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Bernardo Provenzano (1933 – arrestato 11-4-2005)
Nato
il 31 gennaio 1933 a Corleone, da sempre "Binnu 'u tratturi" è uno dei capi
più misteriosi di Cosa Nostra, per la mancanza di notizie certe sul suo
conto. Non è un caso se, pur essendo attualmente in cima alla lista dei
grandi latitanti, per molto tempo venne invece dato vittima della lupara
bianca. Insieme all'amico
Totò Riina,
iniziò la carriera criminale nella banda di
Luciano Liggio,
che espresse nei suoi riguardi un famoso e lapidario commento: " Provenzano
spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina ". Fu uno
dei protagonisti indiscussi della guerra alle cosche palermitane negli anni
Ottanta. Al suo attivo tre ergastoli e altri procedimenti in corso e una
latitanza di oltre trent'anni. Per molto tempo è stato considerato solo
un killer senza scrupoli, ma nel corso degli anni gli investigatori hanno
individuato in lui una delle menti
organizzatrici del
riciclaggio del denaro sporco. Alcuni collaboratori infatti hanno affermato
che Provenzano
è il boss che controlla gli appalti e tiene i contatti
con il mondo politico. Alla fine del 1992, la sua famiglia tornò a vivere a
Corleone. Ipotesi investigative hanno accreditato Provenzano ed
Aglieri
come i garanti della pax mafiosa tra le cosche palermitane e i
corleonesi.
Leoluca Bagarella (1942 - in carcere dal 24/6/1995)
Luchino,
fratello di Antonietta, la moglie di
Salvatore Riina,
nacque il 3 febbraio del 1942 a Palermo. A partire dagli anni Sessanta, fu
un esponente di primo piano dei corleonesi e uno tra i killer più
spietati. I legami con i clan della camorra napoletana, per
l'organizzazione del traffico di tabacchi e stupefacenti, gli costarono le
prime incriminazioni. Nel 1969 il fratello Calogero rimase ucciso nella
strage di viale Lazio. Sul finire degli anni Settanta il commissario Boris
Giuliano lo braccò per tutta Palermo, sequestrando, a Punta Raisi, una
valigia con il pagamento in dollari di una partita di droga e infine
scoprendo il suo covo. Era troppo per Bagarella che lo uccise a sangue
freddo in un bar palermitano, la mattina del 21 luglio 1979.
Nel settembre dello stesso anno venne arrestato e rinchiuso all'Ucciardone,
dove rimase per quattro anni. Nel 1986, alla vigilia del maxiprocesso, fu
tratto in manette su disposizione del giudice Falcone e rimase in carcere
fino al dicembre del 1990. Latitante di nuovo dal 1992, dopo l'arresto di
Riina, divenne uno dei più im-
portanti boss di Cosa Nostra, dopo uno scontro con il clan Aglieri, dal quale uscì vincente. La sua latitanza ebbe termine il 24 giugno 1995, quando venne arrestato dalla DIA. Oltre alle contestazioni relative agli omicidi di numerosi rappresentanti delle istituzioni, avvenute nel corso degli ultimi decenni, Bagarella è anche accusato di essere tra i registi occulti delle stragi del 1993.
Pietro Aglieri (1959 - in carcere dal 6/6/1997)
E'
nato il 6 giugno del 1959 nel rione della Guadagna, a Palermo. Da sempre è
conosciuto con il soprannome di " ' u signurinu ", a motivo della ostentata
ricercatezza nell'abbigliamento. Dopo aver studiato presso il seminario
arcivescovile di Monreale e aver prestato il servizio militare come
paracadutista nella brigata Folgore, si fece strada all'interno
dell'organizzazione, guadagnando prestigio e rispetto nel corso della
seconda guerra di mafia. Con l'avvento dei corleonesi al potere, divenne
il nuovo capomandamento di Santa Maria di Gesù e un influente membro della
Cupola.
Nel 1995 il giornale britannico The Guardian lo indicò, provocatoriamente,
come l'italiano più conosciuto al mondo. In questi ultimi anni Pietro
Aglieri ha occupato i posti di vertice dell'organizzazione e ha stretto un
patto di alleanza con
Bernardo Provenzano
per la ricostruzione di Cosa Nostra, indebolita dall'arresto dei capi
storici della fazione corleonese e dal proliferare dei pentiti (collaboranti
di giustizia). E' stato arrestato, dopo otto anni di latitanza, alla
periferia di Bagheria, a Palermo, il 6/6/1997.
Subito dopo la cattura, suscitò scalpore il ritrovamento nel suo covo di una piccola cappella votiva e di numerosi testi sacri e filosofici: l'atteggiamento remissivo e vagamente mistico alimentarono le voci di un possibile pentimento ma il caso si sgonfiò dopo pochi giorni. Già condannato all’ergastolo per l'omicidio del giudice della Corte di cassazione Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), è imputato nel processo per l'omicidio del parlamentare europeo democristiano Salvo Lima e in quelli per le stragi di Capaci e via D'Amelio.
Giovanni Brusca (1957 - in carcere dal 20/5/1996)
Nato a Palermo il 20 maggio del 1957, "u verru", vale a dire il maiale,
seguì fin da giovane le orme paterne, intraprendendo la carriera mafiosa e
diventando un killer feroce e responsabile di diverse decine di omicidi.
Dopo alcuni anni di carcere, nel 1991 riprese in mano le redini della
famiglia di San Giuseppe Jato, temporaneamente affidata a Balduccio Di
Maggio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato un
protagonista indiscusso dell'ultima stagione di sangue inaugurata da Cosa
Nostra con l'omicidio di Lima. E' ormai tristemente noto come il boia di
"Capaci", vale a dire l'uomo che azionò il telecomando che fece esplodere
l'autostrada lungo la quale transitavano in auto il giudice
Giovanni Falcone,
la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Dopo l'arresto di
Riina e
Bagarella prese
il comando dell'ala militare dei corleonesi, in accordo con
Bernardo Provenzano.
Fu arrestato il 20 maggio 1996 a Cannitello, in provincia di Agrigento, in
compagnia del fratello Vincenzo.
