L'ATTACCO A PEARL HARBOR
(7 DICEMBRE 1941)
"Tora! Tora! Tora!"
L'ATTACCO DI PEARL HARBOR
SCALATE IL MONTE NIITAKA (Niitaka fama Nobore)
Il piano escogitato dall'ammiraglio Yamamoto, l'attacco cioè della flotta
americana alla fonda a Pearl Harbor, poggiava su un postulato essenziale: la sorpresa. Bastava che gli americani la sospettassero sia pur
minimamente e l'operazione avrebbe perduto il suo carattere stupefacente e con ciò la sua stessa ragione d'essere. Il segreto che circondò i preparativi fu eccezionale e vennero adottati provvedimenti di sicurezza
draconiani.
A metà novembre 1941 l'addestramento a ritmo serrato era finito, gli equipaggi e i mezzi potevano considerarsi prontissimi. A bordo delle
navi prescelte per l'operazione vennero imbarcati gli ultimi rifornimenti, mentre le prime unità già salpavano l'ancora.
Le navi arrivarono così a scaglioni o singolarmente il 22 novembre nel punto di riunione, la baia di Tankan (chiamata altresì
Hitokappu),
nell'isola quasi deserta di Etorofu.
Quest'isola situata nelle Curili meridionali era stata scelta perché pochissimo popolata, perché non vi si trovava un solo straniero e perché rimaneva quasi sempre avvolta in una nebbia impenetrabile. Essa costituiva l'incontro provvidenziale per una missione del genere. Nel frattempo, radioperatori di ogni grande nave, servendosi dei consueti segnali di riconoscimento e del loro c tocco personale. erano rimasti a Kure, nell'isola di Hondo dell'arcipelago giapponese, e mantenevano un traffico radio apparentemente immutato. Questa ulteriore precauzione si rivelò assennata, poiché non soltanto ingannò i servizi di ascolto americani, ma anche certi ufficiali giapponesi, all'oscuro di tale astuzia, tra i quali lo stesso ammiraglio Kusaka, il quale, a un momento, pensò che vi fossero fughe di notizie.
Alla fine di quel pomeriggio del 22 novembre, le 31 navi che formavano il corpo di spedizione di Pearl Harbor, posto agli ordini del vice ammiraglio Chuiki Nagumo, erano riunite nell'inospitale baia di Tankan. Nella luce fioca del crepuscolo invernale, si intravedevano, attraverso la nebbia fredda e umida, le masse imponenti di sei portaerei, la Kaga e l'Akagi nave ammiraglia della Kido Butai, la Soryu e I'Hiryu, un po' più piccole, della 2. divisione, e la Shakaku e la Zuikaku, recentissime, della 5° divisione (vedi foto).
Un po' più lontano, il gruppo d'appoggio comprendeva le alte sagome di due corazzate antiquate ma veloci, la Hiei e la Kirishima della 3. divisione di linea, e i due incrociatori pesanti nuovissimi Tane e Chikuma dell'8° divisione incrociatori. Più vicino alla riva si vedeva l'incrociatore leggero Abukuma conduttore della I squadriglia cacciatorpediniere comprendente le 9 torpediniere di scorta Tanikaze, Urakaze, Isakaze, Hamakaze, Kasuni, Arare, Kagera,Shiranuhi e Akiguma. Più oltre si scorgevano a malapena i profili di tre sommergibili del gruppo di pattuglia I. 19, I.21 e I.26. E in ultimo, un po' in disparte, annegate nella nebbia, v'erano le 8 petroliere e navi rifornimento al seguito della squadra.
Anche qui vennero adottate misure di sicurezza per garantire il segreto più assoluto sulla missione. Gli equipaggi furono consegnati, e i rifiuti, di solito gettati in mare, vennero triturati e conservati.
La scelta della rotta da seguire era stata oggetto di accese discussioni e, dopo aver rinunciato alla rotta sud che passava per le isole Marshall, nel timore di possibili indiscrezioni, e alla rotta centrale, perchè troppo vicina alle linee del commercio internazionale, si optò per la rotta nord, più lunga, e in un mare non di rado tempestoso, ma al riparo da incontri incresciosi (vedi immagine). Inoltre la squadra aveva avuto l'ordine di colare a picco senza preavviso qualsiasi bastimento, anche giapponese, incontrato durante la rotta di avvicinamento.
E per giunta, l'ammiraglio Yamamoto aveva raccomandato all'ammiraglio Nagumo di invertire la rotta se la
squadra fosse stata avvistata due giorni prima del giorno J. Nel caso che questa eventualità si fosse determinata un giorno prima del giorno l,
l'ammiraglio Nagumo rimaneva il solo giudice e doveva decidere se effettuare l'operazione o rinunciarvi.
Attenendosi alle direttive dello stato maggiore generale, l'ammiraglio Yamamoto trasmise personalmente il 25 novembre l'ordine di salpare
il mattino del 26, reiterando la consegna dell'assoluto silenzio radio.
Preceduti dai sommergibili partiti parecchie ore prima, i cacciatorpediniere uscirono dalla baia alle ore 6, nella notte ancor buia, flagellati
da un vento violento e glaciale. Poi, ad una ad una, le grandi navi si misero in moto.
Alle 8 la baia rimaneva deserta e non appena in alto mare la flotta assunse la formazione di navigazione. Le sei portaerei si disposero su due colonne di tre avendo ciascuna una nave di linea in coda e un incrociatore pesante spostato di prora e alcuni cacciatorpediniere che proteggevano i fianchi, mentre gli altri erano spiegati in linea di fronte davanti alla formazione (vedi immagine).
I sommergibili svolgevano compiti di esplorazione 200 miglia di prora e assicuravano la protezione della flotta. Quest'ultima navigava in formazione raccolta e a bassa velocità per economizzare combustibile e consentire alle petroliere e alle navi onerarie di mantenere le loro posizione. Il mare era tempestoso con onde lunghe, il vento non riusciva a disperdere la fitta nebbia. I caccia torpediniere sembravano tuffarsi e poi riemergere dalle onde tanto beccheggiavano.
Il 28 novembre si tentò di fare rifornimento in mare, ma gli elementi erano scatenati a tal punto che fu necessario rinunciare. Numerosi marinai furono spazzati via dalle grosse tubazioni e dalle gomene e annegarono. Il 30 la stessa operazione venne ritentata, con risultati un po' migliori; ciononostante, alcuni fusti di benzina ruppero gli attacchi e rotolarono sventrandosi.
La navigazione continuò e i radioperatori in ascolto delle emittenti americane non captarono nulla che lasciasse supporre la scoperta dell'operazione. L'ammiraglio Nagumo era però preoccupato. Le corazzate e gli incrociatori del vice ammiraglio G. Mikawa non sembravano risentire troppo della tempesta, ma il contrammiraglio S. Omori, sull'incrociatore leggero Abukuma era impegnatissimo nel far si che i suoi fragili cacciatorpediniere, i quali danzavano frenetici sul mare scatenato, si mantenessero in formazione.
La maggior parte degli ufficiali superiori e un centinaio di ufficiali di aviazione erano stati informati dell'operazione, ma tutti gli altri degli
equipaggi non ne sapevano nulla. Il 2 dicembre l'ammiraglio Nagumo ricevette il messaggio fatidico :
Niitaka fama Nobore (Scalate il monte Niitaka).
Gli ultimi dubbi si dileguarono. Questo messaggio significava infatti che le trattative a Washington erano fallite e che la prevista operazione
doveva essere attuata 1'8 dicembre (il 7 alle Hawaii).
Gli equipaggi vennero adunati e informati dello scopo della missione.
Fu un delirio generale e un uragano di Banzai .(letteralmente: Diecimila anni di vita
all'imperatore!). A partire da quel momento fu febbrile l'atmosfera in cui gli aviatori studiarono i loro obiettivi
particolareggiati su carte a grande scala, su modelli in rilievo e su
planimetrie, a frequenti intervalli misero in moto i motori, verificarono i comandi,
controllarono le armi.
Grazie all'eccellente rete di spionaggio, la flotta riceveva parecchie volte al giorno, ritrasmessa da Tokio, la situazione delle navi americane nella
base di Pearl Harbor .
Ci si avvicinava alla meta. L'ammiraglio Nagumo, desiderando avere piene le casse di nafta nell'eventualità di una precipitosa ritirata, fece
rifornire di carburante tutte le sue navi tra il 5 e il 6 dicembre, e le 5 petroliere lasciarono la squadra per rientrare in patria.
