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I Racconti della Parola al giorno

nel Vangelo di Matteo

 

 

 

 

 

 

 

 

“Giuseppe non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”.  (Mt. 1,20)

Oggi sentiamo molto parlare di Islam. L’Islamismo ha una grande considerazione di Maria. Ecco, una pagina poetica sulla verginità di Maria scritta da At Tabari morto nel 932.

Giuseppe accorgendosi che Maria è incinta così le parla: Giuseppe Mi si affacciò qualcosa a tuo riguardo; ho fatto il possibile per non badarci; ma ora debbo cedere; parlarne porterà sollievo al mio cuore. Maria Parla, e tieni dei bei discorsi. Giuseppe Non me ne piacciono altri. Il grano nasce forse senza che sia stato seminato?  Maria Sì. Giuseppe Gli alberi crescono forse senza pioggia? Maria Sì. Giuseppe Si può forse avere un figlio senza padre?  Maria Sì. Non sai che Dio “benedetto ed esaltato” fece nascere il grano quando lo creò senza aver bisogno di semente? La semente attuale proviene  da quel grano che Dio fece spuntare per la prima volta senza semente. E non sai che Dio, con la sua potenza, ha fatto crescere gli alberi senza il  soccorso della pioggia? E’ con questa stessa potenza che egli ha reso la pioggia capace di vivificare gli alberi. Oppure andrai a dire che Dio non poteva far crescere gli alberi senza ricorrere alla pioggia? Giuseppe No, io non dico questo, perché so che Dio può tutto ciò che vuole. Dice a una cosa “sii” ed essa è. Maria Non sai che Dio creò Adamo e sua moglie senza il soccorso di un padre e di una madre? Giuseppe Sì, lo so. Quand’ella ebbe così parlato Giuseppe intuì che lo stato di lei dipendeva da un volere di Dio, e non l’avrebbe più dovuta interrogare su questo argomento che era un suo segreto.

 

 

“Essa partorirà un Figlio e tu lo chiamerai Gesù”. (Mt. 1,21)

Un giorno, raccontando ai bambini la leggenda di S. Martino che divise il suo mantello e ne diede la metà ad un mendicante nudo, fui interrotto da un bimbetto che diceva: “Il mendicante era Dio!”. E subito un altro intervenne: “Martino ha fatto bene”. Chiedo: “Perché?” La risposta fu semplice: “Se no Dio sarebbe morto di freddo”. E’ necessario dividere, perché Dio tra noi non muoia di freddo. Pensando a Gesù che si fa uomo, a Gesù che non trova ospitalità, ai tanti uomini che ancora oggi muoiono di fame e di freddo, non lasciamo che di freddo muoia anche il nostro cuore indifferente.

 

 

"Alcuni Magi giunsero da Oriente e domandavano: Dov'è il Re dei Giudei che è nato?" (Mt. 2,1—2)

Tre saggi del nostro tempo, in cerca di pace, giunsero alla moderna Betlemme, com'è talvolta chiamata la sede delle Nazioni Unite. Vi incontrarono Giuseppe, l'ingegnere capo. Egli spiegò loro che per avere la pace bisognava possederne il segreto. Ciascuno disse di possedere la chiave della pace, e aprirono le loro valigie. Il primo presentò l'oro, ossia la potenza finanziaria che può distribuire viveri e armi alle nazioni e fare molti alleati. Il secondo saggio presentò l'incenso, ossia la moderna scienza chimica. Grazie ad essa, spiegò, un atomo d'idrogeno spaccato da un neutrone provoca a sua volta la disintegrazione di altri atomi fino a sprigionare una potenza capace di annientare la vita in vastissime zone della terra. Il terzo saggio era un professore di università, e tirò fuori un volume intitolato: "La filosofia della mirra", ossia un trattato sulla disperazione per insegnare il modo di vivere allo sbaraglio senza gli impacci della superstizione religiosa e del mito di Dio. Quando Giuseppe ebbe ricevuto i tre doni, scosse la testa e disse che non bastavano per entrare nella Betlemme della vera pace. Quelli allora protestarono: "Che cosa c'è di meglio al mondo che l'oro, la forza atomica e la libertà dagli orpelli del soprannaturale? Che cosa abbiamo dimenticato che possa dare al mondo la pace all'infuori della libertà dal bisogno, dalla debolezza e dalla paura?". Giuseppe sussurrò qualche cosa all'orecchio del primo saggio che impallidì. Sussurrò qualcosa all'orecchio del secondo e del terzo saggio, e divennero tristi e pensierosi. Poi trasalirono ricordando. Sì, avevano dimenticato una cosa. Avevano dimenticato la Madre, e il Bambino; avevano preteso di avere la pace senza il Principe della Pace, di possedere la ricchezza senza l'Amore, la scienza senza la Coscienza, la libertà senza la Verità.

 

 

“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: Convertitevi”. (Mt. 4,17)

Quante volte abbiamo sentito questo invito alla conversione, e quante volte abbiamo pensato che per convertirsi davvero, avremmo dovuto fuggire dalla situazione attuale. Una civetta incontrò una quaglia che le chiese: Dove vai? Vedo che stai preparando armi e bagagli... Me ne vado in Oriente rispose la civetta. E perché mai? chiese la quaglia Non ti trovi bene qui? La gente del villaggio odia il mio stridulo verso. Per questo ho deciso di partire. Allora la quaglia osservò: Quel che dovresti fare è cambiare il tuo stridulo verso. Se non lo sai fare, sarai malvista ovunque. (Liu –kiang)

 

 

“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. (Mt. 5,4)

E’ una delle beatitudini più difficile da capire e da vivere perché la prova, l’afflizione, la sofferenza non piacciono a nessuno. Nell’estate 1831, un violento nubifragio sradicò un albero gigantesco negli Urali. La mattina seguente furono trovate sotto le sue radici delle magnifiche pietre verdi. Era venuto alla luce un nuovo giacimento di smeraldi. Dopo un vasto smottamento di terreno sul versante indiano dell’Himalaia, al tramonto si videro brillare sulla terra smossa delle pietruzze azzurre. Erano gli zaffiri del Cachemire. Forse anche nella nostra vita c’è una tempesta o c’è stato un “terremoto” nella vostra esistenza. E voi vi chiedete: “O Dio, perché hai permesso questo?”. Si tratta forse della malattia, di un lutto, di preoccupazioni, di delusioni o di grandi dispiaceri. Eppure questa può essere l’occasione per scoprire nuovi tesori. Ci sono cose che non si vedono se non dagli occhi che hanno pianto.

 

 

“Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone”. (Mt. 5,16)

Una nuvola giovane giovane (ma, è risaputo, la vita delle nuvole è breve e movimentata) faceva la sua prima cavalcata nei cieli, con un branco di nuvoloni gonfi e bizzarri. Quando passarono sul grande deserto del Sahara, le altre nuvole, più esperte, la incitarono: “Corri, corri! Se ti fermi qui sei perduta”. La nuvola però era curiosa, come tutti i giovani, e si lasciò scivolare in fondo al branco delle nuvole, così simile ad una mandria di bisonti sgroppanti. “Cosa fai? Muoviti!”, le ringhiò dietro il vento. Ma la nuvoletta aveva visto le dune di sabbia dorata: uno spettacolo affascinante. E planò leggera leggera. Le dune sembravano nuvole d’oro accarezzate dal vento. Una di esse le sorrise. “Ciao” le disse. Era una duna molto graziosa, appena formata dal vento, che le scompigliava la luccicante chioma. “Ciao. lo mi chiamo Ola”, si presentò la nuvola. “Io, Una”, replicò la duna. “Com’è la tua vita lì giù?”. “Bè... Sole e vento. Fa un po’ caldo ma ci si arrangia. E la tua?”. “Sole e vento.., grandi corse nel cielo”. “La mia vita è molto breve. Quando tornerà il gran vento, forse sparirò”. “Ti dispiace?”. “Un po’. Mi sembra di non servire a niente”. “Anch’io mi trasformerò presto in pioggia e cadrò. E’ il mio destino” La duna esitò un attimo e poi disse: “Lo sai che noi chiamiamo la pioggia Paradiso?”. “Non sapevo di essere così importante”, rise la nuvola. “Ho sentito raccontare da alcune vecchie dune quanto sia bella la pioggia. Noi ci copriamo di cose meravigliose che si chiamano erba e fiori”. “Oh, è vero. Li ho visti”. “Probabilmente io non li vedrò mai concluse mestamente la duna. La nuvola rifletté un attimo, poi disse: “Potrei pioverti addosso io...”  ‘‘Ma morirai…” “Tu però, fiorirai”, disse la nuvola e si lasciò cadere, diventando pioggia iridescente. Il giorno dopo la piccola duna era fiorita. Una delle più belle preghiere che conosco dice: “Signore, fa’ di me una lampada. Brucerà me stesso, ma darò luce agli altri”.

 

 

“Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti”. (Mt. 5,17)

Abituati a forme di stretto legalismo spesso ci è comodo pensare che Gesù ci esima da ogni legge e osservanza. Ma le norme dell’Antico Testamento, vissute con amore sono come una lampada che ci permette di incontrare la luce di Cristo. Nei tempi remoti, in Giappone, si usavano lanterne di carta e di bambù con le candele dentro. Una notte, a un cieco che era andato a trovarlo, un tale offrì una lanterna da portarsi a casa. “A me non serve una lanterna”, disse il cieco. “Buio o luce per me sono la stessa cosa”. “Lo so che per trovare la strada a te non serve una lanterna”, rispose l’altro, “ma se non l’hai, qualcuno può venirti addosso. Perciò devi prenderla”. Il cieco se ne andò con la lanterna, ma non era ancora andato molto lontano quando si sentì urtare con violenza. “Guarda dove vai!”, esclamò il cieco allo sconosciuto. “Non vedi questa lanterna?!”. “La tua candela si è spenta, fratello”, rispose lo sconosciuto.

  

 

“Non sono venuto per abolire la Legge ma per darle compimento”. (Mt. 5,17)

Presso gli ebrei il rispetto del sabato, il giorno consacrato al Signore, era in origine un fatto gioioso, ma troppi rabbini insistettero nell’accumulare ingiunzioni sul modo esatto di osservarlo, il tipo di attività permesse, finché ci fu chi non osava neppure muoversi di sabato per paura di trasgredire a qualche regola. Baal Shem, figlio di Eliezer, meditava spesso su questo problema. Una notte fece un sogno. Un angelo lo portò in cielo e gli mostrò due troni collocati molto più in alto degli altri. “A chi sono destinati?”, domandò. “Per te”, fu la risposta, “se farai uso della tua intelligenza, e per un uomo di cui ora ti verrà consegnato il nome e l’indirizzo, poi fu condotto nel più profondo dell’inferno e gli furono mostrati due sedili vuoti. “Per chi sono stati preparati?” domandò. “Per te”, fu la risposta, “se non farai uso della tua intelligenza, e per un uomo di cui ora ti verrà consegnato il nome e l’indirizzo Nel suo sogno Baal Shem fece visita all’uomo che sarebbe stato suo compagno in paradiso. Lo trovò che viveva fra i gentili, del tutto ignaro dei costumi ebraici e al sabato preparava un banchetto in cui c’era molta allegria e a cui erano invitati tutti i gentili suoi vicini. Quando Baal Shem gli chiese perché dava quel banchetto, l’uomo rispose: “Mi ricordo che durante la mia infanzia i miei genitori mi insegnavano che il sabato era un giorno di riposo e di gioia; perciò tutti i sabati mia madre preparava i cibi più succulenti e durante il pranzo cantavamo, ballavamo e facevamo festa. Anch’io oggi faccio lo stesso Baal Shem cercò di istruire l’uomo sugli usi della sua religione, poiché egli era un ebreo ma evidentemente ignorava le norme rabbiniche. Ma restò ammutolito quando si accorse che la gioia di quella persona nel giorno di sabato sarebbe stata sciupata se fosse stato reso edotto delle sue mancanze. Baal Shem, sempre in sogno, si recò poi a casa del suo compagno di inferno, rigidamente osservante della Legge, sempre preoccupato che la sua condotta fosse corretta. Il poveretto trascorreva ogni sabato in tensione per lo scrupolo, come se stesse seduto sui carboni ardenti. Quando Baal Shem provò a rimproverarlo perché era troppo schiavo della Legge, gli fu tolta la facoltà di parlare, poiché si rese conto che l’uomo non avrebbe mai capito che l’osservanza delle norme religiose poteva trarlo in errore. Grazie a queste rivelazioni ricevute in sogno, Baal Shem Tov creò un nuovo modello di obbedienza, secondo cui Dio è venerato nella gioia che nasce dal cuore.

 

 

“Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore". (Mt. 5,28)

E’ la fedeltà e la sincerità del cuore che conta per il Signore. La frase di Gesù e questa novella araba possono darci spunti di riflessione. Un giovane beduino, vagando nel deserto, capitò accanto ad un pozzo vicino al quale si trovava ad attingere acqua una ragazza splendida come la luna piena. Le si avvicinò e le disse:  “Sono perdutamente innamorato di te!”. La giovane rispose:  “Accanto alla sorgente c‘è un’altra donna, tanto bella che io non sono degna di farmi sua serva Il giovane si voltò: non c’era nessuno. Allora la ragazza esclamò:  “Quanto è bella la sincerità e quanto è brutta la bugia! Dici d’amarmi e basta ch’io ti parli di un’altra donna per farti voltare!”.