Dopo una fase iniziale in cui tentò di depistare gli inquirenti, a partire dalla seconda metà del 1997, sembra che abbia iniziato a rilasciare interessanti dichiarazioni. Già condannato all'ergastolo per l'uccisione di Ignazio Salvo, è attualmente imputato nei processi per la strage di Capaci, per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma e per l'omicidio di Giuseppe, il figlio undicenne di Santino Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido dopo una prigionia di due anni al fine di convincere il padre a ritrattare.
Benedetto (Nitto) Santapaola (1938 - in carcere dal 18/5/1993)
Benedetto "Nitto" Santapaola nacque il 4 giugno del 1938 in una famiglia di
modeste condizioni sociali, residente nel degradato quartiere San Cristofaro
di Catania. Da ragazzo studiò dai salesiani e frequentò l'oratorio, ma
abbandonò presto la scuola e, attratto dai facili guadagni, realizzò le
prime rapine. Venditore ambulante di scarpe e articoli da cucina prima,
titolare di una concessionaria di auto poi, in realtà Santapaola,
soprannominato "il cacciatore", fu uno dei capi mafia più potenti e
sanguinari della Sicilia orientale.
La sua fedina penale iniziò a riempirsi nel 1962 con una denuncia per furto
e associazione per delinquere. Dopo essere stato diffidato dalla questura di
Catania nel 1968 e inviato al soggiorno obbligato dopo due anni, nel 1975 fu
invece denunciato per contrabbando di sigarette. Nel 1980 fu fermato durante
le indagini sull'omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ma
l'accusa non fu provata e anche la successiva proposta di soggiorno
obbligato non fu accolta. Del tutto indisturbato, Santapaola portò così a
termine la scalata ai vertici di Cosa Nostra, eliminando prima Giuseppe
Calderone, il capo mafia più influente di Catania (8 settembre 1978) e poi
commissionando ai corleonesi la cosiddetta "strage della circonvallazione" a
Palermo,
quando il rivale Alfio Ferlito fu ucciso insieme ai carabinieri che
lo stavano scortando in carcere (16 giugno1982). Furono questi i due episodi
più sanguinosi che contraddistinsero la feroce guerra per il predominio a
Catania e nella Sicilia orientale.
L'ascesa del "cacciatore" fu senza dubbio agevolata dal patto di ferro
stretto con
Totò Riina. Per
ricambiare il favore ricevuto con l'omicidio Ferlito, Santapaola
organizzò l'uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo.
Condannato all'ergastolo per la strage della circonvallazione, per quella di
via Carini, invece, Santapaola fu riconosciuto colpevole in primo grado ma
assolto in appello; successivamente la Corte di cassazione decise di far
ripetere il processo. Nel 1982 si diede alla latitanza, pur essendo malato
di diabete e affetto da strani disturbi riconducibili ad una rara forma di
licantropia, tanto da essere chiamato "il licantropo" perfino dai suoi due
figli, traditi da una intercettazione telefonica, avvenuta poco prima della
sua cattura. Dopo undici anni di latitanza, fu catturato all'alba del 18
maggio 1993 in una masseria di Mazzarone, nelle campagne tra Catania e
Ragusa, al termine dell'operazione denominata in codice "Luna Piena". I
collaboratori di giustizia, primo fra tutti
Antonino Calderone,
fratello di Giuseppe, rivelarono le commistioni tra "il cacciatore" e il
"comitato d'affari "composto da politici, imprenditori e anche magistrati
corrotti che controllò Catania negli anni Ottanta: Santapaola fu, infatti,
in stretti rapporti con i "cavalieri del lavoro" catanesi, messi sotto
accusa dal giornalista Giuseppe Fava che pagò con la vita le sue coraggiose
denuncie. Ormai in carcere, Santapaola subì un doloroso sfregio: il boss
rivale Giuseppe Ferone, divenuto un collaboratore di giustizia, approfittò
del regime di semilibertà e gli uccise la moglie Carmela Minniti (1
settembre 1995). Il 26 settembre 1997, la Corte d'assise di Caltanissetta lo
ho condannato di nuovo all'ergastolo: questa volta per la strage di
Capaci.
Michele Greco (1924 - in carcere dal 20/2/1986)
Nacque a Palermo il 12 maggio del 1924 il potente boss che fu soprannominato il papa, per la sua riconosciuta abilità nel mediare le dispute tra le diverse famiglie. Dopo la morte del padre Giuseppe, detto " Piddu u tinenti", diresse a lungo il mandamento di Croceverde - Giardini. Potente gabellotto fin da giovane, poi divenuto proprietario terriero grazie a minacce ed estorsioni, amava frequentare i salotti della Palermo bene. La Favarella, la sua tenuta di Ciaculli, del resto era visitata da politici, banchieri, professionisti e aristocratici decaduti che vi si recavano per una battuta di caccia o per un banchetto. Nella stessa tenuta erano stati ricavati alcuni rifugi sicuri per i latitanti mafiosi e anche una raffineria di eroina. Il nome del "papa" venne associato a Cosa Nostra per la prima volta dal cosiddetto rapporto dei 162, elaborato nel 1982 da Ninni Cassarà e poi divenuto atto fondamentale per la costruzione del primo maxiprocesso. Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l'espulsione di Badalamenti, non ostacolò l'avanzata dei corleonesi, dei quali divenne anzi alleato. Mandante, insieme con il fratello Salvatore, dell'omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici, terminò la sua latitanza il 20 febbraio 1986. Nel marzo del 1991, nella attesa dell'appello del maxiprocesso, Greco ed altri imputati furono scarcerati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva da un discutibile provvedimento della Corte di cassazione. Un decreto del governo, ispirato da Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari penali del ministero di grazia e giustizia, ripristinò la detenzione per i boss scarcerati, tra cui anche il vecchio papa.
