Declino industriale
Processo inarrestabile per
l’Azienda-Italia?
Parecchi indicatori economici sembrano
segnalare, in maniera probante, il declino del sistema industriale italiano
e la perdita di competitività dell'azienda Italia nell'ambito internazionale.
Ce lo ricorda, fra l'altro, il recente rapporto del "World Economic Forum",
per il quale il nostro Paese - immagino le capacità produttive ed
economiche, di cui esso è dotato attualmente - scende dal 33°
al 41° posto nella classifica per nazioni.
Una discesa inarrestabile? La prospettiva
della recessione è ormai un dato inevitabile?
Se ne è parlato in un convegno
organizzato a Ivrea dal Forum Democratico del Canavese.
UN PO' DI STORIA
Per il professor Piero Garbero,
dell'università di Torino, intervenuto al convegno organizzato dal
Forum eporediese, sembra davvero che occorra la consapevolezza di essere
sul baratro della bancarotta pubblica per determinare uno 'scatto' vigoroso,
verso scelte coraggiose ed anche impopolari. E' quanto accadde nel '92,
al momento dell'uscita dalla lira dallo SME europeo. Per Garbero il nostro
Paese ha bisogno anche di "vincoli esterni" (vedi i parametri di Maastricht):
"Solo davanti a grandi (ed evidenti) difficoltà si riescono ad esprimere
scelte positive per la collettività".
Fra l'altro, la soluzione della
crisi del '92 condusse ad una politica di concertazione fra le parti sociali,
e all'inizio di un processo di risanamento. Dopo l'entrata nella moneta
unica - il passaggio dalla lira all'euro - si è entrati in un nuovo
contesto macroeconomico, che trascende i confini nazionali. La politica
monetaria dei partners europei è ormai decisa a Bruxelles, ed è
condizionata notevolmente dal "Patto di stabilità". Sono così
scomparsi alcuni strumenti di stabilizzazione, quali ad esempio la svalutazione
di una singola moneta.
Per quanto concerne il nostro Paese,
i principali problemi irrisolti - anche dai governi di centrosinistra -
riguardano, com’è noto, il persistere di un'ampia fetta di disoccupazione
nel Sud d'Italia, e il debito pubblico, la cui evoluzione è ormai
sottoposta alle regole del "patto di stabilità" europeo. L'analisi
che il centro destra ha offerto del declino industriale italiano, al momento
del cambio politico coinciso con le elezioni del 2001, puntava sull'eccessivo
peso delle imposte e dei vari vincoli legislativi. Di conseguenza detassazione
e deregulation erano proposti quali rimedi opportuni, contestualmente ad
una maggiore flessibilità nel lavoro e ad un ridotto spazio del
settore pubblico (la privatizzazione) Anche le regole europee sono, talvolta,
considerate in Italia un ostacolo alle libertà d'impresa. "Per quanto
è dato osservare finora - osserva Garbero -, i rimedi non sono stati
efficaci: si è giunti, al contrario, alla più lunga e grave
stagnazione economica che si ricordi dal dopoguerra. A fronte di una perdita
costante e crescente di quote di mercato, non sono migliorati i conti pubblici".
E le misure recenti sembrano essere improntate più al criterio dell'una
tantum (basti pensare ai condoni) che a interventi davvero strutturali.
UN SISTEMA PRODUTTIVO CHE PERDE
PEZZI
Per il sociologo Luciano Gallino
il declino industriale si esprime nella scomparsa di interi settori produttivi:
dalla chimica all'aeronautica civile, dall’informatica all'elettronica
di più diffuso consumo (HiFi, televisori, videoregistratori, Dvd).
Imprese di eccellenza nel settore elettronico-meccanico, quali ad esempio
l'Ansaldo, sono praticamente scomparse. Ed anche il settore dell'auto ha
visto un progressivo affermarsi delle industrie franco-tedesche, su quella
italiana (la Fiat, l'unica rimasta!).