 

 

“Sia il vostro parlare si, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. (Mt. 5,37)

Se potessimo, alla fine di una giornata avere il conto delle parole buone dette, di quelle inutili e di quelle cattive, le cifre delle ultime due ci stupirebbero. Il discepolo non vedeva l’ora di riferire al maestro le chiacchiere che aveva sentito al mercato. “Aspetta un momento”, disse il maestro. “Quello che vuoi dirci è vero?”  “Non credo”. “E’ utile?”. “No”. “E’ divertente?”. “No”. “Allora perché dovremmo starle a sentire?”.

    

      

“Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?”. (Mt. 5,46)

Oggi si fa nostro compagno di viaggio un datato libro di quell’apostolo dei lebbrosi che fu Raoul Follereau. Due episodi forse ci possono provocare, ma anche aiutare a capir qualcosa sulla carità.

  1. “Signora, sono venuto per i poveri”. La Signora dal bagno risponde: “Dategli il vecchio abito del Signore e la bambola che Marilena non vuole più. Ah… e poi il piccolo orso, sapete quello che sta là in alto, sull’armadio. E’ rotto ma piacerà lo stesso”. E mentre l’importuno si confonde di gratitudine, la porta sbatte, Madama si distende nella vasca, lo sguardo vago e compreso, con il pensiero al “bene che ho fatto”. Eppure ha appena commesso un gesto riprovevole. No, signora, i Poveri non devono sbrogliarsela con i vostri rifiuti. Sbarazzarsi sul dorso degli infelici o tra le braccia dei loro piccoli di quanto si sarebbe certamente gettato nel secchio dei rifiuti è un gesto sordido. E non c’è di che farne inorgoglire il vostro cuore… Voi non avete ben capito che i poveri sono degli uomini, che i bimbi dei poveri sono figli di esseri umani e che, anche se l’accettano per crudele necessità, non vogliono quello che voi non volete più. Carità questa? La carità dell’osso che si getta al cane.

  2. Secondo episodio raccontato da Follereau: Con una bella banconota tutta nuova, questa signora, altrimenti molto ‘distinta’, mi indirizza le seguenti righe che “suonano bene”: “Non mandatemi più simili libretti con quelle orribili fotografie dei lebbrosi. Ne ho, da due notti, dei sogni orribili. Ecco dieci franchi per loro; ma per l’amor di Dio (dove va a finire l’amor di Dio!) che non ne senta più parlare!” Le ho risposto: “Che Iddio faccia sì che i vostri cattivi sogni durino ancora. E’ il bene più grande che io possa augurarvi. Fino al giorno in cui queste fotografie che trovate orribili (Ah! Se si potessero fotografare le anime!) non provocheranno più la vostra ripugnanza e meno ancora una pietà che siete incapace di esprimere in altro modo che con una vignetta della Banca di Francia, ma un illuminato e coraggioso amore.  Vi rimando la vostra banconota, perché è mal donata e di essa, perciò, non saprei che farmene. Voi stessa la darete a un Povero, quando vi sentirete capace, anche al prezzo delle vostre confortanti insonnie, di aprire gli occhi sulla miseria e di tendergli le mani. Avete pensato di fare l’elemosina? In verità, volevate, nello stesso tempo, sbarazzarvi di noi. Di noi, e di loro”. Che il buon Dio doni a tutti noi dei cattivi sogni, se questi ci conducono sulla strada dei nostri fratelli. Che Egli ci faccia la grazia di essere angosciati della miseria del mondo. Di modo che noi, gente terribilmente felice, noi, possiamo farci perdonare il nostro benessere, imparando ad amare.

 

“Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati”. (Mt. 5,48)

Tante pagine del Vangelo ci sembrano troppo ardue e impegnative al punto che, con quello che noi chiamiamo "buon senso", le ridimensioniamo subito: "E' impossibile: basta essere buoni, fare le preghiere, perdonare finché ne siamo capaci" e riduciamo il cristianesimo a gesti, a osservanze, formule non troppo impegnative che fanno perdere il gusto, la gioia, l'avventura e la grandezza della fede. Un uomo trovò un uovo d'aquila e lo mise nel nido di una gallina. L'aquilotto nacque insieme alla covata di pulcini e crebbe con loro. Per tutta la sua vita l'aquila fece ciò che facevano i polli, credendo di essere un pollo. Razzolava in cerca di vermi e insetti. Chiocciava e faceva coccodè. E agitava le ali alzandosi di poco da terra come i polli. Dopo tutto è così che vola una gallina, no? Gli anni passarono e l'aquila divenne molto vecchia. Un giorno vide molto alto sopra di lei nel cielo limpido un magnifico uccello, che fluttuava maestoso e pieno di grazia, tra le forti correnti dei venti, e che batteva solo di tanto in tanto le sue possenti ali dorate. La vecchia aquila lo osservò piena di reverenziale timore. "Chi è quello?" chiese al suo vicino. "E' l'aquila, la regina degli uccelli", il vicino rispose. "Ma non ci pensare. Tu ed io siamo diversi da lei". Così l'aquila non ci pensò più. Morì pensando di essere una gallina. "Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore"

 

 

"Quando pregate non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini". (Mt. 6,5)

Sa'di di Shiraz racconta questa storia di se stesso: "Quand'ero bambino ero un ragazzino pio, fervente nella preghiera e nella devozione. Una notte vegliavo con mio padre, con il santo Corano in grembo. Tutti gli altri, presenti nella stanza, iniziarono a sonnecchiare e ben presto si addormentarono profondamente per cui io dissi a mio padre: "Nessuno di questi dormiglioni apre gli occhi o solleva la testa per dire le preghiere. Si direbbe che sono tutti morti". Mio padre replicò: "Mio diletto figliolo, preferirei che anche tu fossi addormentato come loro piuttosto che maldicente". La presunzione è il rischio professionale di chi s'imbarca nella via della preghiera e nella religiosità. "Quando pregate non fate come gli ipocriti".

 

 

“Pregando non sprecate parole come i pagani i quali credono di venir ascoltati a forza di parole”. (Mt. 6,7)

Un uomo anziano e pio pregava cinque volte al giorno, mentre il suo socio d’affari non metteva mai piede in chiesa. E ora, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, pregava così: “O Signore, Dio nostro! Fin da ragazzo non ho lasciato passare un solo giorno senza venire in chiesa la mattina a recitare le preghiere alle cinque scadenze prestabilite. Non c’è gesto che io abbia compiuto, non c’è decisione importante, o di poco conto che fosse, che io abbia preso senza prima avere invocato il tuo nome. E ora che sono vecchio ho raddoppiato le pratiche devote e ti prego notte e giorno senza posa. Tuttavia, eccomi qui, il poveraccio di sempre. Il mio socio invece beve, si dà al gioco e, nonostante l’età avanzata, frequenta donne di dubbia moralità, eppure nuota nell’oro. Mi domando se dalla sua bocca sia mai uscita una preghiera. Ebbene, Signore, non ti chiedo di punirlo, perché sarebbe poco cristiano, ma ti prego, dimmi: “Perchè? Perché? Perché mai hai permesso che lui prosperasse e a me invece riservi questo trattamento?”. “Perché”, rispose Dio, “tu sei una noia atroce!”.

 

 

"Quando pregate non sprecate parole...". (Mt. 6,7)

Un innamorato corteggiò invano una ragazza per molti mesi, soffrendo le pene atroci del rifiuto. Alla fine la sua amata cedette. "Vieni nel tal posto, alla tal ora", gli disse. Nel tempo e nel luogo stabiliti l'innamorato si trovò finalmente seduto accanto all'amata. Allora s'infilò una mano in tasca e ne trasse un pacco di lettere d'amore che le aveva scritto durante i mesi passati. Erano lettere appassionate, che esprimevano la pena che provava e il suo ardente desiderio di sperimentare le delizie dell'amore e dell'unione. Egli iniziò a leggerle all'amata. Le ore passavano e lui continuava a leggere. Alla fine la donna disse: "Che razza di sciocco sei? Queste lettere parlano tutte di me e del desiderio che hai di me. Be', eccomi seduta accanto a te. E tu continui a leggere le tue stupide lettere". "Eccomi seduto accanto a te", disse Dio al suo devoto, e tu continui a riflettere su di me nella tua testa, a parlare di me con la tua lingua e a leggere di me nei tuoi libri. Quand'è che tacerai e mi assaporerai?"

 

 

“Il Padre vostro sa quello di cui avete bisogno ancor prima che glielo chiediate”. (Mt. 6,8)

Le preoccupazioni, le tensioni della nostra vita ci fanno quasi sempre pensare solo a noi stessi, alla nostra materialità. La preghiera è quel filo che ci ricorda che siamo nelle mani di Dio. Una tersa e ventilata mattina di marzo, un bambino, aiutato dal nonno, fece innalzare nel cielo un magnifico aquilone. Portato dal vento, l’aquilone saliva e saliva sempre più in alto, finché divenne solo più un puntolino. Il filo si srotolava e seguiva l’aquilone verso l’alto, ma il nonno aveva legato saldamente un’estremità del filo al polso del bambino. Lassù, nell’azzurro, l’aquilone dondolava tranquillo e sicuro, seguendo le correnti. Due grassi piccioni chiacchieroni, che volavano pigramente, si affiancarono all’aquilone e cominciarono a fare commenti sui suoi colori. “Sei vestito proprio in ghingheri, amico”, disse uno. “Dai, vieni con noi. Facciamo una gara di resistenza” disse l’altro. “Non posso”, disse l’aquilone. “Perché?”. “Sono legato al mio padroncino, laggiù sulla terra”. I due piccioni guardarono in giù. “lo non vedo nessuno”, disse uno. “Neppure io lo vedo”, rispose l’aquilone. “Ma sono sicuro che c’è: perché ogni tanto sento uno strattone al filo”.

 

 

"Voi dunque pregate così: "Padre nostro.". (Mt. 6,9)

Quando Gesù ci ha insegnato a pregare chiamando Dio con il nome di Padre, voleva certamente indicarci la fiducia che dobbiamo avere in un Dio che si interessa a noi ma non voleva invitarci (e lo dimostra il tenore della preghiera) a buttare tutti i nostri problemi dicendo: "Se è mio Padre ci pensi Lui". Questo raccontino ci aiuta in questa riflessione. A un discepolo che pregava incessantemente il maestro disse: "Quando smetterai di appoggiarti a Dio e ti reggerai sulle tue gambe?". Il discepolo era sbalordito: "Ma proprio tu ci hai insegnato a guardare Dio come padre!". "E quando imparerai che un padre non è qualcuno a cui appoggiarsi, ma qualcuno che ti libera dalla tendenza ad appoggiarti?".

 

 

“Dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. (Mt. 6,21)

Ci sono cose, persone, sentimenti che non rientrano nella logica del calcolo e del possesso ma che sono ben più importanti di tutto il resto. Si chiamava Ryokan, ed era maestro di Zen. Conduceva una vita semplice e austera in una minuscola capanna, ai piedi della montagna. La sera usciva per contemplare il cielo stellato e ascoltare la musica del vento in mezzo agli alberi. Un ladro, approfittando della sua assenza, entrò nell'abitazione e si mise a frugare affannosamente da per tutto. Il suo dispetto aumentava a mano a mano scopriva che non c'era proprio nulla da portar via.. O, forse, il saggio nascondeva il suo tesoro chissà dove. Al rientro, Ryokan lo sorprese mentre stava ancora frugando. Gli disse: "Hai fatto un bel tratto di strada per arrivare fin qua a trovarmi. Chissà. quanti e quali disagi hai affrontato. Perciò non voglio che te ne vada a mani vuote, la tua fatica merita una ricompensa. Ti prego, accetta come regalo i miei vestiti, Il mantello ti servirà nel ritorno, per difenderti dal freddo della notte. Il ladro, sbalordito, senza dire una parola, afferrò i vestiti e si dileguò. Rimasto solo, il sapiente si mise a sedere nudo. Si accostò all'unica finestrella e riprese a contemplare il cielo stellato. Commentò:"Pover'uomo! Mi sarebbe piaciuto potergli regalare questa stupenda luna...” L'avesse potuto sentire, il ladro avrebbe scoperto dove Ryokan teneva nascosti i suoi tesori.