Luciano Liggio (o Leggio) (1925 - 1993)
Lucianeddu, detto anche la primula rossa, nacque a Corleone il 6 gennaio 1925. Ancora giovane campiere, prese il posto del vecchio capo mafia Michele Navarra e guidò i corleonesi all'assalto della città di Palermo, in aperta sfida al predominio delle altre famiglie di Cosa Nostra. Oltre alla conquista dei mercati illegali, si arricchì con lo sfruttamento delle opere di edilizia urbana, pubblica e privata, facendo leva sul rapporto preferenziale con il politico Vito Ciancimino, assessore e sindaco di Palermo in quegli anni del sacco della città. Non esitò mai ad eliminare i tanti ostacoli che gli si pararono dinanzi, dal sindacalista Placido Rizzotto, scomparso il 10 marzo del 1948, al capo mafia di Corleone Michele Navarra, ucciso il 2 agosto 1958. Fu arrestato la prima volta il 14 maggio del 1964. Assolto per insufficienza di prove prima a Catanzaro nel 1968 e poi a Bari il 10 giugno del 1969, uccise il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione il 5 maggio del 1971. Durante un lungo periodo di latitanza al Nord, portò a termine con i suoi uomini numerosi sequestri di persona, tra cui quelli di Luigi Rossi di Montelera, Paul Getty III, Giovanni Bulgari, Egidio Perfetti. Fu infine arrestato a Milano il 16 maggio 1974 e finì in carcere: da quel momento non tornò mai più in libertà. Colpito da infarto, morì il 15 novembre 1993 nel carcere di Badu e Carros, in Sardegna.
Giuseppe (Pippo) Calò (1921 - in carcere dal 30/3/1985)
Soprannominato "la salamandra" per la capacità di uscire indenne
dalle situazioni più scottanti, proprio come l'anfibio, il boss mafioso
Giuseppe Calò, nacque a Palermo il 30 settembre 1921, figlio di un macellaio
e barista. Inizialmente, il giovane si cimentò nelle medesime professioni
del genitore, fino a quando, non ancora diciottenne, si distinse per aver
inseguito e ferito a colpi di pistola l'assassino dello stesso padre. Dopo
un brillante apprendistato come "soldato", nel 1969 coronò la carriera
all'interno dell'organizzazione, divenendo il capo del potente mandamento
di Porta Nuova. All'inizio degli anni Settanta, si trasferì a Roma dove,
sotto la finta identità di Mario Agliarolo, antiquario di professione, fece
numerosi investimenti nel settore edilizio e riciclò, per conto delle
cosche, una così gran quantità di denaro da guadagnarsi, in poco tempo,
l'appellativo di "cassiere di Cosa Nostra".
Passato nello schieramento vincente dei Corleonesi, nel corso degli
stessi anni, strinse legami strategici con il mondo dei servizi segreti e
della politica. In numerose situazioni, non esitò neppure a servirsi della
cosiddetta "Banda della Magliana", una banda di delinquenti comuni con base
operativa nella capitale che, una volta entrati in contatto con la mafia e i
servizi, seppero diversificare le proprie attività criminali, finendo
implicati in alcuni dei più importanti misteri italiani. Diversi
collaboratori di giustizia parlarono di un coinvolgimento della "salamandra"
nella vicenda Moro: durante una riunione della Commissione, infatti, egli
avrebbe bloccato il tentativo di salvare lo statista democristiano che
Stefano Bontate
voleva compiere, dichiarando che a volerne la morte erano esponenti
influenti della stessa Democrazia Cristiana. Calò fu anche tra gli
organizzatori dell'attentato al rapido 904, il treno che esplose la notte
del 23 dicembre 1984, provocando la morte di quindici passeggeri e il
ferimento di altri duecento. Il convoglio saltò in aria nei pressi di San
Benedetto Val di Sambro (BO), nella stessa galleria in cui dieci anni prima
vi era stato l'attentato al treno "Italicus" (12 morti e 105 feriti).
Il cassiere di Cosa Nostra fu arrestato il 30 marzo 1985, in una villa a
Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti: nel suo covo fu ritrovato un
vero arsenale da guerra. Il 25 febbraio 1989 fu condannato all'ergastolo
unitamente ad altri quattro imputati: nel corso delle indagini emersero i
collegamenti tra lo stesso Calò ed ambienti della destra eversiva. La
sentenza fu confermata in appello (15 marzo 1990). A questa condanna si
aggiunsero poi altri due ergastoli, uno per l'omicidio del commissario Boris
Giuliano e l'altro per l'eccidio di via Carini, in cui perse la vita il
prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nel settembre del 1993
chiese di essere interrogato dai magistrati che indagavano sugli attentati
alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a
Roma, ma non fornì contributi rilevanti. Agli inizi del 1997, finirono in
manette il costruttore palermitano Luigi Faldetta e Vincenzo e Giuseppe
Bellino, uomini della famiglia di Porta Nuova: i tre furono accusati di
essere i prestanome del boss palermitano per l'attività di riciclaggio. Il
26 settembre Calò fu condannato nuovamente all'ergastolo per la strage di
Capaci. Alla fine dell'ottobre dello stesso anno, il "Corriere della Sera"
pubblicò la clamorosa notizia della sua collaborazione con gli inquirenti:
tuttavia la circostanza fu subito smentita.
Gaspare Mutolo (1940 - collaboratore di giustizia)
Nato
a Palermo il 5 febbraio 1940, Gaspare Mutolo, detto "Asparino" crebbe tra i
vicoli di Pallavicino e le borgate di Mondello e Partanna. Abbandonata la
scuola, iniziò a lavorare come meccanico in un'officina e quasi
contemporaneamente si dedicò ai primi furti di macchine. Fin da giovane
venne a contatto con la realtà mafiosa, dal momento che alcuni suoi
familiari erano membri effettivi dell'organizzazione. Nel 1965 finì in
carcere per la prima volta per furto. All'Ucciardone conobbe Salvatore
Riina, allora
boss emergente della mafia della provincia: dividendo la cella con il
futuro "capo dei capi", Mutolo venne a conoscenza dei segreti di Cosa Nostra
e, su suo invito, si mise sotto l'ala protettiva di Rosario "Saro" Riccobono,
il capo della famiglia di Partanna Mondello. Dopo qualche anno di
apprendistato, Mutolo fu "combinato" da Riina nel 1973 a Napoli, durante una
riunione nell'abitazione del camorrista Lorenzo Nuvoletta. Ufficialmente
affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, divenne presto il braccio
destro di Riccobono
e uomo di fiducia di Riina per incarichi delicati.