Per Gallino, troppo in fretta e
troppo sbrigativamente si è considerata l'industria manifatturiera
superata, e senza futuro. E si sconta la mancanza di una seria politica
economica che individui i settori da promuovere e da sostenere - si pensi
al settore della produzione di utensili, ancora trainante - rispetto
a quelli da dismettere. “Il rilancio non può essere affidato soltanto
alle misure sui rapporti di lavoro invocate dalla Confindustria (flessibilità,
riforma delle pensioni, diminuzione dei contributi delle aziende) - ha
affermato Gallino -. Sono queste le vere priorità?”.
Per Ettore Morezzi, una vita spesa
nel mondo industriale come dirigente e manager, il discorso va ulteriormente
allargato, perché “...non si può considerare il sistema industriale
se non all'interno di un sistema complessivo, dove altri soggetti (la finanza,
la formazione scolastica ed universitaria, i servizi…) giocano una parte
molto importante”. Circa le piccole aziende, asse portante dell’economia
italiana, la riconosciuta efficienza non può farne dimenticare i
limiti. Il principale è che, abitualmente, il piccolo imprenditore
non innova né pianifica a medio termine perché "non ha tempo
di pensare". E così, in un sistema sempre più polverizzato,
il risultato è che si sconta ancor più pesantemente il "distacco
fra ricerca ed applicazione operativa, a livello industriale, così
come l'assenza di una politica industriale che si incarichi di provvedere
al "mercato della conoscenza e delle competenze”. Se, da un lato, per Morezzi,
occorre abbandonare la "stupido pregiudizio intellettuale, per cui è
bello restare piccoli", occorre altresì denunciare i limiti di un
sistema ancora a bassissima produttività, dove persistono le lobbies
e il "favoritismo delle relazioni", dove il legame fra università
ed industrie è ancora carente; dove manca la capacità di
rischiare (ma "non c'è industria senza rischio", osserva Morezzi).
QUALCHE PROPOSTA PER LO SVILUPPO
DEL SISTEMA PRODUTTIVO IN ITALIA
A partire di qui Morezzi avanza
alcune proposte.
In primo luogo, si tratta di aiutare
le aziende a realizzare "un sistema di sostegno" che non risponda
solo a finalità speculative. A fronte di un il sistema finanziario
che è per sua natura interessato primariamente a fare cassa sull'immediato,
occorre invece, per dirla con uno slogan, "investire per far crescere".
Occorre, poi, puntare a tutte le forme possibili di "incrocio delle
conoscenze". In questo campo l'apporto del pubblico è determinante.
A questo si aggiunge che "occorre rompere la catena di interessi politici
nei confronti dell'edilizia", rispetto ad altre forme di produzione, perché
“pensare che il rilancio della politica industriale dipenda dalle grandi
opere pubbliche può essere fonte di una grande illusione”.
Infine Morezzi auspica la stipula
di "alleanze con formule a-perte" fra forze produttive, avvicinando e mettendo
in collegamento esperienze diverse, raccogliendo e concentrando le conoscenze
tecniche disponibili, favorendo qualche colpo d'ala da parte della fantasia
imprenditrice. Nella convinzione che, nonostante tutto, “l’azienda-Italia
ha molte più risorse di quanto crediamo”.
d.p.a.
Quando la ricerca è sostenuta
solo a parole: il caso-Rtm
VICO CANAVESE - La ricerca
come elemento prioritario per l'innovazione e lo sviluppo tecnologico è
argomento sempre più frequentemente oggetto di dibattito a livello
politico: articoli sulla necessità di integrazione e stretta collaborazione
tra le imprese e i centri di ricerca compaiono quasi ogni giorno sui giornali
di qualsiasi tipo e orientamento. Tuttavia, alle molte parole sull'argomento,
non sempre seguono azioni coerenti. Si giunge in tal modo a situazioni
come quella della Rtm, centro di ricerca operante tra oltre 37 anni in
Canavese e leader nella tecnologia laser.