 

 

“Dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. (Mt. 6,21)

Racconta Fidursi, un poeta persiano del sec. XI: Un gran re attraversava il deserto. Lo seguiva la corte, in carovana. L'oasi ormai non era lontana, quando cadde un cammello, rompendo il baule, che portava sul dorso. Una cascata di pietre preziose, di fulgidi diamanti, si sparse sulla sabbia. Con gesto regale, il re disse: "Cortigiani, fermatevi pure a raccogliere gemme e preziosi. Lascio tutto per voi. Io proseguo il cammino". E fece un lungo tratto di pista, pensando d'essere solo. Chi non si ferma a raccogliere tesori? Eppure sente un rumore di passi. Si volta: lo segue ancora un servo, un servo fedele. Gli chiede: "Perché anche tu non ti sei fermato a raccogliere perle e brillanti? Avresti potuto diventar ricco per sempre”. Risponde il servo: "Io seguo il mio re! E' lui che mi importa!" E sorrise con uno sguardo d'amore. Se Cristo è re del tuo cuore, se oggi tu celebri la sua domenica, la vittoria sulla morte, la gioia della sua Comunione con te, vale ancora la pena fermarsi a raccogliere briciole colorate ?

 

 

“La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce”. (Mt. 6,22)

Vederci bene è una grande grazia di cui forse non ci rendiamo conto abbastanza fino a quando la nostra vista si indebolisce. Ma, se andiamo un po’ più a fondo, comprendiamo che nella vita non basta “vedere le cose”, anche le cose “viste” possono ingannare: per vederci bene bisogna guardare in alto! Un giorno una donna andò ad una fontana e vide in mezzo all’acqua un frutto roseo, maturo, polposo. Subito allungò la mano per prenderlo, ma agitando le acque il frutto sparì. Ritirò la mano e il frutto riapparve. Non si rendeva conto. Siccome la fontana con l’acqua era una piccola vasca, la vuotò per afferrare meglio il frutto. Quando l’acqua finì di scorrere, il frutto non c’era più. Delusa, stava per ripartire, quando sentì una voce: “Il frutto che vuoi co­gliere in basso, sta in alto. Alza gli occhi.” Difatti, dagli alti rami di un albero che si specchiava nella fonte pendeva il frutto che le acque riflet­tevano come in uno specchio.

 

 

“La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, anche il tuo corpo sarà nella luce”. (Mt. 6,22)

L’episodio che vi racconto può lasciarci anche perplessi ma alla luce della Parola che meditiamo oggi può farci riflettere. Una donna entrò in un negozio e si mise in coda, in attesa del suo turno. Di fronte a lei c’era una bimba mongoloide in compagnia della madre. Sorrise la donna alla piccola e tese la mano come per una carezza. La bambina, grata di quel sorriso, le afferrò allora la mano e se la portò alle labbra per baciarla. La donna sentì un bacio umido di saliva depositarsi sul dorso della sua mano. Per pudore non la ritrasse, ma dentro di lei ebbe un tremito di fastidio e disgusto che la bimba intimamente colse. Si corrucciò la piccina e, fulminea, lanciò lontano da sé la mano di colei che si era finta amica. Quell’esserino semplice e innocente aveva letto fino in fondo al suo cuore. L’attesa, quel giorno, fu per la donna una dura lezione.

 

 

“Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”. (Mt. 6,23)

Invece di domandarci: “Perchè vivere?”, è meglio domandarci: “Per chi vivere?”. Nella risposta a questa domanda, infatti, troviamo anche la risposta alla prima. L’Abbè Pierre, uno dei personaggi più noti ed amati dai francesi, (già deputato, lasciò tutto per dedicarsi ai più miserabili), racconta: “Molti anni fa conobbi un ex detenuto che aveva passato gran parte della propria vita in carcere per aver ucciso il padre. Appena uscito di prigione voleva suicidarsi, e qualunque cosa gli avessi detto sarebbe stata inutile: l’avrebbe fatto. Ho bisogno di te, del tuo aiuto, allora lo implorai. Aiutami ad aiutare gli altri, dobbiamo costruire la casa a chi non ce l’ha. Mi seguì, e alla fine mi confessò che voleva suicidarsi non perché era povero, ma perché non aveva una sola ragione per cui vivere. Il lavoro per gli altri gliela aveva data”.

 

 

“E perché vi affannate per il vestito”. (Mt. 6,28)

C’era una volta un re, gravemente ammalato. Un famoso medico disse: Guarirà se avrà indossato la camicia di un uomo felice. Allora il re spedì messi per tutto il reame a cercare un uomo felice. I messi si sparsero un po’ dappertutto, ma nel reame non fu possibile trovare un uomo veramente felice. Non se ne trovava uno che fosse contento della propria corte: i ricchi erano malati, chi stava bene era povero; un tale, ricco e sano, si lagnava dei suoi figlioli; un altro era scontento della moglie; chi invidiava il vicino, chi era pentito del suo mestiere. Tutti per un motivo o per un altro, erano malcontenti. Intanto il re deperiva e i medici non sapevano che fare. Una sera il figlio del re, passando davanti ad una miserabile capanna, udì una voce che diceva: Sia lodato il Signore! Ho ben lavorato, ben mangiato, bevuto acqua fresca, ed ora vado a dormire: chi è più felice di me? Il principe, rientrato al palazzo, ordinò di andare a prendere la camicia di quell’uomo e di dargli in cambio tutto il danaro che avesse voluto. i messaggeri andarono e chiesero la camicia. Una camicia? Ne ho sempre fatto senza rispose l’uomo felice. 

(Lev Tolstoj)

 

“Non giudicate per non essere giudicati”. (Mt. 7,1)

Un giorno, all’imbrunire, un contadino sedette sulla soglia della sua umile casa a godersi il fresco. Nei pressi, si snodava una strada che portava al paese, ed un uomo passando vide il contadino e pensò: “Quest”uomo è certo un ozioso, non lavora e passa tutto il giorno seduto sulla soglia di casa. Poco dopo, ecco apparire un altro viandante. Costui pensò: “Quest’uomo è un dongiovanni. Siede qui per poter guardare le ragazze che passano e magari infastidirle. Infine, un forestiero diretto al villaggio disse tra sé: “Quest’uomo e certamente un gran lavoratore. Ha faticato tutto il giorno ed ora si gode il meritato riposo...” In realtà, noi non possiamo sapere granché sul contadino che sedeva sulla soglia di casa... Al contrario, possiamo dire molto sui tre uomini diretti al paese: il primo era un ozioso, il secondo un poco di buono, il terzo un gran lavoratore. (Parabola messicana)

 

 

“Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto”. (Mt. 7,7)

Leggendo queste parole di Gesù, potremmo essere tentati di credere all’automatismo della preghiera, quasi che il Signore funzioni come una lavatrice a gettone. Questo racconto non risolve certamente tutti i problemi della preghiera ma, umoristicamente, almeno una risposta c'é la dà. Un uomo molto pio attraversava un momento difficile, così cominciò a pregare in questo modo: “Signore, ricordati di tutti quegli anni in cui ti ho servito come meglio ho potuto, senza chiedere nulla in cambio. Ora che sono vecchio e squattrinato, vorrei chiederti un piacere per la prima volta nella vita e sono sicuro che non mi dirai di no: fammi vincere alla lotteria” Passarono giorni, poi settimane e poi mesi, senza che accadesse nulla. Alla fine, disperato, una sera egli grido con quanto fiato aveva in gola: “Signore, perché non mi dai una mano?” All’improvviso senti la voce di Dio che replicava: “Dammela tu! Perché non compri un biglietto della lotteria?”

 

 

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. (Mt. 7,12)

Due sposi andarono all’orfanotrofio per adottare due bambini. La direttrice li invitò a riempire un modulo, poi disse: “Adesso vi conduco a vedere due dei bambini più belli dell’orfanotrofio”. “Per favore, no!”, ribattè la moglie risoluta. “Noi non vogliamo i bambini più belli, ma quelli che nessun altro adotterebbe”. Se frequentiamo solo persone simpatiche e a noi congeniali, non usciamo dallo stretto circolo di noi stessi. Per una pienezza di vita dobbiamo offrire la nostra attenzione a coloro che ne hanno poca e quindi ne hanno più bisogno.

 

 

“Tutto quello che volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. (Mt. 7,12)

Siamo molto esigenti con gli altri specialmente in quelli che noi riteniamo essere i nostri diritti, ma sovente o rimaniamo spettatori o non muoviamo un dito in favore di altri.

IL SASSO IN MEZZO ALLA STRADA

Un giorno Diogene stava all’angolo della strada ridendo come un matto. “Perchè ridi?”, gli chiese un passante. “Lo vedi quel sasso in mezzo alla strada? Da quando sono arrivato qui questa mattina, ci sono inciampate dieci persone, maledicendolo. Ma nessuno si è preso la briga di spostarlo in modo che gli altri non ci incespicassero”.

 

 

“Dai loro frutti li riconoscerete”. (Mt. 7,16)

Un cinese andò dal padre missionario. Gli disse: Ho un gran desiderio di costruire una casa per il vero Dio. Gli rispose il missionario: Il tuo è un ottimo desiderio: ma i soldi dove li prendiamo? Voglio farla soggiunse il vecchietto gentile a mie spese. Il sacerdote, vedendo da anni quell’uomo condurre una vita estremamente povera e credendo il suo desiderio frutto di esaltazione spirituale, per scoraggiarlo, gli fece osservare: Mio caro, il villaggio è grande, se si costruisce una chiesa, deve essere molto grande... e tu da solo non ce la farai mai! Replicò il povero con tutta la gentilezza orientale: — Chiedo perdono, padre, se insisto; ma io penso d’essere capace di far costruire una chiesa grande per Dio. Ma non capisci che occorrerebbero moltissimi soldi... più di seimila franchi? Padre, li ho già pronti tutti questi soldi e se non saranno sufficienti, me ne guadagnerò altri! Il missionario rimase attonito, quasi incredulo. Chiese: Come ti sei procurato tanti soldi? Rispose con un meraviglioso sorriso carico della lunga fatica della sua vita: Padre mio, fin da giovane ebbi questo desiderio, oltre quarant’anni fa. Ho sempre risparmiato sul mio vitto e sul mio vestito; ho sempre lavorato; non mi sono neppure sposato. Ebbi per tutta la vita una sola grande voglia: lasciare, prima di morire, nel mio villaggio, una casa grande per il vero Dio: quello dell’Amore, quello che ha messo la sua casa nel mio cuore!

 

 

“Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli”. (Mt. 7,21)

Questa rielaborazjone di Piero Gribaudi della parabola del buon samaritano ci aiuta a capire fino in fondo che cosa vuol dire “condividere”.

UN MODO DI AMARE

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Ma un Samaritano, che era in viaggio, lo vide e volle aiutarlo. Non aveva bende, non aveva olio, non aveva vino, non aveva giumento, non aveva denari; solo una grande angoscia al vedere il ferito. Avvicinatosi, gliela diede. Questi rimase stupito; ma poi sentì che più cresceva l’angoscia del Samaritano, più diminuiva la sua. Ed aspettarono l’alba, stretti insieme, facendo di due angoscie una speranza. (Piero Gribaudi)

 

  

“Ma Gesù conoscendo i loro pensieri disse: Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore?”. (Mt. 9,4)

C’è sempre una buona ragione per pensare male del prossimo. Gesù perdona e guarisce e qualcuno lo giudica un senza Dio e bestemmiatore. Ecco, a tal proposito un raccontino significativo: Una tartaruga passava in campagna la sua vita tranquilla. Un giorno le arrivò l’invito di una sua cugina, che abitava in città, perché andasse a trovarla. Spinta dal desiderio di vedere un po’ di mondo, la tartaruga campagnola accettò l’invito. La distanza non era molta, non più di un chilometro, ma per la tartaruga era già un bel viaggio. Si illuse tuttavia di compierlo in breve tempo e solo il mattino dopo si mise in cammino. “Con il mio passo sicuro e costante”, pensò, “prima di mezzogiorno sarò certamente arrivata. Giusto in tempo per sedermi a tavola”. Partì cantarellando. Cammina, cammina, cammina... A mezzogiorno la tartaruga aveva percorso appena qualche centinaio di metri. Quando sentì battere dodici rintocchi ad un campanile, sbottò: “Che stupido campanile! Non sarà neppure un’ora che mi sono mossa da casa, e già suona mezzogiorno. Sono tutti sgangherati questi orologi e i campanari sono ubriaconi!”. Cammina, cammina.., Il sole tramontò e le stelle spuntarono tremolanti, ma la tartaruga non era neanche a metà strada. Più arrabbiata che mai, si mise ad inveire: “Il mondo non è più quello di una volta! il sole tramonta più presto, le stelle si affacciano fuori orario e le giornate non sono più di ventiquattro ore!”. E, borbottando, riprese il suo cammino, maledicendo la strada, troppo sassosa e storta. C’è sempre una buona ragione per pensare male del prossimo.

 

 

“Il Figlio dell’uomo ha potere in terra di rimettere i peccati”. (Mt. 9,6)

Si diceva che nel villaggio ci fosse una vecchia che aveva le apparizioni. Il prete del luogo le chiese la prova della loro autenticità. “La prossima volta che Dio ti appare”, disse, “chiedigli di rivelarti i miei peccati, che solo Lui Conosce. Sarebbe la prova migliore. La donna ritornò un mese dopo e il prete le domandò se Dio le era apparso ancora. Ella rispose di sì. “Gli hai posto la domanda?” “Sì, l’ho fatto”. “E che cosa ha detto?” “Ha detto: Di’ al tuo prete che i suoi peccati li ho dimenticati”.