Mutolo si fece quindi largo nell'organizzazione mafiosa, prima come killer e
poi come trafficante di droga, grazie anche al rapporto di amicizia stretto
in carcere con il trafficante Koh Bak Kin, originario di Singapore e attivo
lungo le rotte del sud est asiatico. Arrestato ancora nel 1976 e poi nel
1982, finì per alternare periodi più o meno lunghi di detenzione nelle
carceri italiane ad altri in cui fu sottoposto a provvedimenti di soggiorno
obbligato in Toscana. Durante una delle sue detenzioni, fu compagno di cella
di
Luciano Liggio;
successivamente rivelò agli inquirenti di essere lui l'autore delle tele
attribuite all'estro pittorico del vecchio padrino di Corleone. La simpatia
istintiva nutrita da Riina nei suoi confronti permise ad "Asparino" di
salvare la vita, quando, nel novembre del 1982, Riccobono e altri uomini
della cosca di Partanna Mondello furono eliminati perché ritenuti ormai del
tutto inutili per i fini egemonici perseguiti dai corleonesi. Per alcuni
anni Mutolo ebbe anche l'onore - onere di essere l'autista di fiducia e
il guardaspalle personale del nuovo capo di Cosa Nostra. Al termine del
primo maxiprocesso istruito dal pool di
Falcone e
Borsellino, fu
condannato a sedici anni di reclusione. Nel dicembre del 1991, Mutolo, ormai
rinchiuso nel carcere di Spoleto, maturò la decisione di collaborare con
la giustizia e, dopo la strage di Capaci, si rafforzò nella convinzione
di dover rompere definitivamente con Cosa Nostra. Fu per questo che, a
partire dall'estate del 1992, rese le sue dichiarazioni prima al procuratore
della repubblica di Firenze Pierluigi Vigna e poi al giudice Paolo
Borsellino, a pochi giorni dalla strage di via D'Amelio. L'insieme delle sue
deposizioni fu subito giudicato straordinariamente importante, perché frutto
delle rivelazioni ricevute direttamente da alcuni dei più influenti boss
della Commissione di Cosa Nostra. Mutolo parlò del ruolo di mediatore
tra politica e mafia svolto da Salvo Lima e confermò anche le responsabilità
di Giulio Andreotti. L'uccisione di Lima, secondo Mutolo, fu un segnale che
la mafia volle inviare al senatore a vita, a seguito della conferma
dell'impianto accusatorio del primo maxiprocesso. Destarono clamore anche le
sue rivelazioni sulle presunte collusioni con le cosche di alcuni magistrati
palermitani, tra cui Carmelo Conti, Pasquale Barreca, Domenico Mollica,
Francesco D'Antoni e Domenico Signorino, pubblico ministero al primo
maxiprocesso e morto suicida il 3 dicembre 1992, proprio a seguito della
pubblicazione sulla stampa di alcune indiscrezioni relative ad un suo
coinvolgimento nelle confessioni di Mutolo. L'ex mafioso di Partanna
Mondello fu inoltre uno dei principali testimoni di accusa a carico del
questore
Bruno Contrada,
distaccato al SISDE, dopo una carriera iniziata nella squadra mobile di
Palermo e continuata poi nelle file.
Francesco Marino Mannoia (1951 - collaboratore di giustizia in U.S.A.)
Nato a Palermo il 5 marzo 1951, soprannominato Mozzarella o anche il chimico. Suo padre era un mafioso della famiglia di Santa Maria di Gesù. Nonostante fosse tra i picciotti più fidati di Stefano Bontade, alla sua morte passò con i clan vincenti, per i quali raffinò centinaia di partite di eroina. Dopo l'uccisione del fratello Agostino, nell'ottobre 1989, iniziò la sua collaborazione con le autorità giudiziarie. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan vincenti. Nel mese di novembre dello stesso anno la mafia, per intimidirlo, uccise la madre, la sorella e la zia. Al maxiprocesso venne condannato a diciassette anni di reclusione. Attualmente vive con la sua compagna e i figli sotto la protezione dell 'FBI, in seguito alle deposizioni rese nei tribunali americani. E' tra i principali testi d'accusa contro Giulio Andreotti.
Leonardo Messina (1955 - in carcere dall'aprile 1992)
Leonardo Messina, detto "Narduzzo" nacque a San Cataldo, in provincia di
Caltanissetta il 22 settembre 1955. Cresciuto in una famiglia di modeste
condizioni e di tradizione mafiosa, Messina lasciò la scuola dopo la licenza
elementare e, ancora giovane, diede il via alla sua carriera di criminale
con alcuni furti. La prima condanna pesante la subì nel 1978, quando finì in
carcere per rapina. Dopo quattro anni di detenzione e un periodo di
soggiorno obbligato, Messina fu pronto per diventare uomo d'onore. Il 21
aprile 1982, infatti, fu regolarmente affiliato alla cosca locale. Dopo
alcuni anni trascorsi come soldato prima e capo decina poi, divenne
sottocapo della famiglia di San Cataldo. In quegli stessi anni Messina
divenne amico e uomo di fiducia di Giuseppe Madonia, detto "Piddu
chiacchiera", esponente della famiglia più importante della provincia di
Caltanissetta, quella di Vallelunga, molto legata ai corleonesi. Per
molto tempo, nonostante le incriminazioni per furto, rapina e traffico di
stupefacenti e alcuni provvedimenti di soggiorno obbligato a suo carico, fu
considerato un esponente di secondo piano della mafia del nisseno. "Narduzzo",
infatti, coprì le sue attività criminose, continuando a lavorare come
caposquadra nella miniera di sali potassici di Pasquasia. Nel giugno del
1984, però, finì ancora in carcere con l'accusa di essere il mandante
dell'omicidio di uno spacciatore e vi rimase fino al 1989; nel 1991 fu poi
definitivamente assolto. Tornato in libertà, Messina si legò sempre più a "Piddu"
Madonia, nel frattempo diventato il rappresentante provinciale di Cosa
Nostra per Caltanissetta; per suo conto organizzò e gestì una rete per il
traffico di stupefacenti con ramificazioni in altre regioni italiane.