Il 6 dicembre l'ammiraglio Isoroku Yamamoto inviò un messaggio di incoraggiamento.
Sull'albero della nave ammiraglia Akagi salì la bandiera Z, che l'ammiraglio Togo aveva alzato a Tsushima nel 1905 (vedi immagine), e la flotta, liberata delle navi onerarie, aumentò la velocità facendo rotta sud a 24 nodi. A intervalli regolari, i messaggi trasmessi da Honolulu indicavano una situazione in pratica immutata della flotta americana.
Nella serata del 5, un nuovo telegramma non segnalò alcun pennacchio di fumo sui
fumaioli delle navi americane, alcuna traccia di sbarramenti con palloni aerostatici e alcun indizio di allarme aereo.
Alle Hawaii non si sospettava manifestamente nulla. Era un successo meraviglioso di tutte le misure di sicurezza, di tutte le eccezionali precauzioni delle quali si era
circondata la flotta imperiale. Gli ultimi messaggi dalle Hawaii, però, non indicavano la sperata presenza delle portaerei americane, che costituivano l'obiettivo principale. Il comandante dell'Akagi si consolò pensando che forse, all'ultimo momento, una o due portaerei sarebbero rientrate a Pearl Harbor nelle
prime ore del mattino, per consentire ai loro equipaggi di godersi il sacrosanto week-end americano.
L'ammiraglio Yamamoto aveva deciso che l'attacco doveva essere sferrato domenica, ben sapendo quale importanza rivestisse quel giorno di
distensione e di riposo per le abitudini americane: pensava di sorprendere in questo modo la quasi totalità delle forze locali americane in un'atmosfera di vacanza.
L'aspetto psicologico aveva costituito un fattore importante nella concezione dell'operazione. Il 6 dicembre, alle ore 16.52 (ora di Tokio), il sommergibile giapponese I. 72, di pattuglia al largo delle Hawaii, confermò che la flotta americana non si trovava nell'ancoraggio di addestramento di Lahana, bensì a Pearl Harbor. All'1.20 di mattina del 7 dicembre (ora locale), Tokio ritrasmise uno degli ultimi messaggi pervenuti da agenti a Honolulu. Questo telegramma riconfermava che tutto era normale. In un silenzio radio totale, la flotta giapponese calò direttamente a sud verso Oahu. Ne distava meno di 250 miglia quando, alle ore 5.30, i due incrociatori pesanti Tone e Chikuma catapultarono ciascuno un idrovolante, eseguendo così l'unica e ultima ricognizione aerea prima dell'attacco. A bordo delle portaerei, la febbrile esaltazione, l'entusiasmo e l'impazienza aumentavano e i meccanici tornavano a verificare per l'ultima volta gli aerei sul punto di partire. Gli aviatori si riunirono intorno a piccoli altari portatili scintoisti, poi si ritrovarono tutti nella sala operazioni. Insieme alle razioni speciali, ebbero allora le ultime indicazioni di volo e le rotte di ritorno. Alcuni minuti dopo presero posto sui loro apparecchi mentre le sei portaerei accostavano adagio per mettersi con la prua al vento. La flotta si trovava in quel momento 230 miglia a nord-est di Oahu, su un mare sempre agitato che faceva oscillare i ponti.
E sotto un cielo coperto, alle prime luci dell'alba, alle 6 di quel 7 dicembre (ora locale), mentre le bandiere di decollo salivano sull'albero della nave ammiraglia Akagi, i primi apparecchi partirono (vedi immagine). Le partenze erano date in funzione dei movimenti di oscillazione dei ponti di volo, ogni aereo trovandosi lanciato all'estremità della pista quando la prua veniva sollevata dalle onde. Partirono anzitutto i caccia, seguiti dagli aerosiluranti che a loro volta precedettero i bombardieri in picchiata e i bombardieri in quota. Poco tempo dopo, 183 apparecchi che costituivano la prima ondata, viravano assumendo la formazione di volo.
Comandati personalmente dal capitano di fregata Mitsuo Fuchida (vedi immagine) procedevano i 49 bombardieri in quota Nakajima tipo 97, che volavano a 2700 metri d'altezza; un po' più in alto e a sinistra v'erano i 51 bombardieri in picchiata Aichi tipo 99, a destra e un po' più in basso i 40 apparecchi Nakajima tipo 97 armati con siluri e quindi, molto in alto, intorno ai 4000 metri di quota, i 43 caccia Mitsubishi tipo Zero che assicuravano la protezione. Gli aviatori giapponesi, sorvolando un mare di nuvole, disperavano di individuare gli obiettivi, quando, verso le 7, udirono per radio il rapporto dei due idrovolanti di ricognizione del Tone e del Chikuma che annunciavano loro le condizioni atmosferiche sopra Pearl Harbor : "Nuvoloso a tratti". soprattutto sopra le montagne... plafond 1500 metri... visibilità buona.. » Le apprensioni si dileguarono e il comandante Fuchida avvertì gli equipaggi che avrebbero attaccato da est e da ovest per evitare le montagne a nord di Oahu.
L'AZIONE DEI SOMMERGIBILI TASCABILI
Dei 28 grandi sommergibili giapponesi che
incrociavano da alcuni giorni allargo dell'arcipelago delle Hawaii, 5
del tipo I, 16 erano stati attrezzati per poter trasportare ciascuno un
sommergibile tascabile. L'idea risaliva al 1936 e si basava sul
principio che un sommergibile piccolissimo sarebbe stato in grado di
insinuarsi ovunque. Quando la guerra con gli Stati Uniti divenne probabile, l'ammiraglio
comandante della flotta sottomarina nipponica escogitò un piano aggiunto all'operazione
di Pearl Harbor. I sommergibili tascabili dovevano completare
con i loro siluri l'opera distruttrice degli aerei.
In un primo momento, l'ammiraglio Yamamoto limitò il loro compito in ultimo,
però, lo accettò sulla base di un'attività di ricognizione e di attacco, ma soltanto dopo l'azione degli aerei, per non compromettere
l'effetto della sorpresa.
Sebbene l'ammiraglio Yamamoto avesse insistito affinchè si prevedesse il
ricupero degli equipaggi dei sommergibili tascabili, nulla fu fatto in tal
senso e quegli uomini partirono, deliberatamente e ufficialmente senza troppe
speranze di fare ritorno.
Gli scafi avevano una lunghezza di circa 13 metri ed erano azionati
esclusivamente da un motore elettrico che assicurava loro una scarsa
velocità e un breve raggio d'azione. Avevano un equipaggio di due uomini e
trasportavano due siluri da 45° millimetri. I 5 grandi sommergibili che li avevano a bordo giunsero nel punto in cui
dovevano metterli in mare, a sole 8 miglia da Pearl Harbor, verso le 3 del mattino del 7 dicembre ora delle: Hawaii. Si vedevano
chiaramente le luci sulla costa, le insegne al neon, i fari delle automobili,
e a volte si udivano, pianissimo, battute di musica jazz proveniente da un
dancing.
Alle 3.30 i cinque piccoli sommergibili fecero sganciare i chiavistelli dei
ganci di fissaggio e abbandonarono gli scafi-madre.
LA BASE NAVALE DI PEARL HARBOR
Sin dalla primavera del 1941, tanto alle Hawaii quanto a Washington si parlava ovviamente molto di una possibile guerra. Le relazioni diplomatiche nippo-americane continuarono a peggiorare sempre più e, nella seconda quindicina di novembre, l'ipotesi di un conflitto divenne certezza pur continuando ad apparire assai remota.In realtà, era impossibile credere che i giapponesi, attratti dall'Indonesia, potessero essere forti abbastanza per svolgere simultaneamente varie operazioni : si riteneva che la potenza militare nipponica fosse appena sufficiente per un' offensiva verso sud. Il preavviso di guerra del 27 novembre convalidò tale opinione. I militari americani erano convinti che la guerra vi sarebbe stata, ma non prima che gli Stati Uniti fossero completamente pronti. Gli ufficiali, come del resto la truppa, pensavano che le isole Hawaii distassero troppo dal Giappone per poter essere disturbate, ed era inimmaginabile che i giapponesi fossero così insensati da attaccare la potentissima base aeronavale di Pearl Harbor.
