In
memoria di un giudice libero
di Gian Carlo
Caselli
Palermo, una capitale europea, come fosse Beirut.
Accadde 12 anni fa, il 19 luglio 1992. Quando in via d’Amelio un’autobomba
predisposta da criminali mafiosi fece strage di Paolo Borsellino e dei
giovani poliziotti che lo scortavano. Commemorare questo sacrificio - oggi
- ha un senso soprattutto se si cerca di fare memoria: per capire meglio
la genesi delle tragedie verificatesi e così provare ad impedire che se ne
producano di nuove.
Un modo significativo di fare memoria consiste nel trarre le necessarie
conseguenze - sul piano dei comportamenti effettivi - dalle parole di
Paolo Borsellino che (in quanto pronunziate il 23 giugno 1992, alla
commemorazione di Falcone organizzata dall'Agesci di Palermo nella
parrocchia di S. Ernesto, nel trigesimo di Capaci) sono come un suo
testamento spirituale: «La lotta alla mafia (primo problema da
risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere
soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e
morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a
sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al
puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi
della complicità».
Dopo le stragi, per un certo periodo (due, tre anni) sembrò che questo
puzzo potesse finalmente scomparire. Oggi, invece, il puzzo che Borsellino
denunziava come esiziale lo si sente di nuovo. Ed è una diretta
conseguenza dell’eclissi della “questione morale”.
Questione morale significa trasformazione della politica in cordate di
interessi, contaminazione fra apparati dei partiti, mondo
affaristico-economico e malaffare. Ne sono figli il clientelismo e varie
forme di illegalità, fino alla corruzione e alle collusioni con la mafia.
All’inizio degli anni Novanta la questione morale registrò un forte
rilancio, grazie al recupero di legalità ottenuto con le inchieste su Mani
pulite e sui rapporti fra mafia e politica. Poi cominciarono gli attacchi
e le forsennate campagne sulla pretesa politicizzazione della magistratura
e sul cosiddetto giustizialismo (da intendersi in realtà come paura di
“troppa legalità”: troppa, s’intende, per chi è insofferente ai
controlli). Attacchi e campagne ossessivamente diffusi attraverso i mezzi
d'informazione più corrivi. Col risultato che il recupero di legalità è
diventato sempre più faticoso. E la questione morale è stata relegata in
qualche nascosta soffitta. Perché se sono i magistrati a diventare le
persone da mettere sotto accusa, se la “questione” sono loro e non i
corrotti e i collusi, è evidente che ci sarà più spazio e più tempo per
ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste e dal profilarsi
- grazie ad esse - di responsabilità anche sul piano politico e morale.
Disonestà, trasformismo e viltà, invece di ridursi, si riproporranno
pesantemente.
Sullo specifico versante dei rapporti fra mafia e politica, di fatto la
questione morale sembra addirittura cancellata. Il libro «Voglia di
mafia», di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, ed il recente pamphlet di
Francesco Forgione (deputato regionale siciliano), significativamente
intitolato «Amici come prima», offrono una documentazione impressionante:
sia per il numero di personaggi coinvolti a vario titolo in vicende che
emanano proprio il puzzo che Borsellino voleva cancellare, sia per la
trasversalità politica che contrassegna la diffusione del puzzo. Si tratta
di condotte abituali con le quali - è evidente - non solo non si fa
memoria dell'esperienza e del sacrificio di Borsellino, ma la si calpesta.
Chi tresca con mafiosi e paramafiosi offende questa memoria. Ed il
tradimento si moltiplica se la società civile - invece di indignarsi per
queste vergognose contiguità o complicità - si tura il naso fingendo di
non sentire il puzzo. O cerca di esorcizzarlo autoconvincendosi che così
va il mondo e non c'è nulla da fare.