Nell'aprile del 1992, alla vigilia di Pasqua, mentre stava per tendere un
agguato mafioso ad un altro uomo d'onore, suo rivale nella corsa alla guida
della famiglia di San Cataldo, fu catturato e finì in carcere. Temendo
ritorsioni nei confronti dei suoi familiari e, come sostiene, forse spinto
dalle parole di Rosaria, vedova dell'agente Vito Schifani, morto a Capaci,
si decise a collaborare con la giustizia. Il 30 giugno dello stesso
anno iniziò a deporre davanti al giudice Paolo Borsellino, facendo
importanti rivelazioni sulle famiglie mafiose delle province di
Caltanissetta, Enna, Palermo, Trapani ed Agrigento. Nacque così uno
spettacolare blitz delle forze dell'ordine, la cosiddetta "Operazione
Leopardo", che il 17 novembre del 1992 portò all'esecuzione di oltre
duecento ordini di cattura in tutta Italia. Messina fu il primo
collaboratore a mettere a verbale il nome di Giulio Andreotti, indicato come
referente politico principale per le necessità di Cosa Nostra e fu anche
l'unico a sostenere che il senatore a vita fosse stato "punciuto", cioè
formalmente affiliato a Cosa Nostra. "Narduzzo" parlò poi delle
responsabilità di Salvo Lima e del tentativo di aggiustamento in Cassazione
del primo maxiprocesso, il cui esito fallimentare scatenò la stagione delle
stragi nel 1992. A Messina si devono anche le prime informazioni sulla "Stidda",
l'associazione mafiosa rivale di Cosa Nostra, soprattutto nell'agrigentino e
nel nisseno e le importanti ed inquietanti rivelazioni sulla massoneria
deviata e i suoi rapporti con Cosa Nostra.
Stefano Bontate o Bontade (1938 - 1981)
Falco, noto anche come il principe di Villagrazia, nacque a Palermo il 23
aprile 1938. Ufficialmente possidente, fu invece il capo mafia della
famiglia di Santa Maria di Gesù e anche affiliato alla massoneria. Suo
padre, don Paolino, era tra i mafiosi più potenti della Sicilia e trattava
gli esponenti politici come suoi sottoposti, non esitando a schiaffeggiarli
in pubblico. I rapporti politici furono coltivati anche dal figlio che era
in affari con Salvo Lima e i cugini Salvo, gli esattori di Salemi. Dopo gli
studi presso il Liceo Gonzaga dei Gesuiti, Stefano e il fratello Giovanni
seguirono le orme del padre all'interno dell'organizzazione. Stefano finì
per la prima volta in galera con l'accusa di traffico di stupefacenti, dopo
l'omicidio del procuratore capo Pietro Scaglione, ucciso dai corleonesi.
Condannato a tre anni nel processo dei centoquattordici, fu assolto in
appello. Oltre ai notevoli proventi del traffico di droga,
davvero fruttuosa si rivelò la collaborazione con i clan napoletani nel
contrabbando di tabacchi. Sul finire degli anni Settanta la sua
influenza all'interno della mafia siciliana raggiunse l'apice. Accolse e
protesse Michele Sindona nel 1979, in occasione della sua fuga in Sicilia.
All'interno della commissione era uno degli esponenti più autorevoli,
tanto che i corleonesi decisero di eliminarlo il giorno del suo
compleanno, il 23 aprile del 1981, inaugurando così la seconda sanguinosa
guerra di mafia.
Gaetano Badalamenti (1923 - carcere in U.S.A.)
Don Tano nacque a Cinisi il 14 settembre 1923. Nel 1947 emigrò
clandestinamente negli
Stati Uniti; nel 1950 venne rimandato in Italia e fu presente alla riunione
all'Hotel des Palmes a Palermo. Grazie all'esperienza maturata in
America, propose la creazione della prima "commissione" della mafia
siciliana, che funzionò fino alla strage di Ciaculli. Dal 1971 al 1974
fu rinchiuso nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Già a metà degli anni
Settanta era considerato dall'FBI come il vero cervello del traffico di
stupefacenti che interessava le due sponde dell'Oceano Atlantico. Fece
parte, con
Riina e
Bontade, del
triumvirato che costruì Cosa Nostra e si mise a capo della commissione, per
quanto non riconosciuto dai Riva, dal 1974 fino alla sua espulsione da Cosa
Nostra avvenuta per motivi tuttora sconosciuti. Nel 1978 fece uccidere il
militante di estrema sinistra
Giuseppe Impastato
che, dai microfoni della radio locale Aut Aut, ne denunciava i traffici di
droga, organizzati grazie al controllo sull'aero-
porto di Punta Raisi a Palermo. Impastato fu ritrovato sui binari
della ferrovia, dilaniato da una bomba: ci vollero diversi anni, prima che
fosse riconosciuta l'origine mafiosa del delitto.
Spazzata via dagli avversari la maggior parte dei suoi uomini, Badalamenti
si rifugiò in Brasile, dove ebbe contatti con altri latitanti, tra cui
Buscetta. Fu
arrestato a Madrid nell'aprile 1984 ed estradato negli Stati Uniti. Qui è
attualmente detenuto per traffico di stupefacenti, dopo la condanna a
trent'anni di reclusione, avvenuta nel 1986, nell'ambito dell'inchiesta
Pizza Connection. I suoi rapporti con la politica e la sua conoscenza dei
molti segreti di Cosa Nostra sono stati al centro delle dichiarazioni di
famosi collaboratori di giustizia. Nel marzo 1995, il suo nome è tornato
alla ribalta in occasione del suicidio del maresciallo dei carabinieri
Antonino Lombardo che, stando alle indiscrezioni, ne stava organizzando il
rientro in Italia per deporre in alcuni processi di
mafia.
Tommaso Buscetta (1928 - 2000)
Il più famoso collaboratore di giustizia, l'ex boss dei due mondi,
nacque a Palermo il 13 luglio 1928, ultimo di diciassette figli. Dopo aver
lavorato nella vetreria del padre, a soli 20 anni entrò nella famiglia
mafiosa di Porta Nuova. Nel 1956 il primo arresto con l'accusa di
contrabbandare sigarette. Allo scoppiare della prima guerra di mafia,
Buscetta fuggì in Messico; nello stesso anno venne spiccato nei suoi
confronti un mandato di cattura per associazione a delinquere e omicidio
plurimo. La sua carriera criminale si svolse tra l'Europa e il Sud America,
soprattutto nel contrabbando di tabacchi e droga. Processato in contumacia a
Catanzaro, fu arrestato nel 1970 negli Stati Uniti e nel 1971 si trasferì in
Brasile. Nello stesso anno la Commissione antimafia lo inserì nella lista
dei dieci mafiosi più pericolosi. Nel 1977 fu estradato dal Brasile e dopo
il carcere scontato all'Ucciardone e alle Nuove di Torino, grazie al regime
di semilibertà, diventò di nuovo un latitante.