Le Hawaii erano considerate in genere un'oasi di pace ai margini di una guerra lontana nel tempo e nello spazio. D'altra parte, come non pensarla così? Per i militari americani di tutte le armi, Oahu era la guarnigione sognata nella quale bisognava andare almeno una volta per ammirare gli incanti delle magnifiche spiagge di Waikiki, dell'acqua limpida, delle palme da cocco, delle passeggiate, dei bar, dei dancings e delle graziose fanciulle di Honolulu. Si trattava del simbolo stesso del piacere e della distensione. Bisognava essere pazzi per sovrapporre a tutto ciò immagini di guerra. Tale era la psicologia americana in generale e di Pearl Harbor in particolare. Se un pericolo esisteva, esso si profilava sul posto. Infatti, i servizi di informazioni avevano inviato ai capi responsabili delle Hawaii, sin dai primi giorni di dicembre, il seguente messaggio: "Le trattative con il Giappone sono arrvate a un punto morto. Ostilità possibili. Aspettarsi un'azione sovversiva". Per il generale Walter Short, comandante dell'esercito locale, i dispaccio confermava i suoi timori. Egli temeva infatti, già da tempo, un'insurrezione da parte dei 158.000 residenti giapponesi alle Hawaii, e, allo scopo di impedire possibili sabotaggi, egli fece assumere determinati provvedimenti miranti a rafforzare la sorveglianza degli impianti militari e, in modo particolarissimo, di quelli dell'aviazione. Gli aerei furono riuniti ala contro ala al centro degli aeroporti affinché un cordone di sentinelle potesse meglio sorvegliarli. Dal canto suo, l'ammiraglio Husband E. Kimmel, capo della flotta del Pacifico, aveva ricevuto lo stesso avvertimento, redatto però in termini più allarmanti. L'ammiraglio Kimmel aveva reagito pressappoco come il suo collega dell'esercito per quanto concerneva gli aerei della marina, senza però ritenere necessario adottare disposizioni eccezionali per le navi in rada, le quali si trovavano agli ormeggi consueti.
Le navi di linea, orgoglio della flotta del
Pacifico, erano ancorate a due a due lungo l'isola Ford, in quello che
veniva allora denominato il viale delle corazzate (vedi immagine). Le due portaerei americane si trovavano in mare. Il gruppo 12 della
Lexington stava sbarcando aerei nell'isola di Midway e sarebbe rientrato alla
base soltanto all'inizio della settimana successiva. Il gruppo 8 dell'Enterprise, con 3 incrociatori
pesanti e 9 cacciatorpediniere, era andato a lasciare 12 caccia Grumman
Wildcat, con i rispettivi equipaggi e meccanici, nell'isola di Wake e sarebbe
dovuto essere di ritorno il 6 dicembre sera; ma l'avaria di un caccia
torpediniere di scorta lo fece tardare di una quindicina di ore.
A parte queste disposizioni, regnava un'atmosfera di fiducia e il numero
delle franchigie accordate agli equipaggi era quello del tempo di pace.
Nella cornice incantevole del week-end hawaiano, saturo di piaceri e di
allegria, alcuni rari ufficiali che continuavano ad essere preoccupati
formavano un contrasto paradossale. Le loro inquietudini si basavano su
indizi disgraziatamente trascurabili, più vicini ai presentimenti che
alla certezza. E, non senza grande indignazione da parte loro, non venivano
presi sul serio in alto loco. La notte era bella e serena. Dalle alture circostanti si scorgeva la flotta
in rada, scintillante di mille luci; più lontano, una luminosità multicolore tradiva la presenza di
Honolulu e ovunque accordi musicali si mescolavano al profumo dei fiori esotici.
LA FALLITA AZIONE DEI SOMMERGIBILI TASCABILI GIAPPONESI
In quella notte dal 6 al 7 dicembre 1941, come in ogni altra notte, due piccoli dragami ne americani, il Condor e il Crossbill, stavano eseguendo il loro compito ingrato e fastidioso: il pattugliamento ravvicinato davanti alle reti antisiluri, all'ingresso del canale di Pearl Harbor. Un po' più al largo il cacciatorpediniere Ward era impegnato nella stessa missione. Si trattava della consueta routine e i marinai di guardia aspettavano con impazienza che il giorno spuntasse per rientrare in porto e andare in permesso. Improvvisamente, alle ore 3.42, un giovane ufficiale del Condor scorse sulla sinistra, a circa un centinaio di metri di distanza, un piccolo riflesso insolito che si spostava in senso contrario alle onde. Il piccolo punto luminoso puntava diritto verso il canale. L'ufficiale lo esaminò e ritenne con certezza trattarsi della scia del periscopio di un sommergibile.
Alle 3.58 avverti con il proiettore Scott il cacciatorpediniere Ward. Il comandante del Ward fu subito svegliato e informato. Egli diresse la nave a tutta forza sul punto segnalato dal Condor, a 1000 metri circa dall'imboccatura del canale, e cercò di stabilire il contatto, ma senza riuscirvi. Fece rompere le righe dal posto di combattimento alle 4.43. Alcuni minuti dopo la rete all'imboccatura del canale cominciò ad aprirsi per lasciar passare il dragamine Crossbill, che aveva terminato il proprio turno. Alle 5.52 rientrò anche il Condor.
La rete di protezione non venne richiusa per un intervallo di tempo così breve, e la si lasciò aperta in quanto, verso le 6.15, doveva arrivare il rimorchiatore Keosanqua. Il comandante del Ward chiese al Condor la direzione e la distanza del sommergibile segnalato, ma non trovò nulla nonostante un'esplorazione metodica. Il Ward, avvertito poco dopo del cambiamento di rotta del sommergibile, iniziò nuove ricerche nel nuovo settore.
Gli operatori della stazione radio di Bishop's Point udirono il dialogo
tra il Ward e il Condor, ma lo interpretarono come una conversazione banale, e
poiché, d'altro canto, i falsi allarmi per la balena o il capodoglio » erano stati in passato numerosissimi, non ritrasmisero nulla. Il Ward, non avendo scoperto alcuna traccia del sommergibile durante le nuove ricerche, non ritenne a sua volta necessario avvertire le autorità.
Un momento dopo, la nave-officina Antares, che rimorchiava un bersaglio galleggiante, ed era preceduta dal rimorchiatore Keosanqua, andatole
incontro, si stava dirigendo verso il passaggio.
Un grosso idrovolante bimotore PBY. Catalina eseguiva proprio allora un normale pattugliamento sopra Pearl Harbor.
Il pilota osservò, alle 6.30, un curioso puntino nero che si spostava in direzione del passaggio. Ritenne che non potesse trattarsi di una boa, lo sorvolò con ampi giri per identificarlo meglio e, pensando che fosse un sommergibile americano in difficoltà, lanciò, alle 6.33, candelotti fumogeni per facilitare le navi nelle operazioni di soccorso.
Doveva trattarsi invece di un altro sommergibile nipponico, in quanto, alle ore
6.40, l'Antares diede l'allarme al Ward con il proiettore Scott,
avvertendolo che le sembrava di essere seguita. Il comandante del Ward U identificò in un lampo una piccola torretta di sommergibile tra l'Antares
e la chiatta rimorchiata. Chiamò l'equipaggio ai posti di combattimento e si diresse rapidamente verso quel punto. Alle 6.45 il Ward aprì il fuoco con il cannone e lanciò bombe di profondità.
Il pilota dell'idrovolante di pattuglia, osservando la scena, collaborò con le navi lanciando cariche antisommergibili. Ma tutti temettero un equivoco. Avevano attaccato davvero un sommergibile giapponese?
Certo, se fosse stato americano, avrebbe dovuto segnalare la propria presenza nella zona di difesa.
Il comandante del Ward trasmise il primo messaggio in codice alle 6.53. Il sommergibile giapponese venne effettivamente affondato alle 6.54. In seguito a un ritardo nella trasmissione del messaggio e a negligenze quasi incredibili, l'ammiraglio Bloch, comandante della difesa, fu
informato soltanto alle ore 7.12. L'ammiraglio Kimmel venne avvertito soltanto molto più tardi, mentre l'ammiraglio Bloch faceva salpare il
cacciatorpediniere di guardia Monaghan.
Nel frattempo, due sommergibili tascabili, approfittando della protratta apertura della rete di protezione, penetrarono nel canale e iniziarono il tragitto previsto intorno all'isola Ford. L'attacco aereo era cominciato e il Medusa e il Curtiss, nel caos e tra il fumo degli incendi, segnalarono al Monaghan la presenza di un sommergibile nel canale. Il sommergibile era emerso in seguito a un incagliamento o a una manovra sbagliata. Nel momento in cui le tre navi americane aprivano il fuoco, lanciò due siluri che, fortunatamente, si perdettero. Il Monaghan si avventò su di esso, lo rovesciò e lanciò varie bombe antisommergibili che lo sfondarono. L'altro sommergibile riuscì a fare il giro dell'isola Ford, segnò gli obiettivi sulla propria carta, ma al ritorno si arenò anch'esso su un bassofondo e fu scorto quasi immediatamente dal cacciatorpediniere Helm, che lo cannoneggiò.