 

 

“Vieni, imponi la tua mano su di lei ed essa vivrà!”. (Mt.9,18)

Un uomo anziano si era ammalato gravemente. Il suo parroco andò a visitarlo in casa. Appena entrato nella stanza del malato, il parroco notò una sedia  vuota, sistemata in una strana posizione, accanto al letto su cui riposava l’anziano e gli domandò a che cosa serviva. L’uomo gli rispose, sorridendo debolmente: “Immagino che ci sia Gesù seduto su quella sedia e prima che lei arrivasse gli stavo parlando... Per anni avevo trovato estremamente difficile i la preghiera, finché un amico mi spiegò che la preghiera consiste nel parlare con Gesù. Così ora immagino Gesù seduto su una sedia di fronte a  me e gli parlo e ascolto cosa mi dice in risposta. Da allora non ho più avuto difficoltà nel pregare”. Qualche giorno dopo, la figlia dell’anziano signore si presentò in canonica per informare il parroco che suo padre era morto. Disse: “L’ho lasciato solo per un paio  d’ore. Quando sono tornata nella stanza l’ho trovato morto con la testa appoggiata sulla sedia vuota che voleva sempre accanto al suo letto”.

 

 

"Ma, dopo che fu cacciata via la gente, Gesù entrò, le prese la mano (alla figlia di Giairo) e fanciulla si alzò”.

(Mt. 9,25)

"Una volta stavo camminando per le vie di Londra racconta Madre Teresa e mi capitò di vedere un uomo, tutto rannicchiato, sembrava così solo, così abbandonato. Mi fermai, gli presi la mano, gliela strinsi, gli domandai come stava. La mia mano è sempre molto calda ed egli alzò lo sguardo e disse: "Oh, dopo tanto tempo, sento il calore di una mano umana, dopo tanto tempo!". I suoi occhi brillarono e si levò a sedere. Proprio quel po' di tepore che si sprigionava da una mano umana aveva portato gioia nella sua vita. Dovete fare questo genere di esperienza. Dovete tenere gli occhi ben aperti e provare.

 

 

“Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. (Mt. 10,16)

Sembra difficile conciliare semplicità e prudenza nell’annuncio del vangelo, anche perché qualche volta confondiamo semplicità con ingenuità, se non addirittura con imbecillità. Gesù non intendeva questo! Il raccontino che segue può essere un esempio:

Una volta un samurai grosso e rude andò a visitare un piccolo monaco. “Monaco”, gli disse “insegnami che cosa sono l’inferno e il paradiso!”. Il monaco alzò gli occhi per osservare il potente guerriero e rispose con estremo disprezzo: “Insegnarti che cosa sono l’inferno e il paradiso? Non potrei insegnarti proprio niente. Sei sporco e puzzi, la lama del tuo rasoio si è arrugginita. Sei un disonore, un flagello per la casta dei samurai. Levati dalla mia vista, non ti sopporto”. Il samurai era furioso. Cominciò a tremare, il volto rosso dalla rabbia, non riusciva a spiccicare parola. Sguainò la spada e la sollevò in alto, preparandosi a uccidere il monaco. “Questo è l’inferno”, mormorò il monaco. Il samurai era sopraffatto. Quanta compassione, quanta resa in questo ometto che aveva offerto la propria vita per dargli questo insegnamento, per dimostrargli l’inferno! Lentamente abbassò la spada, pieno di gratitudine e improvvisamente colmo di pace. “E questo è il paradiso”, mormorò il monaco.

 

 

“E chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico non perderà la sua ricompensa”. (Mt. 10,42)

Racconta Shundo Aoyama nel libro “La  voce del fiume”: C’è una storia che non riesco a dimenticare, anche se sono passati tanti anni da quando l’ho ascoltata dal saggista Matsui Tòru. Riguarda una giovane donna cristiana di nome Kitahara Reiko, figlia di un professore universitario. Alla fine della seconda guerra mondiale, in un angolo popolare del centro di Tokyo che era stato raso al suolo dai bombardamenti, sorse una baraccopoli chiamata “la città delle formiche”, i cui abitanti erano raccoglitori di stracci. Reiko, un giorno, decise di andare a vivere là. Riunì i bambini del posto, che erano troppo poveri per andare a scuola, e divenne la loro insegnante. Saltando spesso le ore di sonno, si prese cura anche degli ammalati e degli anziani che vivevano soli. Lavorava anima e corpo. Ogni mattina, con un sorriso allegro, salutava centinaia e centinaia di straccivendoli che andavano per le strade a lavorare, trainando i loro numerosi carretti di legno. Ogni sera, anche fino a tardi, accoglieva senza distinzione il loro ritorno, sempre dolcemente sorridente dicendo: “Bentornati. Adesso riposate”. La sola vista del suo sorriso, innocente e gentile, rese questi uomini rozzi, che abitavano nei bassifondi della città degradata dal caos della guerra, dimentichi della loro stanchezza e della loro infelicità. Fu così che Reiko venne chiamata la “Beata Vergine della città delle formiche”, e fu venerata da tutti. Alla fine, per l’eccesso di lavoro, la giovinetta si ammalò di tubercolosi. Sebbene la gente del quartiere la spingesse a tornare dai suoi genitori per curarsi, lei disse che voleva morire lì, e non tornò a casa dalla sua famiglia. Dopo aver lottato contro la malattia su un letto di stracci, in un angolo di una baracca cadente dove gli spifferi di vento freddo penetravano attraverso le crepe, senza prendere medicine né nutrirsi a sufficienza, Reiko perse così la vita nel fiore dei suoi vent’anni. Dopo la sua morte, sotto il cuscino della giovinetta venne trovato un piccolo quaderno. Era il suo taccuino che di tanto in tanto Reiko apriva di nascosto, durante la malattia, Il maestro Matsui, immaginando che vi fosse scritto qualcosa di impostante, lo aprì e vi trovò annotata soltanto questa frase: “Non stai per caso dimenticando di sorridere proprio adesso?”. Così con il suo sorriso Reiko ha rivelato la presenza amorosa di Gesù ai poveri.

 

 

“Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”. (Mt. 11,25)

Una sera fratel Bruno era assorto in preghiera quando fu disturbato dal gracidare di una rana. Per quanti sforzi facesse, non gli riuscì di ignorare quel rumore e allora si sporse dalla finestra e urlò: “Silenzio! Sto pregando”. Poiché egli era un santo, tutti obbedirono al suo ordine immediatamente. Ogni creatura vivente si zittì in modo da creare il silenzio necessario alla preghiera. Ma ecco che Bruno fu di nuovo interrotto, questa volta dà una voce dentro di lui che diceva: “Forse a Dio il gracidare di quella rana era altrettanto gradito dei salmi che tu stai recitando”. “Che cosa possono trovare di bello le “orecchie” di Dio nel verso di una rana?” replicò Bruno sprezzante. Ma la voce proseguì: “Perché mai allora Dio avrebbe inventato un simile suono?” Bruno decise di scoprirlo da se. Si sporse dalla finestra e ordinò: “Canta!” e l’aria fu piena del gracidare ritmato della rana, con l’accompagnamento di tutte le raganelle del vicinato. Bruno si pose in ascolto con attenzione e subito non udì più alcun frastuono, ma scoprì che, se smetteva di irritarsi, quelle voci in realtà rendevano più ricco il silenzio della notte. Grazie a quella scoperta, il cuore di Bruno entrò in armonia con l’universo intero e, per la prima volta nella sua vita, egli capì che cosa significa pregare.  

 

 

Gesù disse: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. (Mt. 11,25)

Un giorno, un uomo si fermò in mezzo ad un gruppo di ragazzi, che giocavano in un cortile. L’uomo si mise a far capriole e ogni sorta di buffonate per far divertire i ragazzi. La madre di uno dei ragazzi osservava dalla finestra. Dopo un po’ scese in cortile e si avvicinò a suo figlio. “Ah! Costui è veramente un santo”, gli disse. “Figlio mio, va’ da lui”. L’uomo pose una mano sulla spalla del ragazzo e gli chiese: “Mio caro, che cosa vuoi fare?”. “Non lo so”, rispose il ragazzo. “Che cosa vuoi, che io faccia?”. “Devi essere tu a dirmi che cosa avresti voglia di fare”. “Oh, a me piace giocare “E allora, vuoi giocare con il Signore?”. Il ragazzo rimase interdetto, senza sapere che cosa rispondere. Allora il santo soggiunse: “Se tu riesci a giocare con il Signore, farai la cosa più bella che si possa fare. Tutti prendono Dio talmente sul serio da renderlo mortalmente noioso. Gioca con Dio, figliolo. E’ un compagno di gioco incomparabile”.

 

 

“Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”. (Mt. 11,28)

Tutti corrono: il lavoro, la famiglia, il successo.., e anche la fede e la spiritualità sembrano essere una conquista affannosa... C’è tempo per lavorare e c’è tempo per riposare. Un giorno sant’Antonio stava facendo ricreazione con i suoi fratelli nel deserto, quando arrivò un cacciatore e restò sorpreso, quasi scandalizzato vedendo i monaci giocare. Allora sant’Antonio lo pregò di tirare una freccia col suo arco, cosa che il cacciatore esegui. Ancora, non smettere finché non te lo dico io! ordinò il santo, e il cacciatore seguitò a tirare frecce finché si fermò giustificandosi di non poter continuare poiché si era allentata la corda dell’arco. Come vedi disse il santo ogni tanto è necessario lasciarla riposare. Lo stesso accade al nostro corpo e al nostro spirito, perché sopportino la fatica. E’ quello che ci hai visto fare quando sei arrivato.

 

 

“Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime”. (Mt. 11,29)

IL GRANDE BURRONE

Un uomo sempre scontento di sé e degli altri continuava a brontolare con Dio perché diceva: “Ma chi l’ha detto che ognuno deve portare la sua croce? Possibile che non esista un mezzo per evitarla? Sono veramente stufo dei miei pesi quotidiani!”. Il buon Dio gli rispose con un sogno. Vide che la vita degli uomini sulla Terra era una sterminata processione. Ognuno camminava con la sua croce sulle spalle. Lentamente, ma inesorabilmente, un passo dopo l’altro. Anche lui era nell’interminabile corteo e avanzava a fatica con la sua croce personale. Dopo un po’ si accorse che la sua croce era troppo lunga: per questo faceva tanta fatica ad avanzare. “Sarebbe sufficiente accorciarla un po’ e tribolerei molto meno”, si disse. Si sedette su un paracarro e, con un taglio deciso, accorciò d’un bel pezzo la sua croce. Quando ripartì si accorse che ora poteva camminare molto più spedito e leggero. E senza tanta fatica giunse a quella che sembrava la meta della processione degli uomini. Era un burrone: una larga ferita nel terreno, oltre la quale  incominciava la “terra della felicità eterna” Era una visione incantevole quella che si vedeva dall’altra parte del burrone. Ma non c’erano ponti, né passerelle  per attraversare. Eppure gli uomini  passavano con facilità. Ognuno si toglieva la croce dalle spalle, l’appoggiava sui bordi del burrone e poi ci passava sopra.  Le croci sembravano fatte su misura: congiungevano esattamente i due margini del precipizio. Passavano tutti. Ma non lui. Aveva accorciato la sua croce e ora essa era troppo corta e non arrivava dall’altra parte del baratro. Si mise a piangere e a disperarsi: “Ah, se l’avessi saputo!” Ma, ormai, era troppo tardi e lamentarsi non serviva a niente.

 

 

"I farisei dissero: Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul, principe dei demoni". (Mt. 12, 24 )

Quando una persona è diversa, più buona di noi è molto facile rovinargli la reputazione. Con Gesù ci provano i farisei. Gesù non si lascia toccare da queste maldicenze, Gesù sa molto bene che perdere la reputazione non è molto diverso che perdere quel contratto che si stava per firmare in sogno. Una giovane nel villaggio di pescatori diventò ragazza madre e dopo molte percosse rivelò che il padre del bambino era il maestro zen che meditava tutto il giorno nel tempio fuori del villaggio. I genitori della ragazza e un folto gruppo di abitanti del villaggio marciarono verso il tempio, disturbarono scortesemente la meditazione del maestro, lo insultarono per la sua ipocrisia e gli dissero che, dato che era il padre del bambino, doveva ora assumersi il compito di allevarlo. Per tutta risposta il maestro disse: "Molto bene. Molto bene". Quando la folla se ne andò, raccolse il bambino dal pavimento e si accordò con una donna del villaggio affinché nutrisse, vestisse e badasse al neonato a sue spese. La fama del maestro era rovinata. Nessuno andava più da lui per essere istruito. La storia durava da un anno quando la ragazza, che aveva partorito il bambino, non resistette più e confessò finalmente di aver mentito. Il padre del bambino era il ragazzo della porta accanto. I genitori e tutti gli abitanti del villaggio si pentirono amaramente. Si prostrarono ai piedi del maestro per chiedergli perdono e farsi restituire il bambino. Il maestro restituì il bambino. E tutto ciò che disse fu: "Molto bene. Molto bene".

