essere limpido come l'acqua di questa fonte". Il terzo, che era un uomo saggio, disse: "La sorgente deve essere modello all'uomo. Essa dà da bere a tutti, senza richiederne niente, fa del bene a tutti, senza aspettare alcuna ricompensa.

 

 

“Se uno ha ricchezze in questo mondo e vedendo suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?”. (1Gv. 3,17)

Un lebbroso, vestito di miseri stracci, se ne stava seduto per terra a chiedere l’elemosina. I passanti impietositi lasciavano cadere qualche soldo nel suo berretto rovesciato, posato ai suoi piedi. Ma il povero derelitto non faceva mai un cenno di ringraziamento, né con il capo né con le labbra. Allora un tale, stupito di questo comportamento, gliene chiese la ragione. Ma come! sbottò l’altro Iddio si serve di me per darti la possibilità di fare una buona azione, un atto caritatevole, e dovrei essere io a dire grazie a te? Tocca piuttosto a te ringraziare me perché così ti puoi guadagnare il Paradiso! Rise quel tale e allontanandosi pensò che, dopo tutto, quell’infelice aveva ragione: il bene che facciamo agli altri, in verità, lo facciamo ancora più a noi stessi. Da allora, tutte le volte che incontrava il povero lebbroso, gli dava due monete: una per elemosina, in segno di carità; l’altra per riconoscenza, in segno di ringraziamento.

 

 

“Questo è il suo comandamento: che ci amiamo gli uni gli altri”. (1 Gv. 3,23)

Proviamo a meditare oggi con questa bella favola di Gianni Rodari.

L’UOMO PIU’ BRAVO DEL MONDO

Conosco la storia dell’uomo più bravo del mondo ma non so se vi piacerà. Si chiamava Primo, e fin da piccolo aveva deciso: “Primo di nome, primo di fatto. Sarò sempre il primo in tutto”. E invece era sempre l’ultimo. Era l’ultimo ad aver paura, l’ultimo a scappare, l’ultimo a dir bugie, l’ultimo a far cattiverie, ma così ultimo che cattiverie non ne faceva per niente. I suoi amici erano tutti primi in qualche cosa. Uno era il primo ladro della città, l’altro il primo prepotente del quartiere, un terzo il primo sciocco del casamento. E lui, invece, era sempre l’ultimo a dire sciocchezze, e quando veniva il suo turno di dirne stava zitto. Era l’uomo più bravo del mondo, ma fu l’ultimo a saperlo. Così ultimo che non lo sapeva per niente.

 

 

“Il suo volto somigliava al sole”. (Ap. 1,16)

Un uomo, venuto di lontano a visitare una grande città, notò con dolore che i volti dei suoi abitanti erano grigi e i loro occhi senza luce. Alcuni uomini lo avvicinarono, attratti dalla luminosità del suo sguardo e dal suo aspetto rubizzo. Di dove vieni, straniero? gli chiesero. Vengo dal deserto di Dio rispose l'uomo. E che cosa è mai?  lo interrogarono. E’ un luogo in cui si. prega, si ringrazia e si adora Dio. Gli uomini divennero di colpo ancora più grigi nel volto e nello sguardo. Dio, noi l’abbiamo abbandonato disse uno di loro. Ci era di peso, di fatica e d’ingombro. Forse è per questo che i vostri volti hanno perso ogni luce osservò l’uomo. Poi azzardò: Vogliamo provare a richiamano? Ma è difficilissimo! esclamarono in coro gli uomini. Figurarsi se si ricorda di noi... Al contrario rispose l’uomo del deserto di Dio. Non aspetta che questo. Sulle mura della città l’uomo pronunciò una preghiera, e gli altri si unirono a lui. Fu allora che un raggio di sole spazzò via un po’ di grigiore dai loro visi e la nebbia dai loro occhi. Che meraviglia! esclamarono guardandosi gli uni gli altri. Andiamo a far pregare tutta la città! Ma l’uomo del deserto li fermò: Non è così facile come pensate. Voi siete venuti da me perché, vedendomi, avete ricordato l’aspetto che avevate prima. Ma gli altri? E’ necessario che i vostri volti emanino una tale luce che colpisca anche i più indifferenti. Per questo è necessario che veniate con me nel deserto di Dio. Gli uomini lo seguirono e per parecchi anni, vivendo in semplicità nella mano di Dio, Lo pregarono, ringraziarono e adorarono. Quando ritornarono in città, i loro occhi erano splendenti come gemme, e il loro viso luminoso come brace. Non avevano bisogno di parlare, non avevano bisogno di spiegare, non avevano bisogno di discutere, perché gli uomini s’interessassero a loro. Era sufficiente che mostrassero il loro volto.