Fu catturato che era ormai ridotto un relitto. I documenti rinvenuti a bordo del minuscolo scafo palesavano troppo tardi gli obiettivi della missione dei sommergibili tascabili e la fondatezza dei messaggi di allarme. In effetti, un susseguirsi spaventoso di ritardi, di negligenze e di incredulità fece perdere tempo prezioso durante il quale sarebbe stato possibile mobilitare tutte le forze ed evitare una parte della catastrofe. Nessuno seppe mai quale fu la sorte degli altri due sommergibili tascabili giapponesi. Probabilmente dovettero affondare in seguito ad avarie meccaniche prima di compiere la missione.
IL RADAR DI PEARL HARBOR
Quella domenica, 7 dicembre, a Opana, su una collina che dominava il mare, nel massiccio montuoso a nord di Oahu, due uomini uscirono dalla loro tenda alle 3-45, gli occhi ancora assonnati. Borbottando contro il regolamento, salirono sul grande rimorchio di un autocarro vicinissimo e sormontato da uno strano paraboloide metallico traforato. Si trattava di uno dei cinque Radar (Radio Detecting and Ranging) di ricerca del tipo SCR 27° B che l'Inghilterra aveva consegnato nel mese di luglio del 1941 all'esercito americano delle Hawaii nell'ambito degli scambi tecnici e militari. Il montaggio e la messa a punto erano stati lunghi e delicati egli apparecchi cominciarono a funzionare sul serio, e del resto malissimo, soltanto il 10 novembre. In seguito al preavviso del 27 novembre, li si manteneva in funzione dalle 4 alle 7. La maggior parte degli addetti a queste apparecchiature erano inesperti, e gli ufficiali, in genere scettici e dubbiosi a causa dei frequenti guasti, non si interessavano molto al nuovo strumento. Del resto, le ore di funzionamento venivano dedicate più alle riparazioni che all'istruzione. I due uomini, in quanto a loro, erano appassionati del nuovo apparecchio il quale, in pratica, non aveva più segreti per ciò che li concerneva. Alle 6.45 l'operatore scorse improvvisamente un punto luminoso sul, margine dello schermo. L'eco era debole e sembrava zigzagare, ma, due minuti dopo, si precisò. L'operatore prese accuratamente nota, come gli era stato insegnato, del rilevamento e della distanza. Alzò il ricevitore del telefono per avvertire l'ufficiale di servizio, ma gli riuscì molto difficile mettersi in contatto con lui. L'ufficiale era un pilota di caccia che stava facendo tirocinio ma non credeva all'efficacia dei nuovi apparecchi di ricerca; calmò l'entusiasmo dell'interlocutore, poi riattaccò.
Il radar di Opana era l'unico a funzionare in quel momento, quando, alle 7.02, l'eco, che era scomparsa, riapparve e questa volta in modo
nitidissimo e indiscutibile. Il blip luminoso aveva grandi dimensioni e si dirigeva verso il punto centrale che rappresentava Oahu. Lo schermo non aveva mai funzionato così bene. L'operatore annotò:
"Azimut nord 3° Est. distanza 137 miglia".
Non riuscendo più a trattenersi, si servi questa volta, alle 7.06, del telefono collegato con il posto centrale di rilevamento. Si mise in
comunicazione con un centralinista che di nuovo gli passò, dopo lunghi i minuti di attesa, l'ufficiale di servizio.
La voce dell'ufficiale divenne ironica e spazientita. Poi egli riattaccò ancora una volta; era inutile insistere.
Di minuto in minuto il blip andava ingrandendosi e si stagliava sullo schermo con una
nitidezza straordinaria. A questo punto si frazionò, consentendo così di enumerare gli 'echi. L'operatore annotò:
"Ore 7.08... distanza 113 miglia... Ore 7.15... 92 miglia... Più di 50 aerei
che volano a circa 190 nodi.
Gli occhi fissi sullo schermo fluorescente, continuò instancabile a seguire
l'avvicinarsi degli aerei: "Ore 7.30... 47 miglIa... Ore 7.39... 22 miglIa... »
Poi gli echi divennero così vicini da scomparire nell'alone di interferenze permanenti dell'apparecchio.
Gli americani avevano perduto un'altra occasione di stare all'erta. L'ufficiale di servizio, come la maggior parte degli altri ufficiali avvertiti quel mattino, era colpevole soltanto in parte, in quanto rispecchiava
semplicemente l'incredulità generale.
"TORA, TORA, TORA" LA PRIMA ONDATA DI ATTACCO
Gli aerei giapponesi non erano più lontani dal loro obiettivo. Il capitano di fregata Mitsuo Fuchida, al comando della prima ondata di 183 apparecchi, volava da un'ora e mezzo e pensava di poter scorgere presto la terra. Allo scopo di evitare inutili deviazioni, orientò l'antenna radiogoniometrica su una trasmissione mattutina di Radio Honolulu, ed ebbe così il riferimento voluto. Honolulu trasmetteva ingenuamente un bollettino meteorologico che confermava i rapporti dei due idrovolanti in ricognizione. Poco dopo, infatti, lo strato nuvoloso si disperse gradualmente, cedendo il posto a nuvolette sfioccate. Le condizioni atmosferiche divennero a partire da quel momento ideali. Tra due nuvole, Fuchida scorse la linea del litorale all'altezza di Kakuku Point, all'estremo nord di Oahu. Era tempo di assumere la formazione di combattimento.
Fuchida lanciò allora sulle onde radio il segnale d'attacco: TO... TO... TO... »
A Pearl Harbor la grande maggioranza delle persone dormiva, alcuni concludevano così una notte trascorsa danzando o nei cabarets. I pochi
militari in servizio si dedicavano svogliatamente ai loro compiti, e il sole, che stava spuntando, prometteva una bella giornata.
Pochissimi avevano scorto, alle 7-45, un gran numero di aerei a nord, ma senza preoccuparsene minimamente, essendo questi apparecchi
subito scomparsi.
Alcuni minuti dopo, il comandante Fuchida, scorgendo la rada senza distinguere alcun segno di reazione americana, trasmise la parola in
codice Tora! », e annunciò così alla squadra giapponese allargo che l'attacco di sorpresa stava per essere sferrato.
A bordo delle 96 navi all'ancora quel giorno a Pearl Harbor, ci si preparava, alle 7.50, alla cerimonia dell'alzabandiera che si svolgeva alle 8, e su talune navi, in particolare sulle corazzate, si stava radunando la fanfara. Sulla torre dell'arsenale sventolò, alle 7.55, il segnale blu che invitava all'alzabandiera. Proprio in quel preciso momento, il primo Aichi 99 da bombardamento in picchiata si gettò sulla base degli idrovolanti nell'isola Ford. Poco dopo, un'esplosione formidabile sommerse nel fumo e nella polvere l'intera base di lancio idrovolanti. L'antiquato posamine Oglala fu senza dubbio la prima unità americana ad adottare le disposizioni che si imponevano, poichè, sul ponte di comando, il contrammiraglio William Furlong scorse quell'aereo che risaliva, distinse chiaramente le insegne rosse e diede all'istante l'ordine di combattimento. I bombardieri in picchiata giapponesi si susseguirono a intervalli regolari, distruggendo gli impianti della base, prima di puntare sul cacciatorpediniere Monaghan, 100 metri più a nord. I primi aerosiluranti passarono rasente gli alberi dei viali di Pearl City, prima di sorvolare a bassissima quota la superficie dell'acqua e di prendere di mira l'Utah, il Raleigh e il Detroit. Tre deflagrazioni formidabili scossero le navi; il Raleigh « incassò » un siluro all'altezza del secondo fumaiolo e l'Utah fu sventrata da due siluri, mentre il Detroit sfuggiva per miracolo all'attacco.
Un quinto Nakajima scelse come bersaglio l'Oglala e l'incrociatore Helena ormeggiati in coppia.
Il siluro passò sotto la chiglia dell'Oglala e centrò in pieno l'incrociatore. L'ossatura e la chiodatura del vecchio Oglala rimasero gravemente
danneggiate dall'esplosione.