 

 

“Di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto”. (Mt. 12,36)

Il silenzio e il raccoglimento sono la porta per quello specchio del cielo che è la preghiera. Ma il silenzio è una cosa fragile. C’era una volta, in un angolo di campagna verde e incontaminato, un laghetto di acqua limpidissima. Era un laghetto minuscolo, quasi uno stagno, ma il cielo si specchiava dentro la sua acqua pura e lo trasformava in un gioiello incastonato nel morbido tappeto dei prati. Il sole di giorno, la luna e le stelle di notte si davano appuntamento nel limpido specchio d’acqua. I salici della riva, le margherite e l’erba delle colline tremavano di gioia per quel riflesso di cielo caduto in terra, che trasformava quel remoto angolo di mondo in un piccolo paradiso. Ma un giorno, schiamazzando e starnazzando, arrivò sulle sponde dello stagno uno stormo di grasse e prepotenti oche. i loro imperiosi “qua, qua!” e i loro robusti becchi sconvolsero il silenzio e la pace dello specchio del cielo. Le oche erano creature pratiche, non badavano certo a]. sussurro del vento e ai riflessi dell’acqua limpida. Si tuffarono a decine nello stagno e cominciarono ad arare il fondo alla caccia di cibo. “Mangiare e ingrassare” era il loro motto. Sguazzavano, sporcavano, strepitavano. Piume e spruzzi volavano da tutte le parti. Granchiolini, pesciolini, e tutti gli animaletti che vivevano nel laghetto in un battibaleno sparirono nel vorace gozzo delle insaziabili oche. La polvere finissima depositata sul fondo, sconvolta e smossa, invase l’acqua. Rametti, foglie e alghe che filtravano e trattenevano l’acqua nel laghetto furono dispersi. La sera, quando il silenzio ritornò tra le colline, la prima stella cercò invano la sua casa sulla terra e la luna non poté specchiare il suo volto d’argento sulla terra. Lo stagno era solo una distesa di fanghiglia maleodorante e senza vita. Lo stagno era morto. Il vento portò la notizia alle nubi e le nubi alle stelle, alla luna e al sole. Tra le foglie dei salici piangevano i pettirossi e le allodole. In quell’angolo di campagna il cielo non si sarebbe specchiato più.

 

 

“Lo spirito immondo disse: Tornerà nella mia casa, da cui sono uscito...”. (Mt. 12,43—45)

Questo breve racconto di Piero Gribaudi è un invito alla vigilanza; la prova e la tentazione sono sempre in agguato: bisogna fare attenzione alle piccole crepe! Un giorno il diavolo ebbe fame. Prese con sé un sacco e decise di andar per anime. Naturalmente ambiva un bocconcino prelibato. S’acquattò dunque tra le fronde di un albero di fronte alla finestra di un sant’uomo. E aspettò. La giornata del sant’uomo trascorreva davvero nitida come il cristallo, fra preghiere, gesti di bontà e sentimenti di prim’ordine. Non una sbavatura. Non un cedimento. Tanto che anche il diavolo lo ammirò. E il suo appetito crebbe.

Pareva davvero non ci fosse nulla da fare. Ma un giorno, mentre stava scrutando quell’anima tutta bianca, il diavolo notò che anch’essa, come tutte, aveva una piccolissima crepa: verso il tramonto, il sant’uomo s’affacciava alla finestra a guardare il sole sparire: e provava un breve attimo di malinconia. Al diavolo questo bastò. Concentrò tutti i suoi sforzi verso quell’attimo, lo scavò, lo dilatò e, quando divenne una buca profonda, vi riversò dentro tutti i suoi intrugli più efficaci: prima l’angoscia, poi l’amarezza, infine la disperazione. Così che non ebbe che allungar la mano per fare un ottimo pranzo.

 

 

“Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”. (Mt. 13,35)

Parabole, racconti, parole non sempre facili costituiscono il tessuto della Bibbia: come fare a leggerli? In un suo libro Ernesto Olivero ha questo racconto:Tre monaci, tutti e tre studiosi della Bibbia, andarono un giorno da un grande uomo di preghiera per chiedergli come pregare la Parola. Il primo raccontò di aver letto la Bibbia da capo a fondo, e di averla imparata a memoria il secondo disse di averla letta e riletta fino ad aver imparato a cantarla. Il terzo intimidito dalla sapienza dei primi due, non osava parlare; l’uomo di Dio lo incoraggiò ed egli disse di essere riuscito a leggere una frase soltanto, ma di averla macinata giorno e notte nella mente e nel cuore, senza poter andare più avanti. Il grande uomo di preghiera rispose: “E’ questo il modo di pregare la Parola”.

 

 

“Il Regno dei Cieli è simile un tesoro”. (Mt. 13,44)

San Filippo Benizi stava sul letto di morte. Agonizzando, sospira: Datemi il mio libro! I confratelli corsero a prendere chi le Regole, chi il libro delle preghiere. Egli rifiutava tutto e sospirava: Datemi il mio libro Gli portarono il Vangelo. Anche questo dolcemente rifiutò, quasi volesse dire: Non riesco più a leggerlo Finalmente uno si accorse che egli fissava la parete dì fronte. V’era un Crocifisso, Allora lo staccò dal muro e glielo porse. Glielo mise tra le mani gelide e sudate. Il santo morendo, sorrise e lo baciò. Gesù crocifisso era stato il suo libro in vita e in morte In Gesù Crocifisso, infatti. leggiamo tutta la Storia dell’Amore di Dio e tutta la storia dell’uomo peccatore.

 

 

"Una parte del seme cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta". (Mt. 13,8)

Una volta un baro disse al maestro: "Sono stato sorpreso a barare a carte ieri e i miei compagni di gioco mi hanno picchiato e gettato dalla finestra. Cosa mi consigli di fare?". Il maestro osservò seriamente l'uomo e disse: "Se fossi in te, d'ora in poi giocherei a piano terra” La risposta sbalordì i discepoli. "Perchè non gli hai detto di smettere di barare?", chiesero. "Perchè sapevo che non l'avrebbe fatto", fu la semplice e sagace risposta del maestro. I grandi mistici mi hanno sempre spaventato. Facevano, per amor di Dio, cose che non "posso permettermi” La saggezza di Gesù è di chiederti con realismo a seconda di quello che sei capace. Però se sei da trenta, trenta devi rendere.

 

 

“Se aveste fede pari ad un granellino di senape potrete dire a questo monte: spostati di qui a là ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile”. (Mt. 14,20)

Qualche volta leggendo questa frase si possono correre due rischi nell’interpretarla: o dire: “Allora noi non abbiamo fede”, o presumere di poter fare miracoli. Fede è fidarsi. Lo scrittore Piero Chiara, poco religioso, era molto amico dello scultore Francesco Messina, che era invece profondamente credente. Quando Chiara era prossimo alla morte, Messina si recò al suo capezzale e, prendendogli la mano, gli chiese: “Dimmi, Piero, come stai a fede?”. Chiara lo fissò con gli occhi dolenti e rispose: “lo mi fido di te”. Sono le parole più belle che possiamo dire ad un amico: “Io mi fido di te”. E’ la preghiera più bella che possiamo rivolgere a Dio: “lo mi fido di Te”.

 

 

“Disse loro: Voi chi dite che io sia?  Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. (Mt. 15,15—16)

Tutti noi che leggiamo questa pagina abbiamo il dono di credere in Gesù, Figlio di Dio. Ma spesso, l’abitudine, il tran—tran della vita non ci permettono di riconoscere il vero valore di questo dono. Che non ci capiti di fare la fine di questo personaggio del racconto di Gibran. Viveva un tempo tra i monti un uomo che possedeva una statua, opera di un antico maestro. L’aveva buttata in un angolo, faccia a terra, e non se ne curava affatto. Un giorno, si trovò a passare nei pressi un uomo che veniva dalla città. Essendo un uomo di cultura, quando vide la statua chiese al proprietario se fosse disposto a venderla. Il proprietario rise e disse: “E chi vuole che compri, scusi, quella pietra sporca e scialba?”. L’uomo della città disse: “Ti do in cambio questa moneta d’argento”. E l’altro ne fu sorpreso e felice. La statua fu trasportata in città, a dorso di elefante. E dopo molte lune, l’uomo dei monti si recò in città, e mentre camminava per la strada vide gente affollarsi davanti ad un edificio, dove un uomo gridava a gran voce: “Venite a vedere la statua più bella, la più mirabile esistente al mondo. Solo due monete d’argento per ammirare l’opera meravigliosa di un grande maestro”. E l’uomo dei monti pagò due monete d’argento ed entrò nel museo per vedere la statua che lui stesso aveva venduto per una moneta.

 

 

“Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà, forse, le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta?”. (Mt. 18,12)

Dio ci vuole davvero bene: non si rassegna a perdere nessuno di noi. Non si contenta di dire: “Peccato, ne ho perso uno ma ne ho ancora miliardi”, oppure: “Se l’è voluta, si arrangi!”. Parte alla ricerca, la chiama, manda i suoi profeti, affronta Lui il lupo, pur di salvarla. Ecco come Antony de Mello ci ripropone questa parabola: Una pecora scoprì un buco nel recinto e scivolò fuori. Si accorse, poi, di essere seguita da un lupo. Corse e corse, ma il lupo continuava a seguirla finché arrivò il pastore e la salvò, riportandola all’ovile. E, nonostante che tutti lo incitassero a farlo, egli non volle riparare il buco nel recinto. Lo stile dell’amore si chiama libertà.

 

 

Se tuo fratello ha commesso una colpa, va e ammoniscilo”. (Mt. 18,15)

Aiutarci vicendevolmente, correggerci quando sbagliamo è carità cristiana profonda, ma qualche volta può essere difficile perché noi rischiamo di ergerci a giudice dei nostri fratelli. La miglior correzione fraterna, il miglior modo di aiutare è portare a Dio. Nella vita del santo curato d’Ars si legge questo episodio. Andò da lui un ricco e colto signore che gli disse: “Padre, vorrei discutere con lei perché ho molti dubbi sulla fede e sui comandamenti. Non so nemmeno io se credo o non credo.” Rispose il Santo: “Prima si confessi e preghi con me e poi discuteremo”. Quell’uomo che da molti anni non si riconciliava con Dio, cedette alle insistenze del santo parroco. Si confessò e pregò con lui e poi Giovanni Maria Vianney gli disse: “Adesso discutiamo pure. Quali dubbi hai?”. Quello rispose sereno: “Ora non ho più nessun dubbio. Sento che Dio ha perdonato tutti i miei peccati. I miei dubbi sono scomparsi”.

 

 

“Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo tra te e lui solo”. (Mt. 18,15)

Gesù è realista, sa che anche tra credenti possono insorgere incomprensioni e colpe vicendevoli, ma ci invita ad una serena correzione fraterna fondata sull'amore. Una vecchia favola buddista narra che una formica cadde un giorno in un grosso barile di acqua piovana. Arrivò un tale (che si chiamava Egoismo), vide l’insetto e gli disse: “Cosa fai nel mio barile?”. Prese la formica e la sbatté lontano. Giunse poco dopo una seconda persona di nome Tolleranza, che vista la formica, le disse: “Rimani pure. Fuori fa caldo e non mi fai alcun danno. Finalmente un terzo vide la bestiola: le diede uno zuccherino e poi la rimise sull’albero di dove era caduta. Si chiamava Amore.

 

 

“Signore, quante volte dovrò per­donare a mio fratello, se pecca contro di me?”. (Mt. 18,21)

“Ma è poi giusto perdonare sempre?” “Qualche volta dare il perdono non è come accettare e in fondo approvare il male?”. Domande più che lecite, ma per trovare una risposta cristiana dobbiamo guardare a come si comporta Dio. Lui, giustizia infinita, attraverso l’amore e il sacrificio di Gesù è disposto sempre a perdonarmi. Non mi dice che ho fatto bene quando ho commesso il male. Il male fatto continua a portare le sue conseguenze, ma Dio è sempre pronto a perdonare chi davvero vuoi essere perdonato, e la strada del perdono spesso porta anche i suoi frutti. Il 14 luglio 1934, san Leopoldo, il  confessore di  Padova si trovava in tram per raggiungere un convento di suore. C’era molta calca e lui, piccolino di statura, dovette un po’ sgomitare per raggiungere l’uscita. Urtò un giovane tracotante che senza complimenti gli mollò un ceffone. Il santo sorridendo gli disse: “Mi faccia bello anche dall’altra parte, perché farei brutta figura andando in giro rosso solo da una parte”. Il ragazzo rimase talmente confuso che si inginocchiò in mezzo alla gente e gli domandò perdono. Il cappuccino gli batté amichevolmente la mano sulla spalla e disse: “Niente, niente! Amici come prima!”.

