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Bernardo Provenzano  (1933 – arrestato 11-4-2005)


Bernardo ProvenzanoNato il 31 gennaio 1933 a Corleone, da sempre "Binnu 'u tratturi" è uno dei capi più misteriosi di Cosa Nostra, per la mancanza di notizie certe sul suo conto. Non è un caso se, pur essendo attualmente in cima alla lista dei grandi latitanti, per molto tempo venne invece dato vittima della lupara bianca. Insieme all'amico Totò Riina, iniziò la carriera criminale nella banda di Luciano Liggio, che espresse nei suoi riguardi un famoso e lapidario commento: " Provenzano spara come un dio, peccato che abbia il cervello di una gallina ". Fu uno dei protagonisti indiscussi della guerra alle cosche palermitane negli anni Ottanta. Al suo attivo tre ergastoli e altri procedimenti in corso e una latitanza di oltre trent'anni. Per molto tempo è stato considerato solo un killer senza scrupoli, ma nel corso degli anni gli investigatori hanno individuato in lui una delle menti organizzatrici del riciclaggio del denaro sporco. Alcuni collaboratori infatti hanno affermato che Provenzano è il boss che controlla gli appalti e tiene i contatti con il mondo politico. Alla fine del 1992, la sua famiglia tornò a vivere a Corleone. Ipotesi investigative hanno accreditato Provenzano ed Aglieri come i garanti della pax mafiosa tra le cosche palermitane e i corleonesi.

Leoluca Bagarella  (1942 - in carcere dal 24/6/1995)


Luchino, fratello di Antonietta, la moglie di Salvatore Riina, nacque il 3 febbraio del 1942 a Palermo. A partire dagli anni Sessanta, fu un esponente di primo piano dei corleonesi e uno tra i killer più spietati. I legami con i clan della camorra napoletana, per l'organizzazione del traffico di tabacchi e stupefacenti, gli costarono le prime incriminazioni. Nel 1969 il fratello Calogero rimase ucciso nella strage di viale Lazio. Sul finire degli anni Settanta il commissario Boris Giuliano lo braccò per tutta Palermo, sequestrando, a Punta Raisi, una valigia con il pagamento in dollari di una partita di droga e infine scoprendo il suo covo. Era troppo per Bagarella che lo uccise a sangue freddo in un bar palermitano, la mattina del 21 luglio 1979.
Nel settembre dello stesso anno venne arrestato e rinchiuso all'Ucciardone, dove rimase per quattro anni. Nel 1986, alla vigilia del maxiprocesso, fu tratto in manette su disposizione del giudice Falcone e rimase in carcere fino al dicembre del 1990. Latitante di nuovo dal 1992, dopo l'arresto di Riina, divenne uno dei più im-

portanti boss di Cosa Nostra, dopo uno scontro con il clan Aglieri, dal quale uscì vincente. La sua latitanza ebbe termine il 24 giugno 1995, quando venne arrestato dalla DIA. Oltre alle contestazioni relative agli omicidi di numerosi rappresentanti delle istituzioni, avvenute nel corso degli ultimi decenni, Bagarella è anche accusato di essere tra i registi occulti delle stragi del 1993.

 

Pietro Aglieri  (1959 - in carcere dal 6/6/1997)


E' nato il 6 giugno del 1959 nel rione della Guadagna, a Palermo. Da sempre è conosciuto con il soprannome di " ' u signurinu ", a motivo della ostentata ricercatezza nell'abbigliamento. Dopo aver studiato presso il seminario arcivescovile di Monreale e aver prestato il servizio militare come paracadutista nella brigata Folgore, si fece strada all'interno dell'organizzazione, guadagnando prestigio e rispetto nel corso della seconda guerra di mafia. Con l'avvento dei corleonesi al potere, divenne il nuovo capomandamento di Santa Maria di Gesù e un influente membro della Cupola
Nel 1995 il giornale britannico The Guardian lo indicò, provocatoriamente, come l'italiano più conosciuto al mondo. In questi ultimi anni Pietro Aglieri ha occupato i posti di vertice dell'organizzazione e ha stretto un patto di alleanza con Bernardo Provenzano per la ricostruzione di Cosa Nostra, indebolita dall'arresto dei capi storici della fazione corleonese e dal proliferare dei pentiti (collaboranti di giustizia). E' stato arrestato, dopo otto anni di latitanza, alla periferia di Bagheria, a Palermo, il 6/6/1997.

Subito dopo la cattura, suscitò scalpore il ritrovamento nel suo covo di una piccola cappella votiva e di numerosi testi sacri e filosofici: l'atteggiamento remissivo e vagamente mistico alimentarono le voci di un possibile pentimento ma il caso si sgonfiò dopo pochi giorni. Già condannato all’ergastolo per l'omicidio del giudice della Corte di cassazione Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), è imputato nel processo per l'omicidio del parlamentare europeo democristiano Salvo Lima e in quelli per le stragi di Capaci e via D'Amelio.