L'Arizona fu colpita alle 8 da un primo siluro di un aerosilurante che, passando, mitragliò l'equipaggio della Nevada sull'attenti per
l'alzabandiera.
Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, molti americani credevano ancora, in questo momento, di assistere
a esercitazioni impreviste e « molto realistiche » .
Soltanto verso le 8 l'esercito e la marina adottarono disposizioni difensive, ma nel disordine e nel caos. A quell'ora l'ammiraglio Kimmel trasmise il celebre messaggio: « Attacco aereo su Pearl Harbor, e questa volta non si tratta di un'esercitazione! » Il cielo di Oahu era invaso da aerei giapponesi, le esplosioni si susguivano in pratica ininterrottamente e da ogni parte si alzavano colonne di fumo. Lo schianto delle detonazioni era in un certo qual modo modulato dalle stridule picchiate degli aerei. A bordo delle navi i marinai si affrettavano a raggiungere i posti di combattimento, arrampicandosl su per le scale e scavalcando le prime vittime.
L'allarme era stato appena dato quando la corazzata
Oklahoma fu colpita dal primo siluro, come la West Virginia (vedi immagine).
L'Arizona, ormeggiata, accanto alla Vestal, ne incassò due, al pari della California,
all'ancora più a nord. Soltanto le corazzate ormeggiate e affiancate dalla parte
della riva, la Maryland e la Tennessee, protette rispettivamente dall'Oklahoma e dalla West Virginia, furono risparmiate.
In quel. momento, un nuovo sciame di Nakajima a tipo 97 saettò pochi metri più
in alto delle sovrastrutture . Si udirono quattro esplosioni formidabilI: l'Oklahoma era stata colpita da quattro siluri che strapparono tutto il lato sinistro della carena. La nave sbandò
immediatamente.
Nella torre di controllo dell'aeroporto di Hickam Field, a est di Pear Harbor, i
radioperatori aspettavano le annunciate fortezze volanti B. 17. Rimasero stupefatti vedendo arrivare in una lunga fila apparecchi monomotori che si presentavano lungo l'asse della pista. Alcuni minuti dopo, tutto era devastato; gli hangar e le officine di riparazione
rimanevano avvolti in un'enorme nuvola di polvere, mentre gli apparecchi a terra, stretti l'uno contro l'altro per evitare eventuali sabotaggi,bruciavano furiosamente.
Gli aerei giapponesi, liberatisi delle bombe, effettuavano un nuovo passaggio e mitragliavano tutto quel che restava, completando casi
la
loro opera di distruzione.
La base aerea dell'esercito a Wheeler Field non era stata ancora attaccata quando, alle 8.02, un gruppo di aerei giapponesi si lanciò in picchiata e distrusse tutto ciò che era in grado di volare.
Allorché il comandante della base di Ewa andò a prendere servizio,alle 8.05, nell'ufficio del campo, vide costernato che 33 dei suoi 49 aerei
stavano bruciando.
Nel frattempo, gli attacchi si susseguivano a ritmo rapido sulle navi che cominciavano a reagire con le poche armi rifornite di
munizioni, tuttavia, il numero di queste ultime andava aumentando di minuto in minuto. La confusione e la sorpresa impedivano però una coordinazione
efficace, sebbene tutti volessero reagire e gli atti individuali di eroismo
si moltiplicassero.
La Nevada fu colpita in questo momento da un siluro a sinistra; vi fu un'esplosione sorda e la nave cominciò quasi subito ad affondare. La nave ausiliaria Vestal sebbene ormeggiata di fianco alla corazzata Arizona e all'esterno, non poté proteggere in misura sufficiente la corazzata, che incassò quasi contemporaneamente un siluro e una serie di bombe le quali causarono danni considerevoli.
Alle 8.05 la California fu colpita da un primo siluro seguito poco dopo da almeno altri tre. L'acqua penetrò attraverso le lamiere squarciate e invase tutta la nave. Tutto cessò di funzionare a bordo mentre affondava. Certe porte stagne erano state bloccate, imprigionando una parte dell'equipaggio, condannato cosi a una morte atroce e inesorabile (vedi immagine).
Non lontano, l'Oklahoma sbandava adagio ma ineluttabilmente e le sovrastrutture scomparvero ben presto sott'acqua, mentre la carena della
nave emergeva sempre più. Centinaia di uomini stavano nuotando in acque rese vischiose dalla nafta e coperte da rottami d'ogni genere;
cercavano di raggiungere la riva.
L'Arizona, colpita sin dall'inizio dell'attacco, aveva incassato numerosi proiettili e fu una piccola bomba d'aereo a scatenare la catastrofe. Causò un'esplosione. Si vide una fiammata accecante, poi una nuvola enorme di fumo a forma di fungo si innalzò per più di 150 metri. La deflagrazione danneggiò tutte le navi circostanti e uccise più di 1000 uomini (vedi immagine). Nel viale delle corazzate, non una sola unità si era salvata.
L'Arizona, l'Oklahoma e la West Virginia erano affondate, la California stava affondando e la Maryland, la Tennessee e la Nevada erano assai gravemente danneggiate (vedi immagine).
Al lato opposto dell'isola Ford, il vecchio bastimento-bersaglio Utah si stava capovolgendo adagio e l'incrociatore Raleigh era fortemente sbandato sulla sinistra. Il Tangier e il Detroit sembravano essere stati risparmiati. Le altre navi rimaste indenni, o poco danneggiate, cercavano di aumentare la pressione delle caldaie per uscire da quell'inferno, ma soltanto verso le 8 il caccia torpediniere Helm poté arrivare sul canale.
Allargo e a sud-ovest, il gruppo 8 dell'Enterprise, in ritardo sull'orario
previsto, si dirigeva a grande velocità verso Pearl Harbor. Alle 6 l'Enterprise lanciò una squadriglia di 18 aerei da ricognizione del tipo SBD.,
destinati a precedere le navi del gruppo. Questi aerei dovevano tutti andare direttamente ad atterrare sull'aeroporto dell'isola
Ford.
Verso le 8.10 le attese 12 fortezze volanti B.17 giunsero sopra Oahu!
Una nuvola di caccia giapponesi le circondò rapidamente. Gli equipaggi dei grossi bombardieri americani rimasero stupefatti dallo spettacolo
che si presentava ai loro occhi. Gli aerei giapponesi Mitsubishi tipo Zero li tormentavano e soltanto grazie a uno straordinario sangue freddo il
i B. 17 atterrarono alle 8.20 in pieno attacco. Uno dei bombardieri si incendiò toccando terra e si spezzò in due, un altro si posò sul ventre
sulla pista d'emergenza. Gli altri atterrarono senza incidenti.
Al suolo, l'ira si stava impadronendo degli uomini, ed erano numerosi coloro che sparavano contro gli aerei nipponici, alcuni con rivoltelle,
altri con armi tanto improvvisate quanto inefficaci. Nonostante i tiri di sbarramento dei cannoni e delle mitragliatrici delle navi e delle difese a terra, gli aerei giapponesi volavano bassissimi, disprezzando il pericolo e regolando la mira in modo calmo e risoluto,
come se non si accorgessero neppure delle esplosioni, talora vicinissime, che li facevano vacillare.
Tutti i campi d'aviazione dell'esercito, a Wheeler, a Bellows, e a Hickam, nonché quelli della marina a Kanehoe e a Ford, erano stati annientati. Quasi tutti gli aerei bruciavano e gli impianti non funzionavano più (vedi immagine).
LA SECONDA ONDATA DI ATTACCO GIAPPONESE
Nello schianto delle esplosioni, nel tumulto degli incendi e nel fumo denso, nessuno si era accorto del ripiegamento della prima ondata di aerei giapponesi. Vi fu un breve periodo di calma prima dell'arrivo della seconda ondata, che sorvolò l'estremità nord di Kakuku Point alle 8.40. Era formata da 80 bombardieri in picchiata Aichi tipo 99, da 54 bombardieri in quota Nakajima tipo 97 e da 36 caccia Mitsubishi tipo Zero che avevano decollato dalle portaerei alle 7.15. La flotta nipponica aveva tenuto in serbo 39 apparecchi, per la maggior parte caccia, a scopi difensivi nell'eventualità di una reazione americana. Il capitano di corvetta Shigekazu Shimazaki, della portaerei Zuikaku, comandante di questa seconda ondata, impartì l'ordine di attacco alle 8.54.
