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Perchè non Prodi

  Ultimo aggiornamento: 11-09-04

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Perchè non Prodi

8-08-04

Perché non Prodi?
di Furio Colombo

«Va tutto bene» dice Berlusconi, o così apprendiamo dai suoi telegiornali che liquidano le convulsioni di un governo malato e lo mandano in vacanza con finto ottimismo e nessuna cura.
Non va tutto bene, naturalmente, in una coalizione in cui il miglior alleato del Primo ministro è la voce di Bossi, leader fantasma, che forse parla al telefono e forse no. Quasi certamente i medici vorrebbero che fosse rispettato nella sua malattia, vorrebbero, intorno a lui, meno carnevalate e un po’ di pace.
Non va tutto bene se il premier tenta addirittura di spaccare il partito di un altro alleato, usando un leader (Buttiglione) contro un altro leader (Follini). E poiché c’è chi si presta, ci è quasi riuscito, e la «pace ritrovata» in quel partito appare alquanto precaria.
Non va tutto bene in un governo in cui un ministro della Giustizia, in camicia bruna (verde, d’accordo, ma il tono e la sequenza delle parole evocavano brutti momenti del passato) attacca il ministro dell’Interno che cerca, almeno, di spiegare la vergogna denunciata dal direttore di Le Monde, Colombani, quando persone «di colore» vengono sottoposte a umiliazioni, alle frontiere italiane, con la scusa dei controlli. In camicia bruna si è messo anche il ministro delle Riforme Calderoli, già vicepresidente del Senato, due cariche che, su di lui, non hanno lasciato traccia di dignità istituzionale. Calderoli è intervenuto per definire le coppie di fatto, tutelate dal nuovo, civilissimo statuto della Regione Toscana. Ha detto che «stanno insieme come le bestie» (per la verità ha precisato: come cani e gatti).
Non va tutto bene in un governo in cui vengono sostituiti tre ministri chiave (uno va a giurare al Quirinale in divisa leghista, uno ha diviso il suo partito per andare in Europa, uno è un «civil servant» - pubblico dipendente - spostato d’autorità alla carica di governo perché tutti gli altri ministri avevano risposto in coro «io no, io no», dimostrando così di fronte a tutti l’estrema gravità della crisi).
E nonostante ciò il Primo ministro ha fatto finta di niente, ha fatto come se il Quirinale non esistesse, come se non fossero dovute le dimissioni di un premier quando tre (tre) ministri di rilievo se ne vanno, come se le ragioni delle tre clamorose sostituzioni fossero ovvie e di modesta portata, come se non fosse necessario un «Berlusconi due» debitamente accompagnato da dibattito in Parlamento, spiegazioni indispensabili in un sistema democratico, modificazioni di programma, di cifre, di soluzioni possibili.
Invece Berlusconi, che finora ha cambiato - per incapacità, presunzione, errore, fuga, dimissioni volontarie e dimissioni inorridite (Renato Ruggiero) - mezzo governo, mentre l’altro mezzo è fermo, zitto, incapace o incompetente, fra poco si vanterà di avere superato la durata dei governi di Bismarck e poi quella di Arafat.
In democrazia, certo, il caso è unico. È unico perché Berlusconi non si sogna di rendere conto a nessuno del suo disastro, la televisione è roba sua, i commentatori sono amici di famiglia, i giornali benevolmente commentano «la calda collaborazione» fra il Premier e il Governatore della Banca d’Italia, che fino a un istante prima si sono insultati come allo stadio.
Come si vede dai toni sprezzanti della stampa del mondo, il caso italiano è un umiliante disastro, una catena di disgrazie politiche ornate dalla vanitosa incapacità di uno come Tremonti, dalla accigliata incompetenza di uno come Urbani, dalla disciplinata sottomissione di uno come Sirchia, dalla laboriosità caotica e confusionale di una come la Moratti, dalla sprezzante xenofobia di quel che resta della Lega, tutti incoraggiati dal fatto che più esagerano negli atti di prepotenza e nelle clamorose boutade, e più trovano comprensione nei giornali, anche i più moderni, e silenzio conciliante nelle istituzioni.
* * *
Non va tutto bene per la maggioranza. Ma zone e leader della opposizione, improvvisamente distratti dal problema del come affrontare il potente avversario politico, del come avviare una coerente campagna elettorale, del come vincere le elezioni, sembrano improvvisamente affascinati da tormentosi problemi interni.