All'inizio degli anni Ottanta fece ritorno in Italia per cercare di trovare una composizione della vertenza tra le vecchie famiglie palermitane e i rampanti corleonesi. Non riuscì nel suo scopo e tornò in Brasile, dove fu arrestato nel 1983 ed estradato in Italia l'anno successivo. Iniziò a collaborare con Falcone, che emise in base alle sue rivelazioni ben 366 mandati di cattura. Fu Buscetta a svelare per primo e in maniera compiuta al giudice i segreti di Cosa Nostra, offrendo le necessarie chiavi di lettura per interpretare l'organizzazione, gli organigrammi, le attività e gli appoggi dell'associazione mafiosa. Al primo maxiprocesso venne condannato a tre anni e tre mesi. Dopo la strage di Capaci, a partire dall'aprile 1993, ha rilasciato nuove dichiarazioni sui rapporti tra mafia e politica e sui delitti Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa. E' morto il 2 aprile 2000 nella sua casa di New York dopo una malattia durata circa due anni, è rimasto cosciente fino alla fine.
Salvatore (Totuccio) Contorno (1946 - collaboratore di giustizia)
Detto
anche Coriolano della Floresta, nacque a Palermo il 28 maggio 1946 e fu
iniziato a Cosa Nostra nel 1975, entrando a fare parte della famiglia di
Santa Maria di Gesù. Di professione macellaio, si occupò di contrabbando di
sigarette e poi di droga, con i cugini Grado. Negli anni Settanta fu mandato
in soggiorno obbligato in provincia di Verona. Dopo una condanna a ventisei
anni in contumacia per il sequestro di un industriale, visse la latitanza a
Palermo. Fedelissimo di
Stefano Bontate,
il 25 luglio 1981 scampò ad uno spettacolare attentato tesogli dai clan
rivali a Brancaccio. Divenne un informatore di Ninni Cassarà che lo
chiamava, in codice, Prima Luce. Fu arrestato il 23 marzo del 1982 a Roma,
mentre studiava il piano per uccidere
Pippo Calò e
vendicare così i suoi molti parenti uccisi dai corleonesi e dai loro
alleati.
Nell'ottobre del 1984 cominciò a collaborare con i giudici,
completando le dichiarazioni rese da
Buscetta. Nel
1987, alla conclusione del maxiprocesso, fu condannato a sei anni. Dopo
la testimonianza al processo per la Pizza Connection,
la giustizia americana gli concesse lo status di collaboratore. Nel 1989 fu arrestato nei pressi di Palermo, mentre si pensava fosse in America. Nell'estate di quell'anno nacque così la vicenda delle lettere anonime, probabilmente scritte da un addetto ai lavori, poi soprannominato il corvo di Palermo. In queste lettere si accusavano i poliziotti e i magistrati più impegnati nella lotta alla mafia di utilizzare l'ex killer per uccidere i capi dei corleonesi. Nel 1997 nuove polemiche sul ruolo svolto in passato da Contorno hanno alimentato le voci di una possibile revoca del programma di protezione.
Antonino Calderone (1935 - collaboratore di giustizia)
Nato a Catania il 24 ottobre 1935. Ufficialmente imprenditore, in realtà
mafioso di spicco dal 1962, anche se incensurato al momento dell'arresto. La
famiglia Calderone fu tra le cosche perdenti dalla seconda guerra di
mafia, che nel catanese vide trionfare
Nitto Santapaola,
alleato dei corleonesi. Il fratello di Antonino, Giuseppe, rappresentante
delle famiglie catanesi nella Cupola, fu assassinato l'8 settembre 1978.
Arrestato a Nizza nel 1986, durante la permanenza in carcere, Calderone ebbe
il sentore che poteva essere ucciso e divenne così collaboratore di
giustizia a partire dall'aprile 1987. Le sue dichiarazioni fornirono un
positivo riscontro alle confessioni di
Buscetta e
Contorno e
causarono l'emissione di 166 mandati di cattura.
Calderone spiegò ai giudici le origini della mafia a Catania e il
funzionamento della commissione interprovinciale di Cosa Nostra, detta in
gergo mafioso Regione. Fece inoltre pesanti rivelazioni sul conto di Salvo
Lima e dei cugini Salvo e svelò i rapporti tra Santapaola e i cavalieri del
lavoro, vale a dire gli imprenditori Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo
Costanzo e Francesco Finocchiaro. Dopo le stragi del 1992 ha fornito nuovi
particolari sui rapporti tra mafia e politica.
Leonardo Vitale (1941 - 1984)
Nacque
a Palermo il 27 giugno 1941 e nel 1960 entrò a far parte della famiglia di
Altarello di Baida, comandata dallo zio. Arrestato il 17 agosto 1972 con
l'accusa di aver partecipato al sequestro dell'ingegner Cassina, venne
scarcerato per insufficienza di prove il 30 marzo 1973.
Perseguitato da furori mistici e dal rimorso di coscienza, si recò
spontaneamente dai giudici ai quali confessò di far parte di una potente
associazione criminale: Cosa Nostra. La stessa spontaneità di
rivelazioni così scottanti, per certi versi allora incredibili, venne
valutata come indice di pazzia e pertanto Vitale, dopo essere stato
sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu rinchiuso per dieci anni nel
manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di
Messina.
Sul merito delle sue rivelazioni non venne mai avviata alcuna indagine. Una
conferma indiretta della loro veridicità si ebbe invece il 2 dicembre 1984.
Solamente due mesi dopo essere tornato in libertà, all'uscita dalla messa
domenicale, il primo pentito della storia della mafia venne ucciso.
Il suo omicidio doveva costituire un monito per quei mafiosi che, come
Buscetta e
Contorno,
stavano in quei mesi collaborando con la magistratura palermitana. A molti
anni di distanza i collaboratori di giustizia più importanti confermarono le
sue accuse.
