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Storia degli automi scacchistici
Prefazione
In un’era come la nostra, ove i computer, con l’ausilio di potenti software, giocano a scacchi in maniera autonoma e competono con i più forti giocatori umani, spesso superandoli, forse desteremmo una qualche invidia in grandi inventori come Kempelen, Hopper o Gümpell se fossero riusciti a vivere sino ai nostri giorni. Ma chi erano costoro? E per quale motivo dovrebbero provare invidia per i nostri progressi tecnologico-scacchistici? Questi erano rispettivamente gli inventori dei tre più famosi “automi scacchistici” del passato: “il Turco”, “Ajeeb” e “Mephisto”. Si può quasi affermare che la ricerca della tecnologia che ha portato le macchine a giocare a scacchi in modo autonomo è partita in una qualche maniera proprio da loro; questi tre signori, in sintesi, sono i tre “nonnetti” delle nostre super tecnologiche macchine giocatrici di scacchi, o meglio, lo erano le loro tre creazioni. Se poi si riflette sul fatto che la prima, il Turco, è stata realizzata alla fine del 1700 e le altre due nell’800 si può apprezzare appieno realmente quanto antichi siano stati questi “avi” dei moderni computer di scacchi. Si apprezza anche quanto sia antico il desiderio dell’uomo di realizzare la macchina giocatrice, l’automa di scacchi, anche se in realtà questi pupazzoni, che si supponevano automatici, avevano dalla loro un forte “aiuto” di tipo genuinamente umano.
In un’epoca dove la tecnologia del silicio, dei circuiti integrati e dei banchi di memoria erano sconosciute, dove la corrente elettrica era una “bimba neonata” e l’unica spiegazione plausibile alle azioni autonome delle cose inanimate era la “benedizione di Dio” od in alternativa “l’intervento satanico”, i nostri inventori non potevano fare a meno dell’intervento diretto dell’uomo, ed erano ben consapevoli di avere realizzato degli strumenti che generavano uno spettacolo di illusionismo. Ma questi affascinanti strumenti crearono fama, guadagno e scalpore per oltre 150 anni ed oltre ad essere essi stessi l’uno l’imitazione dell’altro, ebbero a loro volta un florilegio di imitazioni, almeno quindici dicono le cronache, di “fantocci emuli” dei fratelli più famosi ed affermati oltre che originali. In questo nostro tentativo cercheremo di riportare alla mente e raccontare la storia di questi tre più famosi automi scacchistici a cominciare dal primo e più antico di tutti; ed anche il più famoso.
“…ότι μοι θειόν τι καί δαιμόνιον γίγνεται ……”
(poiché dentro di me alberga un qualche
cosa di divino e demoniaco insieme)
(Discorso di Socrate Platone “Apologia di Socrate”)
Il pupazzo d'oriente
Storia del “Turco”, il primo degli automi scacchistici
Relativamente più giovane di adesso, nella metà degli anni ’80, una sera al circolo scacchistico di Cagliari, mi capitò di vedere l’ultimo super tecnologico acquisto di uno dei nostri soci anziani che ora non è più tra noi. Si trattava di una scacchiera elettronica. A quei tempi per noi scacchisti erano questi strumenti l’ultimo grido della tecnologia ed i personal computer sofisticati con il loro corredo di Fritz e Chessmaster vari erano ancora inediti. Vedere uno strumento del genere non era cosa di tutti i giorni, ma questa scacchiera aveva una particolarità rispetto alle altre: muoveva i suoi pezzi da sola! Proprio così. Attraverso un complicato sistema di magneti faceva le proprie mosse da sola, ti levava i pezzi che ti catturava e ti rimetteva il pezzo a posto se sbagliavi a muovere. Quando dava scacco emetteva un tedioso cicalio e quando dava il matto, che fastidio, emetteva un triplo fischio meccanico che nelle migliori intenzioni dei costruttori dello strumento, probabilmente significava una esclamazione di “gioia” da parte della scacchiera. L’unica incombenza che era data al giocatore era il premere bene il proprio pezzo che si intendeva muovere sia nella casa di partenza che in quella di arrivo e naturalmente cercare di batterla. Nell’apprestarmi a scrivere questo articolo mi è tornato alla mente questo aneddoto e mi sono domandato: “avessero potuto vederla Kempelen o Maelzel….”.
