Teodicea
in Leibniz
“Sul primo problema [quello dell'esistenza del male] la teodicea di Leibniz risponde più specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni che poi non facevano altro che amplificare quanto avevano già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: “Dio o non vuole togliere i mali o non può, o può e non vuole, o non vuole ne può o vuole e può. Se vuole e non può è impotente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole ne può è invidioso e impotente, perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo conviene a Dio, da che cosa deriva l'esistenza dei mali e perché non li toglie?” La soluzione di Leibniz richiama quella di Agostino: il male non è una realtà, pertanto il divino non ne è responsabile. Il libero arbitrio è quindi la condizione in cui l'uomo è libero di considerare alcuni eventi come “male”, poiché Leibniz sostiene, come è noto, che questo è il migliore dei mondi possibili (il “Dio” perfettissimo non può aver creato qualcosa di imperfetto), e quindi ogni evento negativo come cataclismi e l'esistere di un male arbitrario che colpisce gli innocenti ha la sua spiegazione nella legge superiore di armonia che sorregge la creazione divina e che giustifica ogni accadimento alla luce di un disegno superiore non conosciuto dall'uomo. Per Leibniz “Dio inclina senza necessitare e la libertà dell'uomo non consiste nell'indeterminazione assoluta, cioè nell'arbitrio di indifferenza, ma nell'assenza di necessità e costrizione.” Il male dunque è nell'uomo, non nel divino. Di fronte a un disastro naturale il male attribuito all'evento è volontà umana, in realtà questo male è sempre e comunque un bene, relativamente al disegno divino non comunicato agli essere creati. Ma perché, dunque, il divino perfettissimo ha lasciato che nella mente dell'uomo si formasse il concetto del male? Come si può escludere, relativamente al discorso di Leibniz e Agostino, una certa responsabilità di questo tipo di divino riguardo al lasciar esistere il male negli uomini? La posizione protestante è la seguente: il divino ha già predestinato ogni uomo a percorre il suo destino, nulla di ciò che accade nel mondo può minimamente intaccare il principio per cui è il divino a scegliere chi salvare o no, il male è dunque volontà del divino, che liberamente sceglie di punire o di ricompensare, in terra come in cielo. Per Calvino le opere buone degli uomini non sono un qualcosa che può far meritare la salvezza eterna, ma sono solo gli indizi di una predisposizione alla salvezza già decisa dal divino: chi ha successo economico e sociale nel mondo terreno può cogliere i segni della sua predestinazione alla salvezza in questo suo successo mondano. Per i protestanti il male è quindi opera del divino, un segno della sua punizione. Anche in questo caso non si comprende come e perché l'uomo, che non è padrone del suo destino, si meriti o meno una punizione, visto che non può essere responsabile delle sue azioni, già determinate nell'ambito del grande disegno divino (questa argomentazione trova una spiegazione nel sopralapsarismo, ovvero la dottrina, accettata da Calvino, che indica la caduta di Adamo nel peccato come il frutto della predeterminazione divina, la quale ha posto in essere questa necessaria caduta proprio per poter attuare il suo disegno di salvezza). Per i protestanti il libero arbitrio contraddice dunque l'onnipotenza divina: se un uomo fosse in grado di salvarsi liberamente scegliendo quali azioni terrene predisporre in vista della salvezza eterna, l'uomo sarebbe di fatto il proprio giudice, e il divino sarebbe limitato dalla libera scelta dell'uomo, ma il divino, essendo onnipotente, non può avere alcun limite. Quando si parla della presenza del male nel mondo supponendo questo mondo il frutto di una divinità onnipotente e buona, si entra comunque in contraddizione. Tutto questo fa supporre che è la volontà umana di attribuire certi valori al divino a farlo entrare in contraddizione una volta assunti questi valori. Tuttavia rimane sempre la possibilità, perorata dai fedeli contemporanei, che il divino sia irrazionale puro, entità non riducibile ad alcuna logica umana e che sia proprio dell'essenza della fede, in ultima analisi, la volontà di credere, scandalosamente, contro ogni ragionevolezza (Kierkegaard). San
Tommaso sosteneva che vi fosse accordo tra fede e ragione: tuttavia
non è chiaro se questa affermazione si fondi su un principio di fede
o di ragione. Se l'accordo tra fede e ragione si fondasse su un principio
di ragione, allora la fede sarebbe subordinata alla ragione (ciò non
può essere per i fedeli), se invece tale accordo si fondasse su un
principio di fede allora è solo opinione del fedele, un suo volere
dettato dalla fede, porre questo accordo tra fede e ragione (questa
considerazione è di Emanuele
Severino).
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