(Agrigento 1867- Roma 1936)
“Io dunque son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco, denominato, in forma dialettale, Càvusu” (Frammento d’autobiografia, 1893) Pirandello viene a contatto durante l’infanzia con il sostrato magico e animistico del contado girgentano, in cui si mescolano riti e miti di origine araba e greca, che gli forniranno più di una ispirazione letteraria. Inizia gli studi universitari a Roma, dove osserva una società corrotta e stanca, popolata dalla piccola burocrazia impiegatizia che sarà protagonista di tante novelle di ambientazione cittadina. Prosegue gli studi a Bonn, dove si laurea nel 1891. Si stabilisce a Roma, compone le prime novelle e il primo romanzo. Qui vive con la moglie Antonietta, sposata nel 1894 e con i figli che gli nasceranno Stefano, Lietta Fausto. In questi anni Pirandello lavora alacremente al suo secondo romanzo, collabora con riviste e giornali, compone novelle e i primi atti unici per il teatro, insegna Linguistica alla facoltà di Magistero. Nel 1903 arriva dalla Sicilia la notizia del fallimento dell’impresa di zolfo dei Pirandello: improvvisamente privato della rendita paterna, privo di mezzi sufficienti a sostentare la famiglia, travolto dalla grave crisi nervosa della moglie Antonietta che precipiterà progressivamente verso la più cupa follia, Pirandello medita il suicidio. Cominciano anni durissimi, di lavoro incessante e non più disinteressato: “Avevo la novellina, intitolata La buon’anima, e invece che al “Marzocco”, l’ho mandata alla “Riviera ligure”. [...] per venticinque lire l’ho mandata a un altro giornale!” (lettera a A. Orvieto). Nel 1904 pubblica il romanzo Il Fu Mattia Pascal ed è subito successo internazionale; lavora alacremente agli altri romanzi e ai saggi tra i quali L’umorismo (1908), vero manifesto di poetica. Pirandello conduce una vita ritirata, compresso dalle sventure familiari e dagli impegni di lavoro, ma anche volutamente lontano dal dibattito culturale a lui contemporaneo e dalle avanguardie. Dal 1910 intensifica l’attività teatrale. Riceve con le prime commedie un buon successo, continua la produzione di novelle e romanzi. Nel 1915 il figlio Stefano parte volontario per la guerra, è subito fatto prigioniero in Germania dove rimarrà in precarie condizioni di salute per tre anni, durante i quali il padre soffrirà moltissimo di questa lontananza resa più acuta dalla decisione lungamente sofferta, ma resasi necessaria per l’aggravarsi di un clima familiare insopportabile, di ricoverare la moglie in una casa di cura. Dal 1916 comincia la luminosa stagione del teatro grottesco, con importanti riconoscimenti di critica e pubblico. Nel 1921 ha inizio la fase più importante del suo teatro con la messa in scena di Sei personaggi in cerca d’autore e a seguire Ciascuno a suo modo, Enrico IV, Questa sera si recita a soggetto. Pirandello trascina il teatro italiano, col suo repertorio romantico-naturalistico e borghese, fuori del provincialismo ottocentesco e lo apre alle nuove esperienze drammaturgiche e registiche europee. Il successo dell’autore siciliano diviene planetario. Pirandello è ovunque reclamato a gran voce. Mentre nei teatri di tutto il mondo si rappresentano le sue commedie, vive il dramma della lontananza della figlia Lietta sposatasi e trasferitasi in Cile, a cui è morbosamente legato. Nel 1922 chiede un anno sabatico o il collocamento a riposo, stremato dagli impegni accademici che si sommano al suo crescente impegno in teatro: il ministro Gentile lo colloca a riposo. Sono gli anni dell’adesione al fascismo, originata probabilmente dalla delusione post risorgimentale; la sua arte, tuttavia, resta violentemente anticonformista e lontanissima dalle parole d’ordine del regime e dal dannunzianesimo. Del resto Mussolini lo tratterà sempre con un misto di diffidenza e fastidio: nel 1933 la Germania nazista definirà la sua opera antiborghese “ arte degenerata”. Nel 1924 Pirandello assume la direzione artistica del Teatro d’Arte, la cui compagnia in tre anni allestirà in Europa oltre 50 spettacoli, riflette sul ruolo degli attori, del testo, del regista alla luce delle più innovative esperienze europee da Antoine a Pitoeff a Stanislavskij; con Pirandello si assiste anche in Italia al passaggio dal capocomico al regista. Nello stesso anno inaugura il Teatro d’Arte con l’atto unico La sagra del signore della nave. Comincia il sodalizio umano e artistico con Marta Abba: più giovane di lui di 33 anni, diviene la sua musa ispiratrice, per la quale, data la scandalosa differenza di età e la condizione matrimoniale dell’artista, nutrirà fino alla fine un amore casto e assoluto. I rapporti con i figli, in particolare con Lietta sono compromessi dal ruolo che Marta assume per Pirandello: Lietta è gelosa, il padre sembra non più disposto ad annullarsi. Subentrano discussioni tra i figli per la gestione del patrimonio del padre che nel frattempo impoverisce, mancando alla Compagnia i finanziamenti promessi dal regime e mai arrivati. Dopo decenni di lavoro votato al sostentamento dei figli, l’uomo sembra guardare la realtà con occhi diversi: Io non ho avuto altro da loro che amarezze senza fine, e ancora non mi lasciano in pace. (lettera a Marta Abba) Nel 1925, dopo quindici anni di gestazione, pubblica il romanzo-testamento Uno, nessuno centomila, l’ultimo aceto della mia botte. Contemporaneamente ha inizio l’ultimo tempo della drammaturgia pirandelliana, con opere costruite intorno alla figura della Abba, di forte tensione mitica e simbolica. Nel 1928 la Compagnia, oberata dalle difficoltà economiche e isolata nell’asfittico panorama teatrale italiano, viene sciolta. Per Pirandello è un’amara delusione. Decide di lasciare l’Italia e si reca a Berlino dove si accosta alle esperienze di Piscator e Reinhardt; a quest’ultimo, che aveva memorabilmente rappresentato Sei personaggi, dedica il terzo dramma della trilogia, proprio incentrato sul ruolo nuovo del regista europeo. Intanto si consuma il distacco dalla Abba che getta Pirandello nella più cupa disperazione. Comincia un periodo errabondo, in cui fatica a stabilirsi a lungo in un luogo; vaga solo per l’Europa, viaggiando continuamente in uno stato di depressione e sfiducia. Rientrerà in Italia alla fine del 1931, continuando sempre a viaggiare, mentre si aggrava la sua salute. Continuano le incomprensioni con il regime fascista, poco interessato a promuovere il teatro rispetto a forme più popolari di intrattenimento come il calcio o il cinematografo, e anche con gli ambienti cattolici che gli rimproverano il suo incoercibile ateismo demistificatore, ostile negli ultimi drammi sia al trono che all’altare. Nel 1934 gli viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura. Mentre la sua fama mondiale tocca il culmine, in Italia la notizia viene accolta con malcelato fastidio e qualche gelosia. Un improvviso malore gli causa una grave complicazione polmonare il 10 dicembre del 1936.
“ MIE ULTIME VOLONTÀ DA RISPETTARE ”
I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera, non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzii né partecipazioni. II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. IV. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui. L’umorismo
“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.”
PIRANDELLO
Associazione Raabe
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