Il barone Von Kempelen, Wolfgang Von Kempelen, era nato a Pressburg, nell’Ungheria austriaca nel 1734 ed era insignito del titolo di “aulico consigliere per la meccanica della casa reale d’Austria”. Era insomma un personaggio non qualunque, e certamente rispondeva al modello di uomo che, per quei tempi, si può ragionevolmente definire “un inventore”, un geniale inventore. Il suo campo di interesse scientifico abbracciava la ricerca dell’”automatismo”, ovvero tendeva a costruire strumenti, aggeggi, pupazzi, insomma battezziamoli come vogliamo, che, basati comunque su strumentazioni e macchinari artificiali, replicassero in maniera “autonoma”, per l’appunto, delle attività proprie dell’essere umano e del suo normale discernimento ed esercizio di intelligenza nelle sue normali attività. Infatti il nostro creativo barone si dedicò per molto tempo, con successo tra le altre cose, alla creazione di una “bambola parlante” che riusciva a pronunciare più di trenta frasi diverse. D’altronde nel periodo compreso tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, il periodo che alla storia passò con il nome di “rivoluzione industriale”, sempre più proto-ingegneri si misuravano nel creare questi strumenti meccanici; le ballerine danzanti al suono delle melodie, i carillon, i pan-armonici (sorta di strumenti che riproducevano contemporaneamente il suono di diversi strumenti in melodia tra di loro), i clavicembali automatici che suonavano da soli, e via discorrendo si sprecavano. Sotto questo punto di vista il nostro “Turco” era semplicemente un prodotto che nasceva con lo stesso principio degli altri aggeggi del genere, ma fu, però, destinato a ben altra fama di tutti gli altri. Che cosa ispirò dunque Kempelen alla realizzazione di siffatto strumento quando egli stesso non risulta fosse appassionato del gioco e comunque non risultava in ogni caso essere giocatore all’altezza? Andiamo per ordine. Nel 1769 il buon barone viene invitato a corte da Maria Teresa d’Austria, imperatrice del Sacro Romano Impero Germanico e famosa monarca della casa d’Asburgo, per assistere a delle dimostrazioni sul magnetismo da parte di un francese che, nelle frivole corti di allora, fece un grande successo. In realtà il francese si presentava come illusionista e l’imperatrice aveva invitato il buon Kempelen, esperto in meccanica, idraulica e fisica, per cercare di smascherare i trucchi dell’illusionista. In realtà il nostro barone non riuscì affatto nell’intento. Un poco delusa sua maestà diede un incarico a Kempelen. Dato il ruolo ricoperto Kempelen fu esortato da parte dell’imperatrice in persona a portare avanti degli studi affinché anche lui potesse presentare a corte un qualche cosa di altrettanto speciale. Ed in realtà l’Ungherese, un poco piccato dal mezzo fallimento ed un poco stimolato dall’incarico ricevuto si buttò armi e bagagli nella bisogna della sua imperiale mecenate. Un anno dopo, nel 1770, Kempelen era pronto a presentare alla corte il proprio lavoro. In prima istanza il mistero prese veramente tutti gli astanti della corte; si trattava di un fantoccio vestito alla maniera orientale seduto su una grande cassa di legno. Ma si diceva che la particolarità di questo pupazzo era che poteva giocare e vincere al più nobile dei giochi: gli scacchi. Davanti a se infatti il pupazzo orientale aveva una scacchiera, ed essendo un oggetto inanimato la curiosità degli ospiti accrebbe ancora di più. Incredibile la meraviglia ed il successo quando quel oggetto cominciò a giocare a scacchi con vari avversari scelti in persona dalla sovrana e trionfò tutte le partite dimostrando di sapere decisamente vincere. Ma che cosa era realmente questo oggetto? “Magia”, “Prodigio della tecnica”, “miracolo divino” ed affermazioni simili furono termini che si sprecarono per definire le performance di Kempelen e del suo pupazzo scacchistico. All’inizio per lui fu solo un progetto atto ad avanzare in carriera, ma la fama che né derivò dalla presentazione a corte portò Kempelen verso una sorta di rigetto. Il fantoccio sparì immediatamente dalla circolazione nonostante le ripetute richieste degli Asburgo di rappresentare di nuovo il “pupazzo d’oriente”, come lo si chiamava agli inizi, ma che poi fu semplicemente, ed imperituramente, battezzato “il Turco”. Kempelen aveva creato uno strumento illusionistico, e