L'attività di ricerca, che
dalla sua fondazione ha caratterizzato l'Istituto è orientata alle
applicazioni industriali del laser e sfocia nella realizzazione di sistemi
innovativi di produzione, che varie aziende nazionali e straniere commissionano
a Rtm. La quale rappresenta inoltre un punto di riferimento per le aziende
del territorio che possono usufruire dei suoi diversi laboratori (compatibilità
elettromagnetica, acustica, metallurgia, simulazione di processi e calcolo
strutturale) per testare la corrispondenza dei loro prodotti alle severe
norme europee.
Nonostante tale patrimonio di competenze
e professionalità, Rtm si trova a vivere un periodo di estrema difficoltà
e, per la prima volta nella propria storia, ha dovuto far ricorso alla
cassa integrazione ordinaria, richiesta per 40 dei circa 60 dipendenti,
la maggior parte dei quali tecnici, laureati e personale esperto. Secondo
i vertici dell'azienda, la situazione che si è creata è imputabile
in massima parte alla mancanza di finanziamenti pubblici, che sono stati
dirottati verso le regioni del sud. E se ciò, ci si augura, consentirà
a queste regioni di raggiungere lo stesso livello tecnologico del nord
Italia, al momento appare una penalizzazione per il nostro territorio,
che già si trova a vivere un momento di particolare difficoltà
legato alla crisi della grande industria, crisi che si sta ripercuotendo
su tutto il settore metalmeccanico.
La Rtm (nel cui azionariato figurano
Finmeccanica e Olivetti per circa il 30% ciascuno, e vari azionisti pubblici
e privati, tra i quali la Provincia di Torino con circa il 20%) rappresenta
una ricchezza per il territorio, non solo perché dà occupazione
a oltre 60 dipendenti, ma in quanto rappresenta una delle poche realtà
che da sempre si occupano di ricerca applicata e della sua diffusione all'industria.
La situazione di crisi ha indotto le organizzazioni sindacali a indire
una prima assemblea aperta a metà ottobre presso la sede di Vico
Canavese alla quale, oltre ai dipendenti e ai vertici aziendali, hanno
preso parte politici ed enti locali. L'affollata riunione si è conclusa
con la richiesta al sindaco di Ivrea di utilizzare il Tavolo di concertazione
del Patto Territoriale per analizzare la situazione e le prospettive di
Rtm. La riunione del Tavolo di concertazione, convocata il 22 ottobre,
ha visto un'intensa partecipazione di politici locali, sindaci, imprenditori,
rappresentanti di Provincia e Regione, dell'Associazione Industriale, del
Distretto Tecnologico, delle organizzazioni sindacali. L'analisi della
situazione dell'azienda ha indotto a richiedere, al più presto,
un intervento degli azionisti, in parte assenti. Particolari preoccupazioni
desta in particolar modo il comportamento di Olivetti, oggi controllata
da Telecom, vale a dire una società le cui principali attività
poco hanno a che fare con quelle di Rtm.
Indubbiamente la chiusura di un
centro di ricerca di questo tipo non è riducibile alla pur drammatica
perdita di lavoro per 60 famiglie, ma rappresenta la perdita di conoscenze
e professionalità di elevato livello. Il timore è di dover
assistere a un ulteriore impoverimento del nostro territorio, con la fuga
di tecnici e personale esperto verso altre realtà o, addirittura,
al trasferimento dell'intera struttura in altre regioni, quali la Campania
(dove già esiste una sede della Rtm con una decina di dipendenti).
La disponibilità di finanziamenti al Sud non è infatti sufficiente
a provocare la tanto auspicata innovazione tecnologica, indispensabile
per mantenere un elevato livello di competitività in un mercato
sempre più frenetico, se non si può basare su personale competente
e tecnicamente preparato. Di questo le regioni del meridione sono consapevoli
e, di conseguenza, stanno attuando un vero e proprio "corteggiamento" per
attrarre sul loro territorio centri di ricerca come Rtm.
m.v.