 

 

“Ho da rimproverarti che hai abbandonato il tuo  amore di un tempo”. (Ap. 2,4)

Molti anni or sono, un umorista italiano, Giovanni Mosca, fece rappresentare all'Eliseo di Roma la commedia intitolata “L’ex—alunno”. Nel dialogo, un ispettore scolastico chiede al professore: “E a religione come stiamo?”. “Male, male”, risponde quello: “non ci sono più atei”. “E questo, scusate, sarebbe un male?”. “Ma sì”, dice il professore: “dove li trovate più quei begli atei d’un tempo, che gridavano guardando il cielo in atto di sfida: “Non credo”, e la notte, poveretti, non dormivano più dalla paura, e di giorno camminavano sempre temendo di trovarsi a faccia a faccia col Dio che avevano negato? Erano la prova vivente dell’esistenza di Dio. E poi, in vecchiaia, tutti in chiesa, ai primi banchi, le braccia conserte... perché Gesù li vedesse, come gli scolaretti che vogliono farsi notare dal maestro. Quelli sì che erano tempi in cui la religione prosperava. Oggi invece tutti tiepidi. Non c’è chi gridi: “Non credo”, ma non c’è neppure chi abbia il coraggio di gridare: “lo credo!”. Il problema di Dio è un lusso, un di più: siamo troppo presi   dalla televisione, dagli affari, dalla velocità, dai viaggi…

 

 

“Conosco le tue opere: tu non sei né caldo né freddo”. (Ap. 3,15)

Un giorno, a un luminare della medicina venne chiesto quale fosse la più grave malattia del secolo. I presenti si aspettavano che dicesse il cancro o l’infarto. Grande fu lo stupore generale quando lo scienziato rispose: L’indifferenza! Tutti allora si guardarono negli occhi e ognuno si accorse di essere gravemente ammalato. Infine gli domandarono quale ne fosse la cura. E lo scienziato disse: Accorgersene!

 

 

“Ecco, io sto alla porta e busso'”.(Apoc.3,20)

Gesù è sempre una   proposta, mai una imposizione: egli è come un viandante che bussa alla tua porta, sembra per chiederti qualcosa, ma se gli apri è Lui che inonda la tua casa di doni. Holman Hunt, pittore, quando espose il suo famoso quadro “Cristo che batte alla porta dell’anima”, invitò i critici ad esprimere il loro giudizio. Nes­suno trovava alcun difetto; finalmente un tale si fece avanti e disse: “Scusate, signor Hunt, ma io trovo una mancanza nel vostro quadro: avete dimenticato di mettere la maniglia a quella porta. Come si può entrare?” “Giovanotto rispose allora tranquillamente il pittore la porta alla quale batte Cristo si apre solo dal di dentro!” Siamo noi che dobbiamo aprire a Cristo, farlo entrare, farlo crescere in noi.

 

 

Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle”. (Ap. 12,1)

C'era una volta, tanti secoli fa, una città famosa. Sorgeva in una prospera vallata e, siccome i suoi abitanti erano decisi e laboriosi, in poco tempo crebbe enormemente. Ma un brutto giorno, i suoi abitanti decisero di eleggere un re. Le trombe d'oro degli araldi li riunirono tutti davanti al Municipio. Non mancava nessuno. Poveri e ricchi, giovani e vecchi si guardavano in faccia e parlottavano a bassa voce. Lo squillo argentino di una tromba impose il silenzio a tutta l'assemblea. Si fece avanti allora un tipo basso e grasso, vestito superbamente. Era l'uomo più ricco della città. Alzò la mano carica di anelli scintillanti e proclamò: "Cittadini! Noi siamo già immensamente ricchi. Non ci manca il denaro. Il nostro re deve essere un uomo nobile, un conte, un marchese, un principe, perché tutti lo rispettino per il suo alto lignaggio". "No! Vattene! Fatelo tacere! Buuuu!" I meno ricchi della città cominciarono una gazzarra indescrivibile. "Vogliamo come re un uomo ricco e generoso che ponga rimedio ai nostri problemi!". Nello stesso tempo, i soldati issarono sulle loro spalle un gigante muscoloso e gridarono, agitando minacciosamente le picche: "Questo sarà il nostro re! Il più forte!". Nella confusione generale, nessuno capiva più niente. Suonò di nuovo la tromba. Poco a poco, la moltitudine si acquietò. Un anziano, sereno e prudente, salì sul gradino più alto e disse: "Amici, non commettiamo la pazzia di batterci per un re che non esiste ancora. Chiamiamo un bambino innocente e sia lui ad eleggere un re tra noi". Presero per mano un bambino e lo condussero davanti a tutti. L'anziano gli chiese: "Chi vuoi che sia il re di questa città così grande?" Il bambinetto li guardò tutti, si succhiò il pollice e poi rispose: " I Re sono brutti. Io non voglio un re. Voglio che sia una regina: la mia mamma". Le mamme al governo. E' un'idea magnifica. Il mondo sarebbe certamente più pulito, si direbbero meno parolacce, tutti darebbero la mano ad uno più grande prima di attraversare la strada. Dio l'ha pensata allo stesso modo. E ha fatto Maria.