questo egli ben lo sapeva in realtà, ma il fascino ed il mistero, quasi inquietante, che emanava, aveva già stregato molte persone. Il rigetto fu cosa ovvia d’altronde, in quanto Kempelen si riteneva uno scienziato a tutti gli effetti ma l’impressione che si ebbe dopo la rappresentazione fu che egli fosse apprezzato più come illusionista e custode di un affascinante mistero quasi “stregato” che altro. Lo strumento fu smantellato e riposto in un magazzino e non rivide la luce del sole prima del 1783. In quel anno, sotto il regno di Giuseppe II d’Austria, Kempelen fu persuaso a rimettere in opera il Turco che fu rimesso in sesto pronto per la rappresentazione. Kempelen accettò di buon grado anche perché convinto dal fatto che nelle stesse rappresentazioni poteva mostrare le altre sue creazioni tra le quali vi era proprio la famosa bambola parlante di cui abbiamo accennato prima. Oltre alla fama per lo stupendo strumento che stava per tornare in opera si sprecavano anche le opinioni e le teorie in merito al come esso funzionasse. Da più parti e più volte ci furono affermazioni solenni, e persino pubblicazioni, di chi “aveva capito tutto”, oltre al sorgere di leggende riguardo a questa macchina che non fecero altro che accrescere il mistero dello strumento stesso e la fama di Kempelen. Ma come funzionava in realtà la macchina? Dove era la realtà? Lungi dal volere aggiungere altro mi abbandono invece all’illuminata e precisa descrizione che ne fa Donald Fiene in un bellissimo articolo apparso nel 1977 nel British Chess Magazine.
[....] La struttura di Kempelen aveva due compartimenti, uno piccolo sulla sinistra, apparentemente pieno di macchinario, ed uno più grande sulla destra, per la gran parte vuoto eccetto che per la sua fodera di tessuto nero ed una copia di apparecchi metallici a forma di tubo. Le porte si aprivano in entrambi i compartimenti sul davanti e dietro. Sotto il compartimento di destra c’era un cassetto di tipo telescopico di circa 5 pollici (10 cm circa) d’altezza e che aperto presentava una larghezza di circa 2 piedi (60 cm circa) e chiuso lasciava uno spazio di intervallo di circa 1 piede (30 cm circa) dietro di lui. All’inizio dell’esibizione tutte le parti apribili erano chiuse e l’operatore stava seduto incurvato nella parte posteriore del compartimento di destra con le gambe stese in lungo nello spazio dietro il cassetto telescopico. Kempelen apriva prima la parte anteriore del compartimento di sinistra mostrando il macchinario; quindi apriva la parte posteriore e passava una candela accesa da dietro l’apertura. La luce risplendeva attraverso gli interstizi nelle strumentazioni e marchingegni, rivelando all’uditorio che nessuna persona poteva essere nascosta li dentro. Quindi Kempelen chiudeva con calma la porta posteriore, ritornava davanti alla struttura e tirava fuori il cassetto sotto il compartimento di destra alla sua massima estensione mostrandone il contenuto: pezzi degli scacchi e vari altri oggetti. Nel frattempo l’operatore nascosto aveva spinto via il falso pannello dietro di lui e si era mosso interamente di schiena sulla parte sinistra del compartimento di sinistra dietro il finto macchinario, con le gambe distese davanti a lui e ben nascoste alla vista quando la parte anteriore del compartimento di destra veniva aperta in quel momento da Kempelen. Veniva poi aperta l’apertura posteriore del compartimento di destra e la luce veniva passata dietro di lui per provare che non vi era nessun falso spazio posteriore per nascondere qualcuno lì. A quel punto tutto l’uditorio (e l’avversario del Turco)erano certi che tutte le parti erano state aperte e che la cassa non poteva contenere anima viva alcuna e tanto meno un uomo intero. Il punto chiave di tutta l’illusione era che la parte posteriore del compartimento di sinistra rimaneva chiusa. Quando Kempelen ruotava la cassa intorno per aprire ulteriormente parte del busto del fantoccio, stava bene attento a celare la parte cruciale con un lembo del drappo del Turco. Prima dell’inizio del gioco tutte le aperture venivano nuovamente chiuse. Quindi, mentre Kempelen caricava il rumoroso falso meccanismo con una grande chiave, l’operatore spingeva via il falso pannello davanti alla cassa, spingeva indietro la fodera di tessuto del compartimento di destra scivolava dentro flettendo le