 

 

“Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello?”. (Mt. 18,21)

Racconta la tradizione buddista: Al termine di una lezione del Budda, un discepolo rivolse all’illuminato questa obiezione: Vorrei sapere: tu dici che io posso condividere le mie benedizioni, la mia gioia, con l’intero universo. Questo io lo so, lo sento. Ma, per favore, concedimi questa eccezione: non posso condividere questo benessere spirituale con il mio vicino. E’ un essere così disgustoso e insopportabile.., l’idea stessa di condividere la mia felicità con lui mi dà la nausea! E prosegui: “Ti chiedo solo di concedermi questa eccezione: il resto della creazione va bene! Ma tu non conosci il mio vicino, altrimenti avresti aggiunto, tu stesso, che ci possono essere delle eccezioni”. Il Budda illuminato rispose: “Non hai compreso il mio insegnamento. In primo luogo devi condividere la tua felicità con il tuo vicino; solo allora sarai in grado di farne parte all’intera esistenza, a tutto l’universo! Se neppure il tuo vicino ti e prossimo come possono esserti amici e vicini gli altri uomini, gli uccelli, gli alberi...? Fai pratica di condivisione anzitutto con quell’unica eccezione... e scordati l’intero universo! Se riesci a trasmettere la gioia spirituale a quel tuo vicino insopportabile, non ci sarà più ostacolo al diffondersi del tuo amore! Sarai pronto a condividere la tua felicità e la tua pace interiore con chiunque!”

 

 

“Se non diventerete piccoli come bambini non entrerete nel Regno di Dio”. (Mt. 18,3)

Umanamente parlando, Maria non ha fatto cose grandi, è stata una mamma come tante che ha seguito nella gioia e nel dolore il suo Figlio. La sua grandezza è proprio lì. Sono spesso le piccole cose che fanno pensare di più. Il treno attraversava un villaggio di un centinaio, al massimo, di abitanti. Il ferroviere di turno chiede a me, che sono l’unico viaggiatore, il permesso di aprire per mezzo minuto il finestrino. Dà un discreto colpo al suo fischietto ed alza, sorridente, la mano destra. “Sono contento di aver salutato la nonna anche oggi: mi aspettava come sempre alla finestra della cucina. Faccio così tutte le volte che passo da queste parti”. E mi confida anche che, quando era un giovane alunno, un suo istruttore gli aveva insegnato, passando davanti ad una nota casa per persone anziane, a salutare con la mano. “C’è sempre qualcuno gli diceva che ne prova una grande gioia. Per lui è forse l’unico segno di interessamento alla sua persona che riceva dal di fuori

 

 

“Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”. (Mt. 18,3)

Due bambini attraversavano una vasta radura insieme al padre. Uno gli era in braccio, l’altro lo teneva per mano. Ad un tratto si alzò un aquilone. Vedendolo, il secondo batté con gioia le mani ma, distaccatosi dalla mano del padre, cadde e si ferì. Il primo invece, stretto nelle braccia del padre, poté esprimere la sua gioia senza alcun pericolo. Così, nella vita spirituale, il primo rappresenta il totale abbandono in Dio, il secondo la fiducia in se stesso. (Sri Ramakrishna)

 

 

"Se non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli". (Mt. 18,3)

Spesso noi cerchiamo la chiave della felicità in cose complesse, in teorie filosofiche o psicologiche e dimentichiamo invece che la felicità (anche quella familiare) è nelle cose semplici.

UN SEGRETO D’AMORE.

Mentre sfogliava i suoi "dossier" matrimoniali, il diavolo notò con dispetto che c'era ancora una coppia, sulla terra, che filava d'amore e d'accordo. Decise di fare un'ispezione. Si trattava in realtà di una coppia comune: eppure sprigionava tanto amore che attorno ad essa pareva ci fosse un'eterna primavera. Il diavolo volle conoscere il segreto di quell'amore. Nessun segreto gli spiegarono i due. Viviamo il nostro amore come una gara: quando uno dei due sbaglia, è l'altro che se ne assume la colpa; quando uno dei due fa bene, è l'altro che ne ha le lodi; quando uno dei due soffre, è l'altro che ne ha consolazione, quando uno dei due gioisce, è l'altro che ne ricava piacere. Insomma, facciamo sempre a chi arriva per primo. Al diavolo tutto ciò parve scemo. E se ne andò senza far loro del male. Ed è così che possono ancora esistere delle coppie felici sulla terra.

 

 

"Lasciate che i bambini vengano a me”. (Mt. 19,14)

Leggendo alcuni episodi della vita di Madre Teresa, sembra quasi di rileggere le storie del Cottolengo o di don Bosco. Ma, per la nostra riflessione, leggendo fatti come questo chiediamoci: e io, nel mio ambiente, posso fare qualcosa per qualcuno?

"Un giorno racconta madre Teresa venne da me un poliziotto con alcuni ragazzini sui dieci—undici anni, che erano stati colti a rubare nei pressi della stazione di Howrah. Quel poliziotto era una brava persona, ed esitava a metterli in prigione: a contatto con i criminali si sarebbero rovinati per sempre. Mi domandò se potevo occuparmi di loro. Parlai un poco con quei ragazzi, e scoprii che facevano i ricettatori e i galoppini di una banda di ladri, che in cambio davano loro ogni giorno un buon pasto. Proposi: "E se una buona minestra calda ve la dessi io, tutti i giorni, e anche qualcosa in più, lascereste perdere quella banda?".

Mi guardarono incerti. Ciò che li convinse, probabilmente, non fu la minestra, ma l'interesse e l'affetto che dimostravo per loro. Vennero con me Madre Teresa cercò una casa per loro, procurò il cibo necessario, organizzò una scuola. Poi un ricco indù donò altre case, e ora i ragazzi poverissimi che le suore di madre Teresa nutrono e preparano alla vita sono parecchie migliaia. A mano a mano che crescono, madre Teresa cerca per loro un lavoro. Per le ragazze riesce a formare una modesta dote che le aiuti a trovare un marito.

 

 

“Il giovane se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze”. (Mt. 19,22)

La storia del giovane ricco che cercava la perfezione ma che non ha trovato la forza di staccarsi dai suoi beni per seguire Gesù e se ne va triste mi ha fatto venire in mente questo racconto—parabola: ognuno lo adatti a se stesso. Un giorno due ricchi mercanti decisero di mettersi alla ricerca della cosa più preziosa del mondo. Si sarebbero ritrovati quando l’avessero trovata. Il primo non ebbe dubbi: parti alla ricerca di una gemma. Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città finché non l’ebbe trovata: era la più splendida gemma che avesse mai rifulso sotto il sole. Tornò allora in patria in attesa dell’amico. Passarono molti anni prima che questi arrivasse. Sfido io, era partito alla ricerca di Dio! Aveva consultato i più grandi maestri, aveva letto e studiato, ma Dio non lo aveva trovato. Un giorno, mentre dopo tanto cercare stava seduto sulla riva di un fiume, vide un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i piccoli che si erano allontanati da lei. I piccoli erano tanti e birichini, per cui l’anatra cercò fino al calar del sole, finché non ebbe ricondotto sotto la sua ala l’ultimo dei suoi nati. Allora l’uomo sorrise e fece ritorno al paese. Quando l’amico lo rivide gli mostrò la sua gemma, e poi trepidando gli chiese: “E tu che cosa hai trovato di prezioso? Qualcosa di magnifico, se hai impiegato tanti anni. Lo vedo dal tuo sorriso.. “Ho cercato Dio”, rispose l’altro. “E lo hai trovato?”, chiese l’amico sbalordito. “Ho scoperto che era lui che cercava me!”.

 

 

“Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non separi”. (Mt. 19,6)

Proviamo oggi a meditare questa parola sull’unità della famiglia attraverso gli occhi dei bambini. Il papà chiede ad Alessio, 5 anni: “Che cosa ti piace di più del papà?”. E Alessio, dopo aver riflettuto un po’: “La mamma” “Quand’è che ti accorgi che la tua famiglia va bene?” chiesero ad una bambina. “Quando vedo il papà e la mamma che si danno i bacetti” rispose. I genitori non devono nascondersi nell’armadio per darsi i bacetti. Ogni volta che manifestano l’amore che li unisce, i bambini si sentono inondati di calda e gioiosa fiducia. Sanno bene che l’amore reciproco dei genitori è l’unica roccia solida su cui possono costruire la loro vita.

 

 

“Il Regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che usci a prendere a giornata lavoratori per la sua vigna”.

(Mt. 20,1)

Il padrone di una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a cercare. Scorse un ragazzo di 16 — 17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo alto e magro, che non sembrava molto forte. “Come ti chiami giovanotto?”. “Alfredo, signore”. “Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria. Ti intendi di lavori agricoli?”. “Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!”. “Che cosa?” chiese il contadino sorpreso. “Io so dormire in una notte ventosa”. Il contadino scosse la testa e se ne andò. Nel tardo pomeriggio, incontrò nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la medesima: “Io so dormire in una notte ventosa!”. Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire nelle notti ventose. Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a lavorare nella sua fattoria. Così decise di assumere Alfredo che gli ripeté: “Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una notte ventosa”. “D’accordo. Vedremo quello che sai fare”. Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane. Poi una notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i camini, scuoteva le finestre. Il contadino saltò giù dal letto. La bufera avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche, sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai. Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte. “Alfredo, alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!”. Ma Alfredo continuò a dormire. Il contadino non aveva tempo da perdere. Si precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l’aia e raggiunse la cascina. Ed ebbe una bella sorpresa. Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate. Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere soffiati via, I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All’esterno il vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto era al sicuro. D’improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa intendeva dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa. Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva più. Tu, riesci a dormire in questa lunga notte di vento che è la tua vita?

 

 

“Egli mandò a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire”. (Mt. 22,3)

L’ingratitudine è un male da cui spesso siamo contagiati. Anni fa una contadina, essendo il marito ammalato gravemente, fece voto di accendere ogni giorno, per un intero anno, un cero dinanzi all’effigie della Santa Vergine. Tutte le mattine, di buon’ora, correva fino alla piazza principale del paese dove si ergeva la chiesa parrocchiale e, recitato un Pater, Ave e Gloria, offriva la sua candela alla Madonna. Poi se ne tornava velocemente a casa per assistere il marito infermo. Dopo nove giorni, l’uomo si alzò dal letto guarito. Il decima giorno, la donna, avendo da lavare tutta la biancheria accumulatasi durante la malattia del marito, disse tra se: Oggi ho troppo da sbrigare. Vorrà dire che andrò in chiesa domani e accenderò due ceri. L’indomani pioveva grosso un dito, perciò la donna si disse: Oggi c’è troppa pioggia. Se uscissi, m’inzupperei tutta. Vorrà dire che andrò domani e accenderò tre ceri. Di giorno in giorno, trovava sempre una scusa buona per non andarci. Però la brava donna si faceva premura di tenere il conto delle candele che avrebbe dovuto accendere. E così un bel dì si accorse che erano già cinquanta. Cinquanta candele!? Ma se io, adesso, vado in chiesa ad accendere cinquanta candele mi prenderanno certamente per matta! Perciò decise di lasciar stare.

 

 

"Ecco, il mio convito è pronto... venite alle nozze “. (Mt. 22,4)

Qual è il momento giusto per dire di sì al Signore? Quando il Signore parla: quello è il momento giusto! Se uno dice: Adesso non rispondo, risponderò più tardi.., corre un gran rischio. A questo proposito i rabbini raccontano questa parabola. E' simile a un re, che invitò i suoi sudditi a una festa. Ma non indicò l'ora esatta del banchetto. Quelli prudenti si prepararono subito e attesero all'ingresso della casa, vestiti per la festa. Pensavano: la porta del re può aprirsi ogni momento. Quelli stolti invece se la presero comoda e continuarono le loro faccende. Pensavano: i preparativi per la festa andranno per le lunghe, c'è ancora tempo prima che si apra la porta. Improvvisamente il re fece aprire le porte; Ecco, la festa era pronta e stava per cominciare. Gli invitati prudenti entrarono, con l'abito della festa. Quelli stolti, presi di sorpresa, corsero dal lavoro con l'abito sporco. Il re si adirò con loro e disse: "Gli invitati che si sono preparati per la festa siedano per mangiare e bere. Ma quelli che non si sono cambiati d'abito stiano in piedi a guardare, a bocca asciutta!".