Vincenzo (1902 - 1975) e Filippo (1923 - in carcere) Rimi
Padre e figlio, entrambi influenti uomini d'onore della famiglia di Alcamo (TP). Vincenzo Rimi era nato ad Alcamo il 6 maggio del 1902 e in gioventù divenne cognato e alleato di Tano Badalamenti. Il figlio Filippo nacque anche lui ad Alcamo il 9 marzo del 1923. I due mafiosi furono condannati in primo grado e in appello per l'assassinio di Salvatore Lupo Leale, figlio di Serafina Battaglia. Il giovane era stato ucciso il 30 gennaio del 1962 perché aveva progettato di vendicarsi dei Rimi, che riteneva colpevoli dell'omicidio del padre, espulso da Cosa Nostra. Serafina Battaglia fu la prima donna che testimoniò contro la mafia. Giunto il processo in cassazione, il 3 dicembre del 1971, i due mafiosi videro annullare le loro condanne all'ergastolo, grazie alle pressioni di alti magistrati e influenti uomini politici. Il nuovo processo si concluse il 13 febbraio 1979 con l'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Il vecchio Rimi scomparve prima di quest'ultima sentenza, il 28 marzo del 1975, mentre Filippo Rimi è tuttora in carcere.
Giuseppe Di Cristina (1923 - 1978)
Nacque
il 22 aprile 1923, a Riesi, in provincia di Caltanissetta, all'interno di
una famiglia di consolidata tradizione mafiosa; suo padre e suo nonno,
infatti, erano entrambi potenti uomini d'onore. A partire dagli anni
Cinquanta, "la tigre di Riesi", così soprannominato per le doti di astuzia e
ferocia, seppe rinverdire i fasti della mafia del nisseno, riorganizzandola
e orientandone la potenza criminale verso i nuovi traffici della droga e del
riciclaggio. Inviato nel 1963 al soggiorno obbligato a Torino, dopo il
ritorno in Sicilia, alla ricerca di una copertura per i suoi traffici
illeciti, lavorò come impiegato presso gli sportelli palermitani della
Sicilcassa e poi, nel 1968, fu assunto come contabile alla Sochimisi, la
società chimica mineraria a partecipazione regionale. Esperto tessitore di
trame e collusioni, il boss di Riesi insieme al boss catanese Giuseppe
Calderone, suo compare e amico, cercò di stabilire un accordo incruento tra
la Commissione e Michele Cavataio, giudicato responsabile dello scoppio
della prima guerra di mafia; i due non riuscirono però nel loro intento e
così si arrivò alla strage di viale Lazio (10 dicembre 1969). La "tigre"
seppe imporsi anche come uomo d'azione, guidando i mafiosi,camuffati da
medici che, il 28 ottobre 1970, fecero irruzione nell'ospedale civico di
Palermo per uccidere l'albergatore Candido Ciuni, già ferito su suo ordine,
per una pesante lite avuta in precedenza. Dopo avere scontato un breve
periodo di detenzione, una volta uscito, Di Cristina tornò indisturbato ai
suoi traffici. Nel frattempo, a causa della sua accresciuta intesa con i
fratelli catanesi Calderone, nacque l'inevitabile ostilità dei Corleonesi
e dei loro alleati che individuarono in questa alleanza una possibile
sponda per le famiglie palermitane, rivali nello scontro per la supremazia
dentro Cosa Nostra. Sul finire degli anni Settanta due episodi contribuirono
a rafforzare ulteriormente l'isolamento di Giuseppe Di Cristina
all'interno della mafia siciliana: l'eliminazione del boss di Vallelunga
Francesco Madonia, suo rivale nel nisseno ma alleato di
Riina e il duro
scontro con il "papa"
Michele Greco,
colpevole di avere tollerato che gli uomini di Corleone uccidessero il
tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977), senza il
consenso della Cupola. Messo alle strette e sentendo ormai di essere rimasto
solo, "la tigre" giocò l'ultima carta a disposizione, in un tentativo
disperato di rivalersi sui suoi nemici di sempre, i Corleonesi. Decise così
di collaborare con i Carabinieri e, nel corso di alcuni colloqui segreti,
promise dichiarazioni scottanti, anche se alla fine rivelò solamente le
responsabilità dei clan emergenti, suoi avversari. Mentre gli inquirenti
cercavano riscontri alle sue dichiarazioni, un commando di killer lo
uccise a Palermo, il 30 maggio del 1978, ad una fermata dell'autobus.
Michele Navarra (1905 - 1958)
Primogenito di otto figli di una famiglia appartenente al ceto medio,
Michele Navarra nacque a Corleone (PA) il 5 gennaio 1905; il padre Giuseppe,
piccolo proprietario terriero e membro del "Circolo dei nobili" del paese,
esercitava le professioni di geometra e maestro nella locale scuola agraria.
Nonostante un carattere ribelle e incline alla spavalderia, riuscì ad
applicarsi con profitto negli studi. Terminate le scuole ordinarie, si
iscrisse all'Università di Palermo, prima alla facoltà di ingegneria e poi a
quella di medicina. Ottenuta nel 1929 la laurea in medicina e chirurgia,
prestò servizio militare a Trieste come medico ausiliario. Con il congedo
definitivo, nel 1942, arrivò anche la nomina a capitano. Nell'esercitare
come medico condotto a Corleone, seppe guadagnarsi la benevolenza degli
abitanti della zona. Prestigio professionale, furbizia e apparente bonomia:
furono queste le doti in grado di innalzarlo prima al rango di uomo d'onore
tra i più rispettati e poi a quello di capo indiscusso della locale
famiglia mafiosa, soprannominato per la sua influenza "u patri nostru".
Vissuta senza troppi problemi la parentesi del regime fascista, in seguito
allo sbarco in Sicilia, così come avvenne per gli altri capi mafia,
Navarra divenne un interlocutore credibile per gli alleati ed egli ne
approfittò per costituire con il fratello una società di autolinee,
funzionante grazie ai mezzi recuperati nell'isola dal Governo alleato dei
territori occupati (A.M.G.O.T.): nel 1947 la società fu rilevata dalla
Regione Sicilia e quindi assorbita nell'Azienda Siciliana Trasporti.