Per fortuna c’è anche una parte di società civile che non si arrende. Che
insiste a voler fare memoria, di Borsellino e delle altre vittime di
mafia, cercando di affiancare - all'antimafia della repressione -
un'antimafia culturale e morale, dei diritti e del lavoro: l’antimafia del
«profumo di libertà». Come quella dei «pazzi di Palermo», che stanno
tappezzando strade e negozi di scritte contro il pizzo. O quella di
«Libera», l’associazione guidata da Luigi Ciotti e Rita Borsellino -
sorella del magistrato ucciso - che ha costruito un'imponente rete di
collegamento sull'intero territorio nazionale, un ponte tra Sud e Nord
formato da circa 1500 gruppi, uniti dal comune interesse sui temi della
legalità e della giustizia.
Fiore all'occhiello di «Libera» è la legge n. 109 del 1996 sul reimpiego a
fini socialmente utili ( un “riciclaggio” buono...) dei beni confiscati ai
mafiosi, per la quale sono state raccolte in tutt'Italia centinaia di
migliaia di firme. Indimenticabile il momento in cui Ciotti (proprio in
via d’Amelio, in un anniversario della strage) scaricò quella montagna di
firme sulle esili braccia dell'allora presidente della Camera Irene
Pivetti, che da quel quintale di fogli rischiò davvero di rimanere
travolta. La mobilitazione organizzata anche in seguito da «Libera» fece
sì che il Parlamento approvasse la legge con voto unanime. E cominciò così
la storia delle tante cooperative coraggiosamente costituite su terre
confiscate a mafiosi, con nuove, importanti opportunità di un lavoro
onesto. In un territorio dove l'egemonia mafiosa impedisce ogni regolare
sviluppo dell'economia, rapinando il futuro soprattutto dei giovani, le
cooperative esprimono invece voglia di riscatto, la speranza di in un
rinnovamento sociale e culturale. Fanno parte di quella “minoranza”
controcorrente che al puzzo preferisce il fresco profumo di libertà.
Mi capita spesso, andando nelle scuole a parlare di legalità, di tirar
fuori dalla borsa - ad un certo punto del discorso - un pacco della pasta
che si produce col grano coltivato in una di queste cooperative ( per la
precisione, la Cooperativa «Placido Rizzotto-Libera terra», sorta grazie
al consorzio «Sviluppo e legalità» formato da vari Comuni del
palermitano). Il pacco di pasta mi serve per dimostrare ai ragazzi che la
legalità non è solo un insieme di belle parole, ma è una cosa concreta,
che si può vedere, toccare, persino…gustare. La pasta è la
materializzazione della legalità come vantaggio, come convenienza: in
quanto restituzione del “maltolto”, cioè di parte delle ricchezze
accumulate dalla mafia mediante il sistematico drenaggio delle risorse e
la “vampirizzazione” del tessuto economico legale ( a forza di estorsioni,
usure, truffe, appalti truccati, tangenti eccetera). La pasta, dunque,
come baluardo della democrazia contro i ricatti e le umiliazioni dei
mafiosi. La pasta come sintesi di dignità ed indipendenza conquistate col
lavoro. La pasta come metafora della possibilità di essere più felici.
Con le cooperative sulle terre confiscate ai mafiosi si è avviato "un
percorso educativo e formativo che riguarda prima di tutto le coscienze"
dei ragazzi che partecipano direttamente alla vita di esse. Ma questi
ragazzi (spiega Carlo Barbieri in un libro di prossima pubblicazione) «insieme
alla libertà per loro stessi stanno donando un po’ più di libertà anche a
tutti noi, che abbiamo il dovere civile e morale di sostenerli... Il
nostro sostegno va a loro come persone, ai prodotti che nascono dalle
terre che lavorano: ma va anche e soprattutto all'ideale ed ai valori dei
quali sono portatori; e che devono valicare i confini della Sicilia, terra
di mafia per antonomasia ma che non è l'unica a soffrire di questa piaga».
Sono, in sostanza, parole simili a quelle che Paolo Borsellino pronunziò
il 23 giugno 1992. La speranza - ritrovata - che il profumo di libertà
possa ancora riuscire (nonostante il persistere di troppe viltà e
timidezze, anche istituzionali) a contrapporsi al puzzo dei mafiosi e del
collusi con la mafia.