ginocchia. Mentre faceva questo parte del pavimento segmentatocce ricopriva le sue gambe si sollevava per rivelare una piccola scacchiera infissa. Egli accendeva quindi una candela e cominciava a giocare inserendo la parte finale di una leva di tipo pannografico dentro un buco nella casella selezionata. La leva muoveva il braccio meccanico del Turco esattamente nella casella corrispondente sopra. Un giro di leva e le dita del Turco prendevano il pezzo. Quanto la leva di sotto veniva mossa verso un’altra casella il braccio e la mano del Turco seguivano. Quando l’avversario muoveva un pezzo un piccolo magnete dentro il pezzo stesso segnalava il fatto rilasciando ed attraendo alternativamente dei piccoli indicatori metallici montati su delle molle nelle caselle numerate di una scacchiera posta nella parte superiore della struttura direttamente sotto la scacchiera superiore. Il compito del giocatore nascosto non era facile, strabuzzando gli occhi in su verso gli indicatori solo alcuni centimetri sopra il suo naso e quindi trasferendo l’azione nella sua scacchiera in modo da seguire il gioco. Il tutto era un faticoso, limitativo, rompicollo, dolente, lacrimevole, infernale e gonfia vescica duro lavoro dall’inizio alla fine. Ma dozzine di patiti per gli scacchi entrarono dentro la piccola e calda scatola e fecero il loro lavoro per almeno 150 anni……”.
Durante la sua gloriosa carriera “scenica” diversi personaggi famosi incrociarono il cammino del Turco e con lui si cimentarono in battaglia tra i quali Giuseppe II d’Austria, Benjamin Franklin, Giorgio III, Federico il Grande, Napoleone Bonaparte ed altri giocatori, magari molto meno famosi, ma a centinaia che contribuirono a mantenere alto il mito del pupazzone orientale.
Ma il Turco trova fascino anche per la sua storia reale ed autentica che, oltre ad essere quella del pupazzo scacchistico vero e proprio, riguarda anche quella di coloro che lo possedettero negli anni ed anche di coloro che misteriosamente lo manovrarono da dentro lo scatolone, perché dopotutto il nostro orientale strumento era si uno stupendo apparato tecnologico ma molto più “umano” di quanto dimostrasse essere nella sua lunga storia “operativa”.
Ritorniamo quindi un poco indietro nella nostra narrazione. Il nostro aulico barone Kempelen è quindi persuaso nel 1783 a rimettere in opera il Turco per una nuova esibizione in casa imperiale. Ospite di riguardo dell’imperatore era il Granduca Paolo di Russia, futuro zar di lì a poco, che rimane affascinato dall’esibizione e convince Kempelen ad esibire nuovamente la sua creazione nelle città più importanti d’Europa. In aggiunta l’imperatore Giuseppe II garantisce al barone una sinecura di due anni per permettergli di potere viaggiare attraverso l’Europa senza problemi. Il gioco è fatto e Kempelen, definitivamente convinto, parte per i vari lidi d’Europa: lui, la famiglia ed il suo assistente Anthon. Chi fosse l’operatore dello strumento in queste esibizioni non è tramandato dalla storia, ma è certo che si notò che Anthon ad un certo punto della manifestazione spariva per riapparire prontamente nel finale…….. chissà! Ciò che è certo è che la tournè di due anni dal 1784 al 1785 tocca numerose città: Dresda, Lipsia, Parigi, Bruxelles, Londra, Berlino. In Parigi, nel 1784, il Turco gioca contro Benjamin Franklin, probabilmente il più forte dei dilettanti “famosi” da lui incontrati, e lo batte. Viene invece sconfitto, in una esibizione nel famosissimo Cafè de la Régence da Philidor. Il Turco continua ad essere esibito sino al 1804, nonostante Kempelen fosse rientrato in patria, dal suo assistente Anthon ma anche in questo caso è sconosciuto l’operatore umano. Inopinatamente Kempelen muore nel 1804 e gli eredi decidono di disfarsi del pupazzo vendendolo ad un personaggio particolarmente eccentrico, uno di quei personaggi che ogni tanto la storia pone in auge per motivi che a noi non sono dati di comprendere, ma costoro sono personaggi che sanno comunque lasciare il segno. A questo gruppo apparteneva Johann Nepomuk Maelzel nuovo padrone del Turco. Questo eclettico personaggio, anche lui figlio della mitteleuropa essendo nato a Rattensburg in Baviera nel 1772, era egli stesso inventore, o passava per tale in quanto si diceva fosse colui che aveva inventato il metronomo, ovvero quel tedioso strumentino che serve