I bombardieri in picchiata e i bombardieri tipo 97 incominciarono a completare le distruzioni causate dalla prima ondata. I caccia tipo Zero assicuravano la protezione in quota, ma, i caccia americani non essendosi fatti vedere, si unirono ai bombardieri, mitragliando tutto quel che ancora esisteva. Ciononostante, alcuni piloti di Curtiss P. 40 tentarono di decollare verso le 9 del mattino dal Bellows Field, ma furono distrutti quasi immediatamente. Gli americani erano riusciti a riprendersi e la seconda ondata fu accolta da un tiro contraereo più nutrito e soprattutto più coordinato. I giapponesi subirono pertanto perdite più sensibili. Eppure gli attacchi si susseguirono senza respiro, annientando la maggior parte degli impianti militari e navali di Oahu.
I bombardieri in picchiata giapponesi attaccarono alle 9.06 il bacino nel quale si trovava la corazzata Pennsylvania, nave ammiraglia, nonche i caccia torpediniere Cassin e Downes, fino a quel momento risparmiati. Una bomba perforò il ponte della corazzata ed esplose in una
cassa nafta, appiccando un vasto incendio. Le fiamme non poterono essere circoscritte in tempo e, alle
9.30, esplosero a loro volta i depositi principali (vedi immagine). La deflagrazione fece capovolgere il cacciatorpediniere Cassin, che andò ad appoggiarsi sul Downes, anch'esso in preda alle fiamme.
Il cacciatorpediniere Shaw, nel bacino galleggiante, fu colpito da una bomba
che causò un'esplosione gigantesca.
L'incrociatore Sant Louis, ormeggiato a fianco del suo gemello Honolulu ed esteriormente rispetto
ad esso, riuscì .a salpare alle 9.31 e ad arrivare nel passaggio alla
velocità di 25 nodi per sottrarsi al massacro.
Alle 9-45 gli apparecchi giapponesi interruppero gli attacchi, si raggrupparono ad alta quota
nel cielo invaso dal fumo e si allontanarono seguendo la rotta di ritorno. Nonostante ciò, si continuavano a udire numerose detonazioni provenienti dai depositi di nafta e di munizioni
che continuavano a saltare, raggiunti dalle fiamme degli incendi, mentre i serventi innervositi continuavano a far fuoco contro un cielo ormai sgombro di aerei. In qualsiasi direzione si volgesse lo sguardo, sì
vedevano dappertutto, nella luce rossastra degli incendi, navi capovolte o sfondate, lamiere squarciate, scafi affondati, aerei bruciati.
L'EPILOGO DELL'ATTACCO
Allo scopo di facilitare il ritorno dei suoi apparecchi, la flotta giapponese si era avvicinata fino a 190 miglia da Oahu. L'ammiraglio Nagumo aveva preso tale decisione a causa delle difficoltà che incontravano in volo alcuni aerei danneggiati e anche perché sapeva che la maggior parte di essi era a corto di carburante. I caccia Mitsubishi tipo Zero, sprovvisti di radiogoniometro, cercavano di raggrupparsi intorno ai bombardieri per essere guidati verso le portaerei.
Alcuni apparecchi, con i serbatoi vuoti, precipitarono in mare, ma alle 13 l'ultimo aereo, quello del comandante Fuchida, appontò
sull'Akagi (vedi immagine). Fuchida, non appena disceso dal proprio apparecchio, fece rapporto all'ammiraglio Nagumo e chiese l'autorizzazione di far partire una
nuova ondata, ritenendo che esistessero ancora obiettivi da distruggere.
L'ammiraglio Nagumo e il suo capo di stato maggiore, ammiraglio Kusaka, conferirono e decisero, alle
13.30, di astenersi da un ulteriore attacco, temendo che le eventuali distruzioni sarebbero state sproporzionate ai rischi inevitabili con un avversario che stava ormai in guardia.
La flotta incominciò immediatamente a seguire la rotta del ritorno.
Fuchida insistette affinché si tentasse una ricerca delle portaerei americane, che si riteneva a ragione si trovassero nel sud-ovest. Ma anche
in questo caso l'ammiraglio Nagumo rinunciò perché l'incontro con le petroliere doveva aver luogo sulla rotta nord e un intervento al sud
avrebbe compromesso il previsto rifornimento. Dobbiamo attribuire alla saggezza e alla prudenza l'atteggiamento timoroso assunto in quei momenti dall'ammiraglio
Nagumo.
Egli aveva in realtà la possibilità e i mezzi per conseguire integralmente lo scopo della missione, che consisteva, il lettore
lo ricorderà, nell'annientamento delle forze americane alle Hawaii.
Avrebbe potuto distruggere sistematicamente il potenziale militare di Oahu eliminando
le due portaerei americane assenti da Pearl Harbor. Ovviamente influenzato dai rapporti dei suoi aviatori, l'ammiraglio si convinse che le distruzioni già arrecate erano sufficienti e che sarebbe stato inutile
esporre più a lungo le sue navi. Preferì ritirarsi, temendo una possibile reazione degli americani. Ignorava, o volle ignorare, che questi ultimi
erano incapaci, in quel momento, di organizzare una flotta in grado di minacciarlo.
L'attacco a Pearl Harbor era senz'altro un colpo durissimo inferto agli americani, ma sarebbe potuto essere assai più catastrofico se
l'ammiraglio Nagumo e il suo capo di stato maggiore ammiraglio Kusaka avessero dato prova della stessa combattività e dello stesso mordente
dimostrati dai loro marinai ed aviatori.
Ma prima di dare un giudizio affrettato, è interessante rilevare che l'ammiraglio Nagumo era sempre stato ostile al piano di attacco a Pearl Harbor. Si era opposto al progetto, dubitando dei risultati dati per scontati in tutte le conferenze e riunioni svoltesi al riguardo.
Ciononostante era stato prescelto per comandare l'operazione a causa della sua competenza e della sua conoscenza profonda dell'arma aeronavale. D'altro canto, è incontestabile che l'attacco a Pearl Harbor fu perfetto, dal punto di vista tattico, nella concezione e nella realizzazione, e che i risultati superarono di gran lunga le previsioni e le speranze più ottimistiche. L'ammiraglio Yamamoto poteva ora, dalla sua nave ammiraglia all'ancora a Kure, raffigurarsi secondo le previsioni le conquiste successive.
IL BILANCIO DELL'ATTACCO
Quasi tutti gli americani nel continente seppero dalla radio la notizia sorprendente. Le une dopo le altre, le varie reti diffusero, incominciando dalle 14.26, bollettini di notizie straordinari. Per gli americani stupefatti si trattava di un brutale risveglio alla realtà. A dire il vero, a tutta prima si seppe ben poco. Le stazioni radio annunciarono che il Giappone aveva effettuato un attacco aereo su Pearl Harbor, e senza alcuna dichiarazione di guerra. I comunicati, in mancanza di particolari, sottolinearono il carattere infamante di quell'attacco a tradimento. A poco a poco arrivarono chiarimenti e precisazioni che accrebbero l'indignazione generale. Alla fine del pomeriggio di domenica 7 dicembre l'America conobbe, approssimativamente, la portata del disastro: la flotta del Pacifico, e in particolare le corazzate, erano state gravemente ridotte e le forze aeree delle Hawaii potevano considerarsi in pratica annientate. Soltanto alcuni giorni dopo fu possibile stabilire il bilancio definitivo dell'attacco giapponese.
Le corazzate Arizona e Oklahoma, il posamine Oglala e la corazzata-bersaglio Utah erano colate a picco. Le corazzate California, West Virginia e Nevada risultavano assai gravemente
danneggiate e poggiavano sul fondo, ma potevano essere rimesse a galla e riparate. Le corazzate Maryland, Tennessee e Pennsylvania erano state seriamente colpite, al pari degli
incrociatori Helena, Raleigh e Honolulu
del cacciatorpedmlere Cassim, Downes e Shaw e delle navi ausliarie Vestal e Curtiss.
I giapponesi avevano distrutto 178 aerei americani, danneggiandone altri 159. Si lamentavano 2403 vittime, uomini uccisi, scomparsi o
periti in seguito alle ferite riportate, e 1178 feriti. Inoltre, numerosi impianti al suolo erano stati distrutti o gravemente danneggiati.
Il colpo era violento e doloroso, ma aveva in se quel germe fecondo che doveva galvanizzare gli americani.