 

 

“Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’agnello”. (Ap. 18,9)

UNA LEZIONE IMPORTANTE

C’era una volta in Giappone un vecchio sapiente, governatore di una grande città. Questi, un giorno, invitò tutte le persone importanti della città a un grande banchetto che aveva preparato per loro. Sulle lunghe tavole erano preparati cibi variopinti e gustosi, ma la grande sala del banchetto restava silenziosa e un’aria di imbarazzo e di tristezza gravava sui convitatì. Il governatore, infatti, aveva preparato cibi squisiti, ma si dovevano mangiare con i bastoncini e non erano stati preparati che bastoncini tanto lunghi che non era possibile adoperarli per portare il cibo alla propria bocca. L’imbarazzo andava crescendo e con esso la rabbia impotente degli invitati. Ad un tratto, però, uno di essi ebbe una idea geniale: con i suoi lunghi stecchetti, prese un bocconcino di carne e lo accostò alle labbra del commensale che gli stava davanti. Questi mangiò con gioia e fece altrettanto, offrendo da mangiare a un altro invitato. Tra risate ed approvazioni, tutti cominciarono a servire i commensali vicini. La gioia si diffuse rapidamente e, fu ben più grande di quanto sarebbe stata se ciascuno avesse pensato solamente a se stesso. Verso la fine del pranzo singolare, il governatore prese la parola e disse: Vi ho raccolti per darvi un grande insegnamento. La nostra vita assomiglia a questo banchetto: non troveremo la felicità che servendo il nostro prossi­mo, come voi non avete trovato la gioia del pranzo che servendovi gli uni gli altri.

 

 

“Vidi poi un cielo nuovo e una nuova terra perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi”. (Apoc. 21,1)

Una antica leggenda araba racconta che per ogni azione cattiva compiuta dagli uomini, Allah gettò nell’Eden originario un granello di sabbia. Così si formò il Sahara, Otto milioni di chilometri quadrati, dominati da massicci alti fino a tremila metri, e caratterizzato oltre che da sassi anche dalle grandi dune di sabbia. Chissà se l’Apocalisse, parlandoci di “cieli nuovi e terra nuova” non volesse solo dirci la ricostruzione finale del mondo futuro ma volesse anche dirci che ogni azione buona toglie un granello di sabbia al deserto sconfinato, e collabora quindi alla costruzione del mondo nuovo? E’ vero che sulla terra di male ce n’è tanto, ma c’è anche tanto bene, a volte nascosto. E’ vero che fa rumore un albero che cade mentre ne fa poco una foresta che cresce. Eppure da quando Gesù il seme di salvezza del mondo, è stato seminato sulla croce e con il suo sangue ha irrigato la terra, il cielo nuovo e la terra nuova sono iniziati. Noi ne facciamo già parte, sta anche a noi creare o montagne di sabbia o prati pieni di fiori.

 

 

“Chi ha sete, venga”. (Apoc. 22,17)

Tre arabi si recarono in pellegrinaggio alla Mecca. Dovettero attraversare il deserto e persero la strada. Stremati stavano per morire di sete. Invocarono Dio che li esaudì e fece scaturire davanti ai loro occhi increduli, una sorgente d’acqua fresca. Il primo la guarda e diffidente disse: “E’ impossibile che Dio faccia di questi prodigi. Egli ha già creato tutte le acque, non c’è bisogno che ne crei altre: questa sorgente non può essere che un “miraggio”. Tirò innanzi e morì i di sete. Non arrivò alla Mecca. Il secondo invece si fermò, guardò la sorgente con sospetto: forse è avvelenata, inquinata, bisognerebbe esaminarla prima di berla. Ci vuole una commissione di esperti. E tirò avanti a morire di sete per paura di morire avvelenato. Non arrivò alla Mecca.  Anche il terzo si fermò. Intinse un i dito nell’acqua e l’assaggiò: sentì che era fresca, limpida e di buon sapore: ne bevve avidamente.  Arrivò alla Mecca e raccontò l’episodio alle autorità che mandarono una commissione di esperti che la esaminarono e la trovarono batteriologicamente pura e sicura. Mentre la commissione ritornava alla Mecca, lungo il deserto apparve il volto triste del buon Dio che disse: “E pensare che volevo solo salvare, aiutare, evitare a quei i poveri figli la morte per sete”.

     
     
 

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