Riconoscendone l'importanza strategica, Navarra strumentalizzò sapientemente
le evoluzioni della politica regionale e nazionale: dopo avere appoggiato
inizialmente le istanze indipendentiste, fece poi confluire i voti
controllati dalla mafia locale prima sul Partito liberale e poi sulla
Democrazia cristiana. Nel giro di due anni, dal 1946 al 1948, il medico
condotto di Corleone divenne anche la massima autorità sanitaria della zona,
ricoprendo gli uffici di medico fiduciario dell'INAM e di direttore
dell'ospedale di Corleone, poltrona così ambita da spingerlo a commissionare
l'uccisione del legittimo titolare. Negli stessi anni si adoperò per
controllare le pretese dei contadini e assicurare l'amministrazione dei
feudi del corleonese ai suoi uomini. Il 14 marzo del 1948, dopo
un'iniezione fattagli da Navarra, morì Giuseppe Letizia, un giovane pastore
di soli tredici anni, unico testimone oculare del rapimento e dell'uccisione
di Placido Rizzotto, il combattivo sindacalista eliminato da Luciano
Liggio e da altri membri della cosca di Corleone. Arrestato nell'ambito
dell'inchiesta su questi due efferati omicidi, ma mai condannato, fu inviato
al soggiorno obbligato a Gioiosa Ionica (RC). Grazie alle pressioni di
alcuni influenti politici, suoi amici, la misura di prevenzione, fissata
inizialmente in un periodo di cinque anni, fu dichiarata decaduta dopo pochi
mesi e già nella primavera del 1949 Navarra tornò a dirigere le attività
della famiglia di Corleone. Navarra raggiunse l'apice del successo,
favorendo l'elezione dell'avvocato Alberto Gensardi alla guida del Consorzio
per la bonifica dell'alto e medio Belice: con tale nomina - Gensardi era il
genero di Vanni Sacco, potente capo mafia di Camporeale - la mafia ribadì la
propria contrarietà all'ipotesi di realizzare una diga sul fiume Belice, che
avrebbe significato la fine del suo controllo sull'erogazione dell'acqua
nell'agro palermitano, trapanese ed agrigentino. Il primato raggiunto dal
medico all'interno della mafia fu però messo in discussione da un suo
picciotto,
Luciano Liggio,
l'astro nascente del panorama criminale corleonese. "Lucianeddu" iniziò
giovanissimo a militare nella cosca guidata da Navarra ma l'intraprendenza e
la ferocia, unite al forte ascendente che esercitava sui compagni, ne fecero
ben presto un rivale temibile. Navarra si accorse di avere dato troppo
spazio a quel giovane campiere e tentò di correre ai ripari, ordinandone
l'uccisione. Liggio scampò però all'attentato e si prese la rivincita il 2
agosto del 1958. Quel giorno, mentre con un amico rientrava in auto da
Lercara Friddi a Corleone, Navarra fu trucidato da Liggio e i suoi, lungo la
statale nei pressi di Palazzo Adriano. L'uscita di scena di Michele Navarra
segnò anche l'inizio dell'ascesa dei temibili corleonesi, guidati prima da
Liggio e poi da
Riina e
Provenzano.
Antonino "Nino" Giuffrè (1945 - in carcere dal 16/4/2002)
Detto
"Manuzza" per quella mano destra strappata via da una fucilata durante una
battuta di caccia, 57 anni, sposato e padre di due figli, boss di Caccamo,
nel palermitano.
Al l'inizio degli anni Ottanta, il giovane Nino inizia la gavetta, fa il
cameriere: serve pranzo e cena all'allora capo della Cupola di Cosa nostra
Michele Greco
"il papa", a quel tempo latitante in un casolare di Caccamo. Quando il
"papa" viene arrestato nel febbraio dell'86, lascia una buona parola per il
giovane cameriere che è già nelle grazie del capomandamento di Caccamo,
Francesco Intile. E' il salto, "Manuzza" non è più solo un ragazzo di
bottega.
Con l'arresto di Lorenzo Di Gesù, eminenza grigia del mandamento, tramonta
la stella di Pino Gaeta, boss di Termini Imerese (altro paese del
palermitano). Giuffrè ne approfitta e, forte dell'alleanza con i corleonesi
di
Totò Riina,
riesce a scalzare Gaeta e a imporre il controllo su tutta quella parte di
territorio, diventa così il capo del mandamento più esteso di Cosa nostra.
Sono gli anni Novanta, quelli degli affari, che "Manuzza" riesce a passare
alla grande nonostante la stagione stragista di attacco diretto allo Stato
decisa da Riina. Perché per la giustizia, Giuffrè non è lo spietato e freddo
boss di Caccamo: è solo un perito agrario con lievi precedenti penali. Fino
a che il pentito Balduccio Di Maggio rivela per la prima volta ai magistrati
chi è veramente Nino Giuffrè. Quello stesso pomeriggio gli uomini della Dia
piombano a Caccamo, ma il boss riesce a dileguarsi dalla porta posteriore
della sua casa iniziando la latitanza. Negli ultimi anni, dopo l'arresto di
Giovanni Brusca,
il suo potere cresce a dismisura: allunga le mani sugli appalti miliardari
per il raddoppio della linea ferroviaria Palermo-Messina e per il
completamento dell'autostrada nella zona a cavallo tra le due province.
Quando, a metà degli anni Novanta, la cupola si spacca sulla strategia da
seguire (stragi o trattativa con lo Stato), "Manuzza" non esita ad
abbandonare Riina. Capisce che il futuro è ritornare ad immergersi, tenere
un profilo basso e continuare a fare affari. E' il momento
dell'avvicinamento a
Bernardo Provenzano
del quale organizzerà la latitanza e sposerà in pieno la tesi della
ristrutturazione affaristica di Cosa nostra.
Giuffrè è stato condannato con pena definitiva a 13 anni e due mesi di
carcere (pena unificata a seguito di cumulo di diverse sentenze con le quali
è stato condannato per associazione mafiosa) e fino al suo arresto avvenuto
in una masseria di contrada Massariazza a Vicari, era destinatario di 13
provvedimenti cautelari, fra i quali anche quello per la morte di
Falcone e Borsellino.
Fu trovato in un casolare con ancora addosso i biglietti e gli appunti delle
cose da fare: appalti, racket, favori da concedere, uomini da valutare,
messaggi dai sottoposti, messaggi per il grande capo.