In realtà, a rivestire un'importanza capitale doveva essere più la natura del gesto che le sue conseguenze strategiche. Sin dal giorno dopo, il presidente Roosevelt annunciò dalla tribuna del Congresso la dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all'Impero nipponico. Espresse la risoluzione unanime della nazione e disse che l'attacco a Pearl Harbor era destinato a restare, per il Mondo Libero, il giorno dell'infamia. Si trattava senz'altro di simbolo e della manifestazione di un'ira assolutamente legittima, entrambe le cose erano ben lontane dalla verità storica; infatti, se il Giappone aveva effettivamente attaccato prima della dichiarazione guerra, lo si doveva a un deplorevole ritardo nella trascrizione del messaggio nipponico che sarebbe dovuto essere consegnato alle 13 del 7 dicembre a Cordell Hull. Certo, il margine di tempo previsto, tra la consegna del testo ufficiale e l'ora stabilita per l'attacco, era assai breve e aveva lo scopo di impedire agli americani di adottare i provvedimenti del caso, ma mirava ugualmente a fare in modo che i capi giapponesi non potessero essere accusati dagli americani di aver violato l'articolo primo del patto dell'Aia, firmato il 18 ottobre 1907. L'importanza attribuita a questa retorica intorno alla parola infamia aveva in realtà lo scopo, da un lato di nascondere la nota impreparazione delle forze armate degli Stati Uniti e, dall'altro, di trascinare l'America una grande guerra punitiva. Sarebbe ingiusto denigrare esageratamente le intenzioni giapponesi, tra l'altro deliberatamente bellicose e prive di scrupoli, ma sulle quali non ricadevano affatto tutte le responsabilità, come si sarebbe invece potuto credere leggendo gli articoli indignati della stampa americana quei giorni, nei quali i giornalisti sviluppavano abbondantemente il tema del presidente Roosevelt. A dire il vero, un gran numero di indizi, di voci e di indiscrezioni sarebbero potuti essere presi in considerazione, studiati, coordinati e uniti, come si fa con un gioco di pazienza ad incastro, per trarne una conclusione realistica e adottare i provvedimenti che si imponevano nelle ore immediatamente precedenti l'attacco giapponese.
Come si è visto, non si fece nulla a Pearl Harbor e gli Stati Uniti furono colti di
sorpresa in una dolce atmosfera di incredulità e di noncuranza.
Supponendo che fosse mancato il tempo di far prendere il mare alla flotta, si sarebbe potuto almeno disperderla nella rada e mettere al
riparo le navi con reti di protezione contro i siluri. Gli americani erano convinti che la scarsa profondità della rada impedisse qualsiasi
attacco di aerosiluranti. Ma i giapponesi, informatissimi della situa
ione, avevano perfezionato un tipo di siluri muniti di timoni di profondità e capaci di muoversi anche con fondali assai bassi.
Se gli aerei non fossero stati riuniti ala contro ala al centro dei campi d'aviazione, nel timore di sabotaggi ipotetici, molti di essi sarebbero
sfuggiti senz'altro al massacro; e forse avrebbero potuto addirittura decollare. Provvedimenti del genere venivano del resto adottati
normalmente in numerosi paesi quando la situazione diplomatica diveniva tesa fino a questo punto.
Un gran numero di avvisaglie, come la caccia ai sommergibili tascabili, il rilevamento del radar di Opana, e l'intercettazione di messaggi, non
ebbero il seguito che sarebbe stato logico aspettarsi. Nei mesi che seguirono, numerose commissioni tentarono di stabilire le cause e le responsabilità del disastro di Pearl Harbor. Vennero a
formarsi numerosi incartamenti, i quali, nella maggior parte dei casi, arrivavano alle stesse conclusioni che, naturalmente, facevano ricadere
il torto sui militari responsabili. Si giunse così all'immediata destituzione dell'ammiraglio Kimmel e del generale Short. Eppure, alcune personalità dall'acuto spirito critico osarono esprimere,
un parere che, fino a oggi, non è mai stato smentito ne confermato.
Costoro sostenevano che i dirigenti interventisti degli Stati Uniti avevano deliberatamente dato prova di impreparazione e di
noncuranza, sapendo benissimo quanto andavano preparando i giapponesi, e ciò
allo scopo di provocare un brutale choc psicologico che senza dubbio avrebbe, fatto schierare dalla loro parte tutti gli isolazionisti indignati, causando
al con tempo la consapevolezza della realtà da parte del popolo americano di fronte a una guerra ormai inevitabile, e facendogli accettare i sacrifici e le spese.
Questo giudizio attribuiva all'amministrazione Roosevelt una politica che non era priva di machiavellismo; e,
conoscendo le difficoltà del presidente di fronte alla fazione isolazionista del Congresso ci si può spiegare evidentemente questa forma perniciosa
di coartazione.
Comunque stessero le cose, l'America aveva subito un grave disastro che sarebbe potuto essere assai più rovinoso se i giapponesi
avessero saputo sfruttare tutte le possibilità ad essi offertesi. Effettivamente, le due portaerei rimanevano intatte, e l'arsenale e i depositi di
carburante erano stati risparmiati. Dalla parte dei giapponesi, le perdite risultarono lievissime. Esse consistevano in 29 aerei abbattuti o precipitati in mare, in 5
sommergibili tascabili affondati, in 64 uomini uccisi o scomparsi e in un prigioniero;
erano in pratica trascurabili in confronto al successo riportato. Il Giappone aveva distrutto la flotta da battaglia americana,
nonché la maggior parte delle forze aeree delle Hawaii, eliminando così, per un certo periodo di tempo, la minaccia della
grande base americana, e avrebbe ora potuto attaccare verso i settori sud-occidentali del Pacifico. Gli obiettivi tattici e strategici
dell'oprazione.erano ampiamente raggiunti e addirittura superavano tutto ciò che
si era potuto sperare di più
ottimistico a Tokio. Si trattava della splendente conferma della giustezza dei punti di vista del fautore dell'attacco, l'ammiraglio
Yamamoto.
La flotta d'attacco giapponese rientrò senza incontrare ostacoli e gettò le ancore il 23 dicembre nella rada di
Hashirajima.
Restava ciononostante una piccola ombra sul quadro, in quanto il piano di operazioni prevedeva l'attacco aereo dell'isola di Midway situata alla estremità nord-ovest dell'arcipelago delle Hawaii; ma le condizioni
meteorologiche costrinsero ad annullare l'operazione. Gli impianti militari dell'isola furono però sottoposti a un breve bombardamento nella notte
del 7 dicembre da parte di due cacciatorpediniere giapponesi, l'Akebono e l'Ushio.
In ultimo, una delle conseguenze dell'attacco a Pearl Harbor, e non tra le minori, fu mirabilmente utile agli scopi del primo ministro inglese
Winston Churchill, in quanto suggellò l'alleanza e i destini delle due democrazie anglosassoni.
Applicando le clausole del patto tripartito, la Germania e l'Italia dichiararono guerra a loro volta agli Stati Uniti. A Oahu, all'attacco giapponese fece seguito una grave crisi di panico.
Circolarono false voci, le più fantastiche e le più incoerenti. Vennero segnalati convogli giapponesi che sbarcavano truppe. Si sospettarono, un
po' dovunque, lanci di paracadutisti, e le cosiddette spie incominciarono ad abbondare. Gli stessi ambienti ufficiali arrivarono al punto di fornire
precisazioni e segnalare località...!
Si sparò contro tutto ciò che si muoveva e furono commessi tragici errori. Aerei dell'Enterprise., che tornavano al crepuscolo dopo una nuova
e infruttuosa ricognizione, vennero presi sotto il tiro dei cannoni contraerei e delle mitragliatrici, che ne abbatterono 4 su 6. La maggior parte degli americani diede libero corso all'immaginazione e
all'esaltazione. Si annunciò, con tutta la serietà di questo mondo, che l'acqua
potabile era stata avvelenata e che nubi di gas asfissianti calavano adagio sull'isola. In serata, fortunatamente, tutto tornò alla normalità e
incominciarono i lavori di ricostruzione degli impianti militari danneggiati o distrutti. Alcune ore dopo l'attacco su Oahu, il popolo giapponese fu informato dalla stampa dell'inizio delle ostilità. Gli strilloni corsero per le vie
gridando: Senso! Senso! (La guerra!). Contemporaneamente si affiggeva un po' dappertutto il proclama imperiale che spiegava al popolo i
motivi di quella decisione. (TRATTO DA "LA GUERRA DEL
PACIFICO" DI B. MILLOT)
Formulare un giudizio sull'attacco aereo giapponese a Pearl Harbor non è affatto semplice poiché sono stati scritti libri su libri, si sono fatti film e quindi è stato detto praticamente tutto. Mi permetterò quindi di fare solo alcune considerazioni. Dal punto di vista prettamente tecnico l'attacco a Pearl Harbor nasce dal ben più modesto ma innovativo attacco effettuato l'11 novembre 1940 dagli aerosiluranti Fairley Swordfish della portaerei Illustrious nella rada di Taranto. Anche in quel caso si colpì al cuore la flotta nemica (quella italiana) e furono affondate ben tre corazzate, un incrociatore e due cacciatorpediniere, pagando una bassissima perdita di solo due aerei. Gli inglesi, utilizzando 21 vecchi biplani aerosiluranti avevano dimezzato la potenzialità bellica navale italiana! Era quindi la dimostrazione che una flotta aerea imbarcata poteva colpire con efficacia mortale il nemico in qualunque base esso fosse. I giapponesi non fecero altro che ripetere in scala maggiore l'azione di Taranto. Le portaerei non erano più una ma sei e gli aerei più di trecento. Anche l'effetto distruttivo fu moltiplicato, azzoppando la U.S. Navy prima ancora di iniziare la guerra.