Per esempio si apre un nuovo dibattito: come distinguere la sinistra radicale dai riformisti e, dunque, come separare l’erba cattiva da quella buona, impegno che, a quanto pare, appassiona molto di più del trovare un modo solido e stabile di stare insieme. E appassiona molto di più del prestare attenzione ai discorsi di Castelli e di Calderoli, molto di più dell’operazione OVRA condotta da un consigliere d’Amministrazione della Rai conto Lucia Annunziata, molto di più della cacciata, da parte del ministro Sirchia, dell’oncologo Petrella colpevole non di errori chirurgici ma di aver parlato male di Berlusconi. E persino di più delle riforme di scuola, sanità, giustizia, pensioni, conflitto di interessi, approvate a colpi di voto di fiducia, cioè senza alcuna discussione, e perciò ovviamente inaccettabili per qualunque governo normale che dovesse succedere a Berlusconi.
Infatti la frontiera sembra essere proprio questa: radicale è la sinistra che col mondo di Berlusconi non vuole avere niente a che fare. Riformisti sono coloro che pensano che non puoi fare tutto il tempo le «riforme delle riforme».
Come se Kennedy si fosse tenuta l’America della segregazione e del maccartismo lasciatagli da Eisenhower, Carter il progetto di supremazia militare di Nixon, Clinton la condizione di esclusione dei poveri dagli ospedali voluta da Reagan e da Bush padre.
Chiunque, tra loro, avesse predicato, in campagna elettorale, la continuità delle leggi del predecessore, sarebbe stato abbandonato molto prima del voto. Naturalmente il riformismo è cosa ben più seria e - come dimostrerà la prossima campagna elettorale - non si dividerà sull’indice di gradimento delle leggi di Berlusconi, che ormai compongono, tutte insieme, una pagina nera nella storia di questo Paese.
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È probabile che molte discussioni che animano il centrosinistra (disorientando a volte gli elettori) coprano una ragione più seria. La ragione è Prodi.
Ha fatto bene Prodi a proporre le “primarie”. È stato utile per dissipare i bisbigli. Se ci sono altri candidati, si facciano avanti subito. Ha fatto bene Bertinotti a rispondere: se si tratta di confrontare idee e programmi, noi siamo disponibili. Idee e programmi, infatti, dovranno essere confrontati, accostati, unificati per vincere insieme. E difficilmente si vincerà insieme dichiarando che l’avversario non è così male.
Comprensibile che Pier Ferdinando Casini, da presidente della Camera dica: «L’opposizione deve sporcarsi le mani con le riforme, non ci si salva la coscienza ritirandosi». Ma è probabile che anche lui, dal suo seggio, abbia notato che delicatissime riforme costituzionali vengono approvate con l’espediente blindato del voto di fiducia e che questa è una pratica sporca. Impedisce all’opposizione, anche volendo, ogni ruolo. Impedisce persino alla maggioranza di formulare obiezioni o di interloquire in modo corretto e parlamentare con l’opposizione. La controprova è che le poche volte in cui proposte di leggi indecenti sono state approvate senza la blindatura, mai è stato consentito un qualsiasi punto di contatto con le obiezioni della opposizione. Ma alla base di tutto resta il fatto che una legge indecente come quella sul conflitto di interessi scritta da e per le parti interessate, ridicola agli occhi del mondo, perché esenta dalla vita politica i dirigenti di un gruppo imprenditoriale ma non i proprietari, una volta approvata, con il sistema blindato del voto di fiducia, è un ostacolo troppo grande per poter concepire qualsiasi forma di collaborazione dell’opposizione con una simile maggioranza.
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L’opposizione italiana, oggi, ha tre punti di forza che sarebbe strano non vedere e non usare, in un confronto politico nel quale si gioca il destino del Paese.
Il primo punto di forza è nel non avere collaborato mai, per nessuna ragione e in nessun momento, al massacro legislativo che già adesso, mentre dura la legislatura Berlusconi, viene cancellato in ampie parti dalla Corte Costituzionale.
Il secondo punto di forza è di avere lasciato agli italiani, imprenditori e lavoratori, abbienti e non abbienti, un Paese sano, affidabile, con i conti in ordine e una ragionevole certezza di stabilità, oltre che di rispetto nel mondo; mentre la disastrosa miscela di interessi privati, favori personali, illegalità, condoni, vandalismo leghista, silenzi obbedienti e voti comprati - si può descrivere così l’insieme del lavoro del governo Berlusconi - consegna adesso agli italiani un Paese senza soldi, senza piani, senza legami, senza reputazione.
Il terzo punto di forza è il suo leader. Vorrei usare le parole di un’antica formula del diritto anglosassone per chiedere ai nuovi incerti, o ai finti incerti dell’Ulivo: dicano perché Romano Prodi, che ha governato come ha governato in Italia e in Europa, e che ha la stima dei governi del mondo, non dovrebbe guidare la campagna elettorale, la vittoria e il governo dell’Ulivo. Lo dicano, anche perché il dubbio, se esiste, non si percepisce se non in alcuni retro-corridoi del Palazzo politico.
 

 

 

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