per dettare i tempi corretti della musica. Egli lo sviluppò e lo commercializzò sin dal 1816, ma purtroppo per lui e per quanto gradiva egli stesso affermare, non lo inventò affatto. Fu infatti definitivamente provato, ed in tribunale, che l’inventore dello strumento era un tale Winkel, olandese, al quale il buon Maelzel aveva semplicemente “soffiato” l’idea. Inoltre Maelzel si occupava di “pan-armonia” ovvero costruiva strumenti automatici capaci di replicare il suono di più strumenti contemporaneamente in armonia tra di loro. In ogni caso tutto questo sta a significare che un tale personaggio, con forte indole a creare miti ed utilizzare al massimo grado le possibilità date, era il perfetto padrone per uno strumento come il Turco e per quello che era realmente diventato con grande dispiacere di Kempelen: non più uno strumento di ricerca scientifica, ma bensì un vero ed autentico fenomeno da baraccone. E Maelzel era la perfetta personalità in grado di amministrare tale fenomeno. Siamo quindi nel 1805, in pieno periodo napoleonico per intenderci e napoleone si era dichiarato imperatore dei francesi da pochissimo e di lì a poco, nello stesso anno, Napoleone sconfiggerà proprio gli austriaci ad Austerlitz e dichiarerà la fine del Sacro Romano Impero Germanico e praticamente la fine del domino degli Asburgo per un po’. In quel momento Maelzel acquisiva il Turco dal figlio di Kempelen per circa l’equivalente, pare, di 200 sterline inglesi d’allora. Una cifra decisamente ragguardevole in realtà e che Maelzel ritiene di dovere ammortizzare quanto prima, e quindi si mette subito al lavoro. Nel triennio 1805-1808, egli esibisce il turco in varie città della Prussia e dell’Austria, non oltre si badi poiché le guerre napoleoniche sconvolgevano realmente l’Europa e viaggiare era decisamente pericoloso ed avventuroso al tempo stesso. Nel 1809, nel castello di Schoenbrunn il nostro Turco ed il suo singolare proprietario incontrano nientemeno che sua maestà Napoleone imperatore dei francesi. Il Bonaparte era in Austria per una buona serie di motivi, tra i quali il dirigere le proprie campagne militari contro Prussia e Russia, poi di fatto era diventato il vero padrone dell’Austria con buona pace dell’imperatore Francesco I che si poteva già ritenere fortunato ad avere mantenuto il suo trono, ed infine ma non ultimo, per chiedere in sposa Maria Teresa, figlia di Francesco. In quella occasione il Turco incrociò le armi con Napoleone sulla scacchiera e vinse seccamente. Pare quasi beffardo che il più grande generale che la storia ricordi fosse in realtà e nonostante la profonda passione, una particolare schiappa nel gioco degli scacchi, ovvero il gioco che più di tutti alla guerra si avvicinava. Sta di fatto che lo strumento, che pare che avesse come operatore nascosto il maestro e teorico austriaco Allgaier, che deve essersi divertito come un folle a rifilare il matto al grande Corso, vinse il match nettamente e senza particolari ritegni per la regale figura del suo avversario, il quale si vide riposizionato senza troppi complimenti il pezzo che aveva mosso illegalmente per ben due volte di seguito. Ma il destino volle che il Turco avesse ancora a che fare con la famiglia Bonaparte. Infatti nel 1811, pare, Eugene de Beauharnais, figlio adottivo di Napoleone, era in realtà figlio della ex imperatrice Josephine lasciata da Napoleone per sposare Maria Teresa, ma ciò nonostante il Corso, la cui notoria generosità ed il marcato nepotismo per così dire “dinastico” nei confronti dei membri della sua famiglia erano ben noti, mai rinnegò Eugene né questi mai lo abbandonò al suo destino. Eugene acquistò il Turco da Maelzel per la principesca somma di 30.000 franchi . Essendo Eugene vicerè d’Italia il pupazzo prese la via di Milano, smise le rappresentazioni pubbliche ed ivi rimase sino a certamente il 1817, quando Maelzel decide di riacquistarlo dallo stesso Eugene oramai nei guai data la stabile e definitiva dipartita di Napoleone alla volta di Sant’Elena. A questo punto il mirabile strumento, che oramai ha quasi 50 anni di età, assume a nuova vita e riprende il suo peregrinare anche se smette decisamente di frequentare le case dei regnatori per frequentare invece le fiere e gli eventi pubblici di più varia natura riprendendo appieno l’attività di fortunato fenomeno da baraccone.