 

Giovanni Brusca  (1957 - in carcere dal 20/5/1996)

 


Nato a Palermo il 20 maggio del 1957, "u verru", vale a dire il maiale, seguì fin da giovane le orme paterne, intraprendendo la carriera mafiosa e diventando un killer feroce e responsabile di diverse decine di omicidi. Dopo alcuni anni di carcere, nel 1991 riprese in mano le redini della famiglia di San Giuseppe Jato, temporaneamente affidata a Balduccio Di Maggio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato un protagonista indiscusso dell'ultima stagione di sangue inaugurata da Cosa Nostra con l'omicidio di Lima. E' ormai tristemente noto come il boia di "Capaci", vale a dire l'uomo che azionò il telecomando che fece esplodere l'autostrada lungo la quale transitavano in auto il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Dopo l'arresto di Riina e Bagarella prese il comando dell'ala militare dei corleonesi, in accordo con Bernardo Provenzano. Fu arrestato il 20 maggio 1996 a Cannitello, in provincia di Agrigento, in compagnia del fratello Vincenzo.

Dopo una fase iniziale in cui tentò di depistare gli inquirenti, a partire dalla seconda metà del 1997, sembra che abbia iniziato a rilasciare interessanti dichiarazioni. Già condannato all'ergastolo per l'uccisione di Ignazio Salvo, è attualmente imputato nei processi per la strage di Capaci, per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma e per l'omicidio di Giuseppe, il figlio undicenne di Santino Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido dopo una prigionia di due anni al fine di convincere il padre a ritrattare.

 

 

Benedetto (Nitto) Santapaola  (1938 - in carcere dal 18/5/1993)


Benedetto "Nitto" Santapaola nacque il 4 giugno del 1938 in una famiglia di modeste condizioni sociali, residente nel degradato quartiere San Cristofaro di Catania. Da ragazzo studiò dai salesiani e frequentò l'oratorio, ma abbandonò presto la scuola e, attratto dai facili guadagni, realizzò le prime rapine. Venditore ambulante di scarpe e articoli da cucina prima, titolare di una concessionaria di auto poi, in realtà Santapaola, soprannominato "il cacciatore", fu uno dei capi mafia più potenti e sanguinari della Sicilia orientale.
La sua fedina penale iniziò a riempirsi nel 1962 con una denuncia per furto e associazione per delinquere. Dopo essere stato diffidato dalla questura di Catania nel 1968 e inviato al soggiorno obbligato dopo due anni, nel 1975 fu invece denunciato per contrabbando di sigarette. Nel 1980 fu fermato durante le indagini sull'omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ma l'accusa non fu provata e anche la successiva proposta di soggiorno obbligato non fu accolta. Del tutto indisturbato, Santapaola portò così a termine la scalata ai vertici di Cosa Nostra, eliminando prima Giuseppe Calderone, il capo mafia più influente di Catania (8 settembre 1978) e poi commissionando ai corleonesi la cosiddetta "strage della circonvallazione" a Palermo,

quando il rivale Alfio Ferlito fu ucciso insieme ai carabinieri che lo stavano scortando in carcere (16 giugno1982). Furono questi i due episodi più sanguinosi che contraddistinsero la feroce guerra per il predominio a Catania e nella Sicilia orientale.
L'ascesa del "cacciatore" fu senza dubbio agevolata dal patto di ferro stretto con Totò Riina. Per ricambiare il favore ricevuto con l'omicidio Ferlito, Santapaola organizzò l'uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo. Condannato all'ergastolo per la strage della circonvallazione, per quella di via Carini, invece, Santapaola fu riconosciuto colpevole in primo grado ma assolto in appello; successivamente la Corte di cassazione decise di far ripetere il processo. Nel 1982 si diede alla latitanza, pur essendo malato di diabete e affetto da strani disturbi riconducibili ad una rara forma di licantropia, tanto da essere chiamato "il licantropo" perfino dai suoi due figli, traditi da una intercettazione telefonica, avvenuta poco prima della sua cattura. Dopo undici anni di latitanza, fu catturato all'alba del 18 maggio 1993 in una masseria di Mazzarone, nelle campagne tra Catania e Ragusa, al termine dell'operazione denominata in codice "Luna Piena". I collaboratori di giustizia, primo fra tutti Antonino Calderone, fratello di Giuseppe, rivelarono le commistioni tra "il cacciatore" e il "comitato d'affari "composto da politici, imprenditori e anche magistrati corrotti che controllò Catania negli anni Ottanta: Santapaola fu, infatti, in stretti rapporti con i "cavalieri del lavoro" catanesi, messi sotto accusa dal giornalista Giuseppe Fava che pagò con la vita le sue coraggiose denuncie. Ormai in carcere, Santapaola subì un doloroso sfregio: il boss rivale Giuseppe Ferone, divenuto un collaboratore di giustizia, approfittò del regime di semilibertà e gli uccise la moglie Carmela Minniti (1 settembre 1995). Il 26 settembre 1997, la Corte d'assise di Caltanissetta lo ho condannato di nuovo all'ergastolo: questa volta per la strage di Capaci.