 

 

“Chi si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”. (Mt. 23,12)

L’uomo si guardò nello specchio della fonte, si ammirò e disse: Io sono perfetto. Insegui una cerva, la colpì e l’uccise, poi disse: lo sono forte. Salì su di un monte, si vide in alto e proclamò: Io sono grande. Fregò due selci e accese il fuoco e affermò: lo posso. Numerò le stelle del cielo, diede loro un nome e dichiarò: Io so. Poi in una triste giornata di pioggia si rintanò nel suo speco e, per ammazzare il tempo, si diede a ruminare i suoi crucci e sentenziò: Io penso, dunque Io sono! In una radiosa giornata di primavera conobbe l’amore e cantò: Io sono felice. Scavò nella terra e vi trovò l’oro e concluse: Io sono ricco e soddisfatto, non ho bisogno di alcuno, ho tutto da me. Passò un anno, due anni, tanti anni... l’uomo tornò alla sua fonte, si rispecchiò, ma la bellezza era svanita. Dunque, disse, non era mia: qualcuno me l’aveva prestata e poi l’ha ripresa. Scorse una cerva, volle inseguirla, ma non ne ebbe la forza. Volle salire sul monte, ma si fermò a metà strada, curvo e senza fiato. Fregò due selci e ne trasse la fiamma; ma prese fuoco tutta la foresta, e l’uomo corse il rischio di perire lui stesso. Tentò di ricontare le stelle del cielo, ma i suoi numeri non bastarono più e deluso mormorò: Chi sa! Si smarrì, ebbe paura e corse a bussare alla porta della Verità per cercarvi asilo, ma la padrona non era in casa, era partita lasciandovi sol­tanto un servo, sospettoso e inospitale, il Dubbio. Pover’uomo! si sentì solo, invocò: Amore! e non udì che l’eco che gli rispose: Muore! Anche la felicità era perduta. Dunque non era sua. Ma ebbe un’idea. Corse a casa, prese tutto l’oro che aveva e si precipitò al mercato: anche un etto di felicità gli sarebbe bastato... No, il prodotto naturale era introvabile, anche a pagarlo a peso d’oro. C’era soltanto qualche surrogato. E allora capì che anche le ricchezze sono miseria. Capì che in realtà egli non possedeva nulla, che aveva tutto ricevuto e tutto poteva essergli tolto. Sentì che anche la vita gli sfuggiva e che non gli sarebbe riuscito di trattenerla né un giorno, né un’ora di più. Capì allora che s’era sbagliato e che la prima e più grande illusione era stata nel dire: lo sono grande, io sono forte, io posso, io so... io ho tutto da me. (Giovanni Albanese)

 

 

“Guai a voi scribi e farisei ipocriti”. (Mt. 23,13)

Un giorno la Provvidenza convocò uno dei suoi servitori e lo inviò sulla terra.

Va’, cerca per dieci giorni gli uomini ricchi e chiedi loro l’elemosina gli ordinò. Ciò che riuscirai a raccogliere, me lo porterai ed io lo distribuirò ai poveri. Quello partì e, vestito di stracci, si sedette nei pressi di una banca con un cappello in mano. La gente passava frettolosa, con l’aria triste e spenta senza badare affatto a quel povero accattone che rabbrividiva dal freddo. Il servo rimase in quel posto qualche giorno, ma non ricevette che qualche rara offerta. Decise perciò di spostarsi davanti alla porta di una cattedrale. Tuttavia capì che anche lì era inutile restare; non gli veniva dato se non quel poco di superfluo che a ciascuno avanzava. Anche lì la gente passava stanca e indifferente. Prima di ritornare dalla Provvidenza, tuttavia, dato che non erano ancora trascorsi i dieci giorni stabiliti, pensò di recarsi in un quartiere di poveri. Là, benché fossero vestiti di stracci come lui, si mostrarono tutti molto gentili e, se non altro, gli facevano dono dei loro sorrisi. Rimase perciò tra loro fino a che non giunse l’ora del ritorno. Mostrami la generosità degli uomini gli chiese la Provvidenza quando lo vide. E lui fece scivolare dalle tasche i pochi soldi che aveva ricevuto. Al vedere ciò, la Provvidenza si rabbuiò e si lamentò: Sarebbe questa la generosità degli uomini? E io cosa darò ai miei poveri? Intanto, dalle tasche del suo servo, iniziarono ad uscire tutti i sorrisi che aveva ricevuto nel quartiere dei poveri. Allora la Provvidenza si raddolcì, sorrise anche lei e disse: Per questa volta, ai poveri darò questo poco che hai raccolto e ai ricchi manderò in dono i sorrisi dei poveri... Chissà che così non saranno meglio disposti quando tornerai a cercarli!

 

 

“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge, la misericordia e la fedeltà”. (Mt. 23,23)

Dio non sopporta l’ipocrisia: Lui conosce i cuori nella loro realtà. Anche tra gli uomini l’ipocrisia e la supponenza sono una facciata che nasconde il vuoto. Un giorno un nipote passeggiava col nonno, vicino ad un campo di grano. Ad un tratto il piccolo notò che alcune spighe piegavano in giù il loro stelo, toccando quasi a terra, mentre altre se ne stavano ben diritte, slanciate verso il cielo. “Perché nonno, alcune spighe sono piegate e altre sono diritte?”. Il nonno colse due spighe e disse: “Vedi, quella ripiegata è carica di frutti”. Poi tentò di sgranare l’altra e disse: “Vedi, questa è vuota... Accade così spesso, anche tra gli uomini, ragazzo mio: le teste leggere si innalzano scioccamente al di sopra delle altre..

 

 

“Dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti”.

(Mt. 23,30)

Una delle più grandi ipocrisie che Gesù stigmatizza è quella della supponenza di essere migliori degli altri: “Se ci fossi io al Governo, sì che le cose andrebbero meglio!” “Se ci fossimo stati noi al tempo di Gesti, l’avremmo capito; di certo non sarebbe finito in croce!” “Se io fossi Papa... Se io fossi professore. Io sono me stesso, in questa storia, convivo con persone concrete, ho un ruolo concreto: lo sto vivendo da cristiano? Ce la metto tutta per essere onesto? Ho il coraggio di uscire dal coro dei luoghi comuni dell’ “intanto tutti fanno così”? Il mio accollare sempre agli altri le colpe non sarà forse un modo per mascherare il mio non fare? Si racconta nella vita di San Pietro di Alcantara che al conte d’Oropeia che deplorava il pervertimento della sua epoca, rispose: “La signoria vostra non si affligga: c’è un rimedio semplicissimo al male. Cominciamo io e voi, ad essere come dobbiamo essere e avremo rimediato per ciò che ci riguarda. Che ciascuno faccia altrettanto! La riforma sarà sicuramente efficace. li guaio è che ognuno parla di riformare gli altri e nessuno pensa a riformare se stesso”.

 

 

“Voi siete tutti fratelli”. (Mt. 23,8)

IL PRINCIPE E IL MENDICANTE

Un principe, andando a spasso, incontrò un mendicante che gli chiese l’elemosina dicendo: Fate la carità ad un povero fratello.

Il principe si soffermò, lo osservo, poi disse: Io non ho fratelli poveri. Il mendicante ribatté: Non siamo tutti fratelli in Gesù Cristo? Il principe gli diede una moneta d’oro. E cosi fece per dieci giorni di seguito, ogni volta che passava di là. L’undicesimo giorno il principe, fingendo di essere anche lui un mendicante, disse: Fate la carità ad un povero fratello. E il mendicante, irato: Io non ho fratelli! Allora il principe si fece riconoscere e rispose: Ho capito! Tu sei fratello solo dei principi. E gli riprese le dieci monete. (M. Reynaudo)

 

 

“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”. (Mt. 24,42)

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile. Un giorno ricevette l’ordine di costruire una villa esemplare secondo un progetto a suo piacere. Poteva costruirla nel posto che più gradiva e non badare alle spese. I lavori cominciarono ben presto. Ma, approfittando di questa cieca fiducia, il capomastro pensa di usare materiali scadenti, di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata. Quando la villa fu terminata, durante una festicciola, il capomastro consegnò al Presidente della società la chiave d’entrata. Il Presidente gliela restituì sorridendo e disse, stringendogli la mano: “Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza”. Questi tuoi giorni sono i mattoni della tua casa futura.

 

 

"Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore verrà”. (Mt. 24,42)

Problemi ecologici travagliano il mondo. Mai come oggi la pazzia dell'uomo ha arricchito la terra di veleni e di potenziali nucleari tali da distruggerla. E l'uomo si preoccupa, per la maggioranza del suo tempo di cose estremamente frivole. Racconta il filosofo Kierkegaard: Un giorno in teatro il retropalco prese fuoco. Il comico s'affacciò alla ribalta per avvertire il pubblico. Si pensò che facesse dello spirito e l'applaudirono. Insistette, le risate raddoppiarono. E' così pensò che perirà il mondo: nell'allegria generale della brava gente che crederà a una farsa.

 

 

“Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà”. (Mt. 24,44)

Un ricco proprietario visitava un’esposizione di pitture. La sua attenzione fu attirata da una tela che fermava gli sguardi di tutti; rappresentava una vedova attorniata dai suoi figli, sfrattata dal suo alloggio perché non poteva pagare l’affitto. La povera donna tendeva le mani supplicanti verso il proprietario perché avesse pazienza verso di lei, ma il viso spietato di quell’uomo dal cuore duro faceva capire che stava per cacciarla fuori. Questo dipinto lo inchiodò sul posto. Una scena del passato s’impose alla sua memoria. Eh, sì, mentre considerava quel quadro, riconobbe i suoi lineamenti nel viso dell’uomo e rivide le lacrime della donna che qualche tempo prima aveva fatto buttar fuori casa. Senza possibilità di dubbio si trattava proprio di questo: la tela era firmata dal figlio della vedova, diventato un pittore di talento! Così quell’uomo si trovava improvvisamente posto davanti ai propri atti. Come avrebbe voluto distruggere quel quadro di cui non poteva sopportare la vista! Ognuno di noi, un giorno, e non sappiamo quale, saremo messi alla presenza del quadro delle nostre azioni e, allora, non ci sarà più gomma capace di cancellare.

 

 

“Cinque ragazze erano stolte e cinque sagge”. (Mt. 25,2)

Le vergini sagge e quelle stolte erano tutte felici di partecipare alla festa di nozze, ma a qualcuna di loro mancava qualcosa. Domandarono ad un monaco buddista, avanzato nella meditazione, come fosse possibile, nonostante tante occupazioni, essere sempre raccolto. Egli disse: “Quando io sto in piedi, io sto in piedi; quando cammino, io cammino; quando mangio, io mangio; quando parlo, io parlo. “Questo lo facciamo anche noi”, rispose l’uomo che lo interrogava. E quello riprese: “No, quando voi siete seduti, voi state già in piedi; quando state in piedi, voi correte già; quando voi correte, voi siete già alla meta”.

 

 

“Le vergini sagge, insieme alle lampade, presero anche dell’olio”. (Mt. 25,4)

A proposito di saggezza e di saper vegliare ecco alcuni passi di un libro edificante del V Secolo sui monaci allora famosi. Un vecchio padre del deserto disse: “Ogni sera e ogni mattina il monaco deve chieder conto a se stesso delle proprie azioni e domandarsi: “Ho forse fatto ciò che Dio non vuole? oppure non ho fatto ciò che Dio vuole?”. Un secondo padre anziano disse: “Chi ha perso oro o argento può trovare altro oro o altro argento, ma chi ha perso tempo non troverà altro tempo”. E un terzo ancora disse: “La mattina, quando t’alzi, devi dare questo comando: “Tu, corpo, lavora per nutrirti, e tu, anima, vigila per procurarti l’eredità del cielo!”. Si narra che ad un monaco venne questo pensiero: “Oggi riposati e domani farai penitenza”. Egli replico: “No, farò penitenza oggi e mi riposerà domani”, Un santo vegliardo disse: “Se il nostro uomo interiore non vigila, l’uomo este­riore non può essere vigilato”.     

 

 

“Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto”. (Mt. 25,23)

Dopo una vita semplice e serena, una donna morì e si trovò subito a far parte di una lunga e ordinatissima processione di persone che avanzavano lentamente verso il Giudice Supremo. Man mano che si avvicinava alla mèta, udiva sempre più distintamente le parole del Signore. Udì così che il Signore diceva ad uno: “Tu mi hai soccorso quando ero ferito sull’autostrada e mi hai portato all’ospedale, entra nel mio Paradiso”. Poi ad un altro: “Tu hai fatto un prestito senza interessi ad una vedova, vieni a ricevere il premio eterno E ancora: “Tu hai fatto gratuitamente operazioni chirurgiche molto difficili, aiutandomi a ridare la speranza a molti, entra nel mio Regno”. E così via. La povera donna venne presa dallo sgo­mento perché, per quanto si sforzasse, non ricordava di aver fatto in vita sua niente di eccezionale. Cercò di lasciare la fila per avere tempo di pensare, ma non le fu assolutamente possibile: un angelo sorridente ma deciso non le permise di abbandonare la lunga coda. Col cuore che le batteva forte, e tanto timore, arrivò davanti al Signore. Subito si sentì avvolta dal suo sorriso. “Tu hai stirato tutte le mie camicie. Entra nella mia felicità”.