Dal punto di vista tecnico, tattico ed operativo l'azione della Kido Butai fu un capolavoro che sarà pareggiato solo con l'attacco della Task Force 58 alla base navale giapponese di Truk nelle Caroline ben due anni più tardi. Fino ad allora mai sei portaerei avevano agito in così stretta e perfetta sincronia e mai fino ad allora trecento aerei avevano attaccato con una percentuale di successo simile. I migliori piloti giapponesi, forgiati da più di dieci anni di addestramento e dalla guerra con la Cina, vi parteciparono. Questi stessi piloti combatterono con onore nelle battaglie navali successive, venendo però decimati alle Midway ed a Santa Cruz. Gli americani, dal canto loro, non riuscirono ad abbozzare una reazione decente e furono totalmente sopraffatti dall'effetto sorpresa. Il fattore sorpresa merita nostro giudizio di essere analizzato con più attenzione. Siamo proprio sicuri che gli alti vertici dell'esercito non sapessero dell'attacco?
Alcune considerazioni potrebbero far pensare il contrario:
gli americani erano in grado fin dal maggio 1940 di decrittare in maniera perfetta il codice primario giapponese, valido sia per la marina mercantile, da guerra che per i diplomatici. La chiave di questo codice era stata trovata in un libretto rinvenuto addosso ad un cadavere di un capitano giapponese annegato nel maggio 1940 nel mare di Bering. Allo scopo di sfruttare la fortunata scoperta gli americani crearono decifratori automatici ed installarono un centro spionistico di primo livello. Non si capisce quindi come non potessero sapere dell'imminente entrata in guerra del Giappone!
casualmente le portaerei americane non erano nella rada di Pearl Harbor il 7 e l'8 dicembre del 1941! Sempre per pura fatalità l'Enterprise CV6 rientrerà la sera stessa dell'attacco, evitando per un pelo gli aerei giapponesi!
l'opinione pubblica americana ed il Congresso erano fermamente contrari all'entrata in guerra degli U.S.A., solo un fatto eclatante come un attacco a tradimento avrebbe potuto farli cambiare idea.
Affermare che Roosvelt abbia deliberatamente sacrificato 3000 soldati per entrare in guerra potrebbe apparire fantastoria però è indubbio che l'attacco di Pearl Harbor giovò più agli americani ed agli inglesi che ai giapponesi. La Kido Butai alla fin fine liberò gli americani di sei vecchie corazzate, azzerò sì la flotta aerea di terra alle Hawaii, però non intaccò minimamente la capacità offensiva americana non affondando le portaerei e non toccando i depositi di carburante.
Col senno di poi i giapponesi avrebbero potuto decapitare la flotta americana solo:
facendo una terza incursione sulla rada al fine di far saltare in aria tutti i depositi di carburante presenti, azzoppando di fatto la flotta;
andando a cercare per ingaggiare battaglia la Lexington e la Enterprise, solo con il loro affondamento la potenza bellica americana sarebbe stata veramente ridotta al lumicino.
La troppa prudenza di Nagumo (lo ritroveremo alle Midway un anno dopo) impedì questi ulteriori e decisivi attacchi, vanificando in parte l'esito della missione. Nagumo si accontentò di stravincere una battaglia perdendo, però la guerra! A sua discolpa va parzialmente detto che Nagumo si rendeva perfettamente conto della debolezza intrinseca delle portaerei giapponesi (eccezion fatta per le nuovissime Zuikaku e Shokaku), le quali rappresentavano una micidiale arma di offesa ma non avendo corazzatura sui ponti di volo potevano essere facilmente affondate, fatto che nella battaglia delle Midway accadrà puntualmente. Per tutta la durata dell'attacco fu ossessionato dal terrore che gli americani lo scoprissero e lo attaccassero. Nel caso in cui una portaerei fosse stata attaccata e danneggiata il resto della flotta avrebbe dovuto abbandonarla al suo destino, data l'impossibilità di trainarla fino in Giappone. Durante le simulazioni della missione fatte dai giapponesi le più ottimistiche previsioni ritenevano ottimale la perdita del 50 per cento del gruppo di portaerei, quindi quando Nagumo si rese conto che potevano rientrare senza perdite e con uno strepitoso successo tattico optò senza pensarci due volte per questa scelta.
In ultimo mi permetto una dissertazione sul kolossal "Pearl Harbor", andato in onda più volte anche in TV. Tralasciando le tre ore e mezza di melense e sdolcinate effusioni amorose, condite di un patetico spirito patriottico mi concentrerò sull'esattezza storica del film facendo alcune considerazioni:
su 176 minuti di film la Kido Butai appare per non più di due minuti!
in questi due minuti sono ricostruite le inquadrature tratte dalle fotografie che potete trovare nella sezione fotografica della Marina Imperiale in questo sito;
le portaerei giapponesi appaiono nella loro interezza per circa 30 secondi, probabilmente per impedire di capire le macroscopiche inesattezze dei modelli: l'Akagi presenta nel film l'isola a destra quando in realtà l'aveva a sinistra, tutte le portaerei hanno ponte angolato, quando anche i sassi sanno che il primo ponte angolato fu costruito sulle portaerei inglesi nel dopoguerra;
le sequenze dell'attacco aereo sono le uniche ad avere una certa fedeltà storica, tralasciando il superman americano che abbatte da solo una cinquantina di aerei giapponesi, quando nella realtà i giapponesi ne persero in tutto solo 29;
ancora più grossolana è invece la ricostruzione della Hornet durante il Doolittle raid. Della Hornet la portaerei inquadrata ha solo la scritta CV 8 sul ponte, per il resto è solo una lontana parente. Anche qui vi è infatti un ponte angolato, quando in realtà la classe Enterprise aveva un ponte rettangolare puro, per non parlare delle inesattezze dell'isola,..... Da una rapida analisi dei fotogrammi dovrebbe trattarsi di una portaerei di classe Midway modificata con ponte angolato (forse la Coral Sea?).
Insomma è stato più filologicamente corretto il "vecchio" "Tora, Tora, Tora", con le portaerei giapponesi che erano quelle della classe Essex americana, che il nuovo e dispendioso Kolossal! Speriamo che gli americani smettano di fare americanate ed inizio a fare film storici con ricostruzione storiche e non fantasiose!
Mi permetto infine una breve dissertazione sul povero ammiraglio Kimmel, all'indomani dell'attacco perse il suo posto di comandante in capo a favore di Nimitz e dovette combattere in tribunale per tre anni per cercare di difendersi dalle accuse più gravi per la catastrofe che subì la flotta americana. Tralasciando le fasi del processo e l'esito finale interlocutorio mi permetto solo di constatare che due giorni il 7 dicembre 1941 dopo l'Ammiragli Mc Arthur, comandante in capo alle Filippine, subì un tracollo ancora peggiore di Pearl Harbor perdendo quasi tutta la sua flotta aerea a causa del fatto che, pur sapendo che era iniziata la guerra, non prese alcuna misura per difendere gli aeroporti. Mentre Kimmel fu degradato e sottoposto ad una umiliante corte marziale, Mc Arthur fu promosso.... La colpa di Kimmel fu quella di non mettere in allerta la flotta ma a sua discolpa gioca il fatto che si era in una situazione di pace e che da Washington non era stato informato del fatto che il Giappone sarebbe entrato in guerra a giorni. Insomma Kimmel fu l'agnello sacrificale che permise a Roosevelt di fare finalmente quella guerra che lui ardentemente voleva ma che gli americani assolutamente non volevano! (Shinano).
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