Dal 1811 sino al 1838 venti anni di fortunata carriera in giro per il mondo: Parigi, Londra, New York, Boston, Baltimora e poi di nuovo in Europa e di qua e di là dell’oceano. Gli operatori si susseguono: Lewis, Williams, Mouret, Weyle ma soprattutto Schumberger. Era questi un giovane alsaziano che operò sul Turco dal 1826 al 1838 ed era certamente giocatore assai forte ma che invece di dare fama a se stesso la diede al pupazzone orientale. La sua carriera si interruppe bruscamente nel 1938 quando, ammalatosi di febbre gialla all’Avana muore inopinatamente. Maelzel cerca un nuovo operatore invano e quindi, scoraggiato e depresso, non sopravvive al suo grande amico e collaboratore e muore il 21 luglio dello stesso anno. Con la fine del suo grande anfitrione anche i fasti del Turco decadono rapidamente. Viene venduto all’asta come liquidazione dei debiti contratti da Maelzel nello stesso 1938. Acquistato da un tale Ohl, creditore di Maelzel, viene poi rivenduto a Mitchell, presidente del circolo scacchistico di Philadelphia. Nel 1840 viene ceduto a titolo gratuito al museo delle cineserie di Philadelphia. Lì rimane per la bellezza di 14 anni inattivo praticamente per sempre e dopo 84 anni conosce la fine che avviene tra le fiamme che colgono e distruggono il museo nel 1854. Che fine quasi dimessa e triste per il nostro pupazzo che durante la sua storia ha incontrato i grandi della terra, ha visto mezzo mondo ed anzi, vista la nascita nel vecchio continente vede la fine proprio nel nuovo mondo, ed ha suscitato mille curiosità e citazioni e scritti che hanno visto parlare e scrivere di lui, tra gli altri, personaggi come Benjamin Franklin, Robert Houdini ed Edgar Allan Poe.
Quasi mi immagino il pupazzo d’oriente nella stanza del museo, invasa dal fuoco, magari rivestito con abiti da mandarino cinese, che attende inerme, lui che aveva illuso di possedere il bene dell’intelletto e del movimento autonomo, il fuoco distruttore che lo richiamava tristemente alla realtà di essere completamente incapace di difendersi e di rifuggire. Una triste fine per un mirabile strumento che, nel bene e nel male, aveva rappresentato un prodigio della tecnica e nell’immaginario collettivo della gente quasi un ché di misterioso e demoniaco, e che invece concludeva la sua esistenza come una qualunque cineseria, come un qualunque oggetto senza spirito né anima. Ma di certo era stato un qualche cosa che a tutto questo, a ciò che veramente sembrava umano, ci si era avvicinato ben più di qualunque altra cosa passata, ma probabilmente anche futura.
*(L’articolo citato è di Donald M. Fiene pubblicato da The British Chess Magazine nei numeri di Settembre ed ottobre 1977. Titolo Originale “Kempelen’s Turk and the mystery of the legless Pole” Traduzione originale di Carlo Petricci ).
Febbraio 2005
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