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dalla Stampa

           Lunedì 19 Luglio 2004
 

In memoria di un giudice libero
di Gian Carlo Caselli

Palermo, una capitale europea, come fosse Beirut. Accadde 12 anni fa, il 19 luglio 1992. Quando in via d’Amelio un’autobomba predisposta da criminali mafiosi fece strage di Paolo Borsellino e dei giovani poliziotti che lo scortavano. Commemorare questo sacrificio - oggi - ha un senso soprattutto se si cerca di fare memoria: per capire meglio la genesi delle tragedie verificatesi e così provare ad impedire che se ne producano di nuove.
Un modo significativo di fare memoria consiste nel trarre le necessarie conseguenze - sul piano dei comportamenti effettivi - dalle parole di Paolo Borsellino che (in quanto pronunziate il 23 giugno 1992, alla commemorazione di Falcone organizzata dall'Agesci di Palermo nella parrocchia di S. Ernesto, nel trigesimo di Capaci) sono come un suo testamento spirituale: «La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità».
Dopo le stragi, per un certo periodo (due, tre anni) sembrò che questo puzzo potesse finalmente scomparire. Oggi, invece, il puzzo che Borsellino denunziava come esiziale lo si sente di nuovo. Ed è una diretta conseguenza dell’eclissi della “questione morale”.
Questione morale significa trasformazione della politica in cordate di interessi, contaminazione fra apparati dei partiti, mondo affaristico-economico e malaffare. Ne sono figli il clientelismo e varie forme di illegalità, fino alla corruzione e alle collusioni con la mafia. All’inizio degli anni Novanta la questione morale registrò un forte rilancio, grazie al recupero di legalità ottenuto con le inchieste su Mani pulite e sui rapporti fra mafia e politica. Poi cominciarono gli attacchi e le forsennate campagne sulla pretesa politicizzazione della magistratura e sul cosiddetto giustizialismo (da intendersi in realtà come paura di “troppa legalità”: troppa, s’intende, per chi è insofferente ai controlli). Attacchi e campagne ossessivamente diffusi attraverso i mezzi d'informazione più corrivi. Col risultato che il recupero di legalità è diventato sempre più faticoso. E la questione morale è stata relegata in qualche nascosta soffitta. Perché se sono i magistrati a diventare le persone da mettere sotto accusa, se la “questione” sono loro e non i corrotti e i collusi, è evidente che ci sarà più spazio e più tempo per ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste e dal profilarsi - grazie ad esse - di responsabilità anche sul piano politico e morale. Disonestà, trasformismo e viltà, invece di ridursi, si riproporranno pesantemente.
Sullo specifico versante dei rapporti fra mafia e politica, di fatto la questione morale sembra addirittura cancellata. Il libro «Voglia di mafia», di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, ed il recente pamphlet di Francesco Forgione (deputato regionale siciliano), significativamente intitolato «Amici come prima», offrono una documentazione impressionante: sia per il numero di personaggi coinvolti a vario titolo in vicende che emanano proprio il puzzo che Borsellino voleva cancellare, sia per la trasversalità politica che contrassegna la diffusione del puzzo. Si tratta di condotte abituali con le quali - è evidente - non solo non si fa memoria dell'esperienza e del sacrificio di Borsellino, ma la si calpesta. Chi tresca con mafiosi e paramafiosi offende questa memoria. Ed il tradimento si moltiplica se la società civile - invece di indignarsi per queste vergognose contiguità o complicità - si tura il naso fingendo di non sentire il puzzo. O cerca di esorcizzarlo autoconvincendosi che così va il mondo e non c'è nulla da fare.
Per fortuna c’è anche una parte di società civile che non si arrende. Che insiste a voler fare memoria, di Borsellino e delle altre vittime di mafia, cercando di affiancare - all'antimafia della repressione - un'antimafia culturale e morale, dei diritti e del lavoro: l’antimafia del «profumo di libertà». Come quella dei «pazzi di Palermo», che stanno tappezzando strade e negozi di scritte contro il pizzo. O quella di «Libera», l’associazione guidata da Luigi Ciotti e Rita Borsellino - sorella del magistrato ucciso - che ha costruito un'imponente rete di collegamento sull'intero territorio nazionale, un ponte tra Sud e Nord formato da circa 1500 gruppi, uniti dal comune interesse sui temi della legalità e della giustizia.
Fiore all'occhiello di «Libera» è la legge n. 109 del 1996 sul reimpiego a fini socialmente utili ( un “riciclaggio” buono...) dei beni confiscati ai mafiosi, per la quale sono state raccolte in tutt'Italia centinaia di migliaia di firme. Indimenticabile il momento in cui Ciotti (proprio in via d’Amelio, in un anniversario della strage) scaricò quella montagna di firme sulle esili braccia dell'allora presidente della Camera Irene Pivetti, che da quel quintale di fogli rischiò davvero di rimanere travolta. La mobilitazione organizzata anche in seguito da «Libera» fece sì che il Parlamento approvasse la legge con voto unanime. E cominciò così la storia delle tante cooperative coraggiosamente costituite su terre confiscate a mafiosi, con nuove, importanti opportunità di un lavoro onesto. In un territorio dove l'egemonia mafiosa impedisce ogni regolare sviluppo dell'economia, rapinando il futuro soprattutto dei giovani, le cooperative esprimono invece voglia di riscatto, la speranza di in un rinnovamento sociale e culturale. Fanno parte di quella “minoranza” controcorrente che al puzzo preferisce il fresco profumo di libertà.
Mi capita spesso, andando nelle scuole a parlare di legalità, di tirar fuori dalla borsa - ad un certo punto del discorso - un pacco della pasta che si produce col grano coltivato in una di queste cooperative ( per la precisione, la Cooperativa «Placido Rizzotto-Libera terra», sorta grazie al consorzio «Sviluppo e legalità» formato da vari Comuni del palermitano). Il pacco di pasta mi serve per dimostrare ai ragazzi che la legalità non è solo un insieme di belle parole, ma è una cosa concreta, che si può vedere, toccare, persino…gustare. La pasta è la materializzazione della legalità come vantaggio, come convenienza: in quanto restituzione del “maltolto”, cioè di parte delle ricchezze accumulate dalla mafia mediante il sistematico drenaggio delle risorse e la “vampirizzazione” del tessuto economico legale ( a forza di estorsioni, usure, truffe, appalti truccati, tangenti eccetera). La pasta, dunque, come baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei mafiosi. La pasta come sintesi di dignità ed indipendenza conquistate col lavoro. La pasta come metafora della possibilità di essere più felici.
Con le cooperative sulle terre confiscate ai mafiosi si è avviato "un percorso educativo e formativo che riguarda prima di tutto le coscienze" dei ragazzi che partecipano direttamente alla vita di esse. Ma questi ragazzi (spiega Carlo Barbieri in un libro di prossima pubblicazione) «insieme alla libertà per loro stessi stanno donando un po’ più di libertà anche a tutti noi, che abbiamo il dovere civile e morale di sostenerli... Il nostro sostegno va a loro come persone, ai prodotti che nascono dalle terre che lavorano: ma va anche e soprattutto all'ideale ed ai valori dei quali sono portatori; e che devono valicare i confini della Sicilia, terra di mafia per antonomasia ma che non è l'unica a soffrire di questa piaga». Sono, in sostanza, parole simili a quelle che Paolo Borsellino pronunziò il 23 giugno 1992. La speranza - ritrovata - che il profumo di libertà possa ancora riuscire (nonostante il persistere di troppe viltà e timidezze, anche istituzionali) a contrapporsi al puzzo dei mafiosi e del collusi con la mafia.

     

   

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