 

 

“Venuto colui che aveva ricevuto un solo talento disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato. Per paura andai a nascondere il tuo talento sottoterra; Ecco qui il tuo”. (Mt. 25,24-25)

Ditemi che sono puerile. E’ vero, non mi offendo, anzi qualche volta lo ritengo un dono ricevuto da investire. E, allora, permettetemi di immaginare il giudizio finale in questo modo. E se volete, provate anche voi a farvi personaggi di questa storia. Tre persone morirono e si trovarono in una enorme aula  d’attesa vuota. Erano seduti su tre sedie lontane le une dalle altre. ‘Sapevano’ che al di là della porta si sarebbe svolto il grande, terribile, definitivo giudizio universale. L’attesa era snervante: erano in tre, ma ciascuno si trovava solo con se stesso. Il primo cominciò a pensare: ”Ecco vedrò la grandezza, la forza, la potenza di Dio ed Egli mi chiederà di rendergli conto della mia vita. Che cosa raccontare? Ho avuto molti doni; salute per tanti anni, una famiglia buona, una moglie splendida, discreta fortuna negli affari. Ma questo anche Lui lo sa, sono i suoi doni. Però, non sempre li ho usati bene. Ho sprecato parte della mia salute per  cose che non erano importanti. Non ho sempre amato, rispettato e messo in pratica i buoni insegnamenti della mia famiglia, ho perfino tradito mia moglie, e in questo momento me ne dispiace veramente: non lo meritava. E i beni non ho saputo sempre condividerli: il mio è un bilancio fallimentare… Non potrò che appellarmi alla misericordia del Giudice”. Anche il secondo pensava alla sua vita: non era stata una vita fortunata; orfano fin da piccolo, stenti, difficoltà a trovare un lavoro, un matrimonio non d’amore, una separazione, una lunga malattia: “Quante volte sono stato sul punto di bestemmiare la vita e il mio Creatore… forse lo avrò anche fatto ma poi ho sempre ricominciato da capo, non ho mai perso la fiducia in modo definitivo né in Dio, né negli uomini. Racconterò questo a Dio e la sua bontà che ha accolto i lamenti della mia vita, accoglierà anche la mia supplica”. Il terzo, guardando in terra, quasi a rientrare meglio in se stesso, faceva i suoi conti: “Dio è terribile, il suo giudizio severo, ma io lo sapevo e posso dirgli: Ecco il tuo! Non ho sprecato niente di quanto mi hai dato, anzi non l’ho neppure usato per potertelo restituire. Ho osservato le norme: sono andato a Messa anche se mi costava. Ho partecipato (secondo le mie forze) a qualche raccolta di beneficenza. Ho perdonato dicendo: Non capiti un’altra volta". In quel momento gli sorse un dubbio: ”E se Dio non fosse stato un buon ragioniere?”. Si aprì una porta e un Angelo sorridendo disse: “Signori, il giudizio universale è finito, ciascuno di voi sa dove andare”.

 

 

“E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre”. (Mt. 25,30)

Parecchi monaci, chiamati “gli oranti” perché volevano dedicarsi esclusivamente alla preghiera, andarono a far visita all’abate Lucio. L’anziano monaco chiese loro: “Che lavoro fate?” Essi dissero: “Noi non lavoriamo, ma obbediamo all’insegnamento di Paolo di pregare incessantemente”. L’anziano chiese se mangiavano, e quelli risposero di sì. L’abate allora domandò: “Quando mangiate, chi prega per voi?”. Poi chiese se dormivano, e quelli risposero di sì.. E ancora una volta l’abate domandò: “Quando dormite, chi prega per voi?”. Alle due domande, i monaci non seppero dare una risposta. Allora l’anziano soggiunse: “Perdonatemi, ma voi non agite secondo quel che dite. Io invece riesco a fare un lavoro manuale e nello stesso tempo a pregare incessantemente. “Mi metto a sedere alla presenza di Dio, filo le mie corde e dico: “Abbi pietà di me, o Dio, nella tua grande misericordia, e compassionevole liberami dal peccato!” Poi chiese loro se quella fosse preghiera, ed essi risposero di sì. L’anziano continuò: “Al termine d’una giornata trascorsa in lavoro e in preghiera, ho guadagnato più o meno sedici monete. Due monete le depongo per terra fuori della porta e col resto mangio. Chi prende le due monete prega per me quando mangio e quando dormo. “Così, con la grazia di Dio, obbedisco all’insegnamento di pregare incessantemente”.

 

 

“E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre”. (Mt. 25,30)

Racconta una parabola araba: Un fannullone sedeva un giorno sull’uscio di casa, annoiandosi a morte. E’ questo sole che mi opprime pensava. Se Allah mandasse la pioggia mi divertirei ad ascoltarne la voce! Allah lo accontentò. Per un po’ l’uomo sorrise alla novità, ma poi ripiombò nella noia. Gli venne il desiderio del vento, che scuote alberi e uomini. Allah lo accontentò di nuovo. Ma dopo un attimo di soddisfazione, il fannullone riprese a lagnarsi. Vorrei vedere la neve che tutto trasforma col suo candido manto! Allah esaudì ancora il suo desiderio. Dopo qualche istante di stupore, l’uomo riprese ad annoiarsi. Poi, vincendo con sforzo la pigrizia, si alzò per recarsi da un amico che faceva il sarto. L’esistenza non è forse insopportabile? gli chiese. Tutto stanca. Il cielo azzurro, la pioggia, la neve. Che potrei chiedere ad Allah? Il sarto, indaffaratissimo a tagliare un abito, senza alzare gli occhi rispose: La voglia di lavorare. Chi lavora ha la noia in pugno. Con un colpo di forbici la può recidere quando vuole, sia che piova, nevichi o splenda il sole.

 

 

“Avevo fame e tu mi hai dato da mangiare...”. (Mt. 25,31—46)

A volte sembra che solo le cose più evidenti sembrano “evangeliche”; un romanziere, Evely Waug attualizza questa pagina del vangelo. Un contadino irlandese, sempre lieto e buon compagno d’allegria una notte ebbe un sogno. Gli sembrò di essere morto e di trovarsi al giudizio universale. Era quasi disperato perché aveva molte marachelle sulla coscienza; sentiva che il Giudice, indicando qualcuno tra i beati diceva: “Avevo fame e tu mi hai sfamato. Vieni alla mia destra”, oppure: “Avevo freddo, e tu mi hai ricoperto”, oppure: “Ero assetato, e tu hai calmato la mia arsura...”, si capiva che ogni opera buona, fatta per amor di Cristo al prossimo, era subito ricompensata. Il contadino tremava tutto perché non si ricordava di aver mai incontrato quel Giudice sfolgorante di luce e di bellezza, ma quando venne il suo turno ebbe la gioia di vedersi osservato benevolmente e di essere assegnato tra i beati. “Che cosa mai avrò fatto di buono?” si chiedeva umilmente. E il Giudice esclamò: “Ero triste un giorno e tu mi hai sorriso, ero addolorato e tu mi hai consolato con un allegro discorso, ero turbato e tu mi hai rasserenato.

 

 

“Ero malato e siete venuti a visitarmi”. ( Mt. 25,36)

I coniugi Ozanam ( genitori del celebre Federico, fondatore delle Conferenze di S. Vincenzo), arrivati alle soglie della vecchiaia sentirono il peso delle fatiche che la carità, da loro costantemente praticata nelle soffitte e nei tuguri di Parigi, aveva loro imposto per tanti anni. Così si diedero dei limiti, secondo le loro forze e si promisero a vicenda che non sarebbero andati a visitare se non malati del primo, o al massimo, del secondo piano. Un giorno, papà Ozanam, che era medico, si trovava presso alcuni poveretti al pian terreno e gli parlarono di un malato abbandonato da tutti al quarto piano. Il bravo dottore tentennò un po', poi finì col dire: "Ci vado, ma, per amor del cielo, non ditelo a mia moglie, le ho promesso che non avrei mai superato il secondo piano". E va su, col fiato grosso, con grande fatica. Entra dall'ammalato a cui una donna stava dando da bere. Quando si avvicinò, la donna si voltò: era sua moglie. Si guardarono in faccia arrossendo, poveri vecchietti, ancora ansanti per quelle scale. Ma si sorrisero, felici.

 

 

“Ero malato e siete venuti a visitarmi”. ( Mt. 25,36)

Ricordiamo un episodio della sua vita di Santa Caterina. Siena, seconda metà del XIV secolo. All'Ospedale San Lazzaro non si aveva memoria di un malato più impaziente e ingrato della Tecca. Ha la lebbra! E' intrattabile, smaniosa, per un nulla si adira con i medici e gli infermieri. Vagherà per la campagna, secondo l'uso dei tempi, suonando un campanello, per annunciare il suo passaggio. La voce giunge fino a Caterina. Essa si reca a San Lazzaro e chiede di accudire lei alla povera Tecca. "Conosco la tua generosità le risponde il cappellano dell'ospedale ma temo che questa volta non ce la farai". Caterina non si scoraggia. Va dalla Tecca. "Buon giorno, Tecca, il Signore ti aiuti!" "E a te venga una lebbra peggiore della mia!" le urla la terribile malata, graffiandola a sangue. Ma Caterina non si arrende e comincia ad occuparsi di quella povera lebbrosa, con lo stesso e delicato amore con cui Maria unse e profumò i piedi di Gesù. In cambio non ha che sgarbi e male parole. Un giorno Caterina arriva in ospedale in ritardo: ha le mani fasciate, la lebbra ha colpito anche lei. Quando la Tecca la vede e se ne rende conto scoppia in singhiozzi. "Non piangete per me, la consola Caterina quando il Signore permette che il male ci colpisca, lo fa per prepararci un posto più bello in cielo". Qualche giorno dopo, dopo essersi rappacificata con Dio e con gli uomini, la povera Tecca va in cielo. Caterina, con amore forte e delicato ne lava per l'ultima volta le piaghe e l'accompagna nel suo ultimo viaggio. Al ritorno si guarda le mani: non un segno, non un'ulcera: sono miracolosamente guarite, forse per le preghiere della sua amica Tecca in cielo.

 

 

“Signore, quando ti abbiamo visto affamato, assetato, forestiero, nudo, ammalato o in carcere?”. (Mt. 25,44)

Per chi è abituato a incontrare Dio nelle parole della teologia, nella solennità del tempio, nelle norme di codici morali stenta a capire questo “trasformismo” di Gesù che ha fame, sete, è ammalato o in carcere. Eppure l’essenza del Vangelo è proprio qui: il Dio del tempio, della morale, della teologia è il Dio incarnato in ogni uomo; l’ossequio, la lode, la preghiera hanno il loro valore sia nel tempio sia nel servizio, Il nostro Dio profuma di incenso ma anche odora di povertà, Il riconoscerlo non è neanche avere sempre la coscienza di vederlo, è lasciare che l’amore che Lui ci ha donato si manifesti nella concretezza dell’attenzione al prossimo. Un racconto del Novellino (sec. XIII) parla di un fraticello che una notte sognò di morire. Si presentò sicuro alle porte del paradiso con tutte le sue preghiere e le opere buone compiute come lui le aveva volute e sbandierate a destra e a manca per dimostrare quanto era bravo. Bussò alla porta: “Chi è?” chiese la voce del Padre. “Sono io, mi conosci bene! Posso entrare?”. Le porte del Paradiso rimasero chiuse. Fu tale il dispiacere del povero frate che si svegliò e cambiò vita. Visse giorno dopo giorno non più come voleva lui, ma imitando Gesù, il suo stile. Quando venne veramente la morte, egli bussò alla porta del Paradiso e la voce del Padre gli chiese: “Chi è?”. Questa volta il frate rispose: “Sono Gesù... perché Lui è la mia vita!”. Le porte si spalancarono.

 

 

“I poveri li avrete sempre con voi”. (Mt. 26,11)

Gesù non è contento della povertà in se stessa ma i poveri sono anche in mezzo a noi per richiamarci alla nostra responsabilità verso loro. Era inverno. L’uomo vide la bambina, magra, accovacciata per terra e avvolta in pochi, miseri stracci. Vide la piccola mano, nera di sporcizia, tesa a racimolare poche elemosine. Allora l’uomo levò gli occhi al cielo: Dio mio, come puoi permettere tutto ciò? Perché non aiuti questa bambina? Una voce incorporea risuonò nella aria trasparente: Ma io l’ho già aiutata. Ho creato te.

 

 

“Lo crocifissero…”. (Mt. 27,35)

Maggio 1945. La Seconda Guerra Mondiale era finita. La Germania, sconfitta, era stata occupata dalle truppe americane, inglesi e russe. In una cittadina tedesca, una compagnia di soldati americani aveva deciso di ricostruire la chiesa, completamente distrutta dalle bombe. Durante lo sgombero delle macerie, un soldato trovò fra i calcinacci la testa di un Gesù crocifisso molto antico. Colpito dalla bellezza di quel volto, lo mostrò ai compagni. “Cerchiamo gli altri pezzi e ricostruiamo il crocifisso”, rispose uno. Si misero tutti a frugare con pazienza fra le macerie. Rovistando qua e là, soprattutto vicino all’altare, trovarono molti frammenti di crocifisso. Con calma, due soldati tentarono di ricomporre il crocifisso frantumato. Ma nessuno riuscì a trovare le mani di Gesù. Quando la chiesa fu ricostruita, anche il crocifisso riprese il suo posto sull’altare. Mancavano soltanto le mani. Ma un soldato collocò ai piedi del crocifisso un cartello con queste parole: “Ora ho soltanto più le tue mani”.

 

 

 

 

 

 

 

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