 

 

Michele Greco  (1924 - in carcere dal 20/2/1986)

Nacque a Palermo il 12 maggio del 1924 il potente boss che fu soprannominato il papa, per la sua riconosciuta abilità nel mediare le dispute tra le diverse famiglie. Dopo la morte del padre Giuseppe, detto " Piddu u tinenti", diresse a lungo il mandamento di Croceverde - Giardini. Potente gabellotto fin da giovane, poi divenuto proprietario terriero grazie a minacce ed estorsioni, amava frequentare i salotti della Palermo bene. La Favarella, la sua tenuta di Ciaculli, del resto era visitata da politici, banchieri, professionisti e aristocratici decaduti che vi si recavano per una battuta di caccia o per un banchetto. Nella stessa tenuta erano stati ricavati alcuni rifugi sicuri per i latitanti mafiosi e anche una raffineria di eroina. Il nome del "papa" venne associato a Cosa Nostra per la prima volta dal cosiddetto rapporto dei 162, elaborato nel 1982 da Ninni Cassarà e poi divenuto atto fondamentale per la costruzione del primo maxiprocesso. Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l'espulsione di Badalamenti, non ostacolò l'avanzata dei corleonesi, dei quali divenne anzi alleato. Mandante, insieme con il fratello Salvatore, dell'omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici, terminò la sua latitanza il 20 febbraio 1986. Nel marzo del 1991, nella attesa dell'appello del maxiprocesso, Greco ed altri imputati furono scarcerati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva da un discutibile provvedimento della Corte di cassazione. Un decreto del governo, ispirato da Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari penali del ministero di grazia e giustizia, ripristinò la detenzione per i boss scarcerati, tra cui anche il vecchio papa.

Luciano Liggio (o Leggio)  (1925 - 1993)

Lucianeddu, detto anche la primula rossa, nacque a Corleone il 6 gennaio 1925. Ancora giovane campiere, prese il posto del vecchio capo mafia Michele Navarra e guidò i corleonesi all'assalto della città di Palermo, in aperta sfida al predominio delle altre famiglie di Cosa Nostra. Oltre alla conquista dei mercati illegali, si arricchì con lo sfruttamento delle opere di edilizia urbana, pubblica e privata, facendo leva sul rapporto preferenziale con il politico Vito Ciancimino, assessore e sindaco di Palermo in quegli anni del sacco della città. Non esitò mai ad eliminare i tanti ostacoli che gli si pararono dinanzi, dal sindacalista Placido Rizzotto, scomparso il 10 marzo del 1948, al capo mafia di Corleone Michele Navarra, ucciso il 2 agosto 1958. Fu arrestato la prima volta il 14 maggio del 1964. Assolto per insufficienza di prove prima a Catanzaro nel 1968 e poi a Bari il 10 giugno del 1969, uccise il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione il 5 maggio del 1971. Durante un lungo periodo di latitanza al Nord, portò a termine con i suoi uomini numerosi sequestri di persona, tra cui quelli di Luigi Rossi di Montelera, Paul Getty III, Giovanni Bulgari, Egidio Perfetti. Fu infine arrestato a Milano il 16 maggio 1974 e finì in carcere: da quel momento non tornò mai più in libertà. Colpito da infarto, morì il 15 novembre 1993 nel carcere di Badu e Carros, in Sardegna.

Giuseppe (Pippo) Calò  (1921 - in carcere dal 30/3/1985)

Soprannominato "la salamandra" per la capacità di uscire indenne dalle situazioni più scottanti, proprio come l'anfibio, il boss mafioso Giuseppe Calò, nacque a Palermo il 30 settembre 1921, figlio di un macellaio e barista. Inizialmente, il giovane si cimentò nelle medesime professioni del genitore, fino a quando, non ancora diciottenne, si distinse per aver inseguito e ferito a colpi di pistola l'assassino dello stesso padre. Dopo un brillante apprendistato come "soldato", nel 1969 coronò la carriera all'interno dell'organizzazione, divenendo il capo del potente mandamento di Porta Nuova. All'inizio degli anni Settanta, si trasferì a Roma dove, sotto la finta identità di Mario Agliarolo, antiquario di professione, fece numerosi investimenti nel settore edilizio e riciclò, per conto delle cosche, una così gran quantità di denaro da guadagnarsi, in poco tempo, l'appellativo di "cassiere di Cosa Nostra".
Passato nello schieramento vincente dei Corleonesi, nel corso degli stessi anni, strinse legami strategici con il mondo dei servizi segreti e della politica. In numerose situazioni, non esitò neppure a servirsi della cosiddetta "Banda della Magliana", una banda di delinquenti comuni con base operativa nella capitale che, una volta entrati in contatto con la mafia e i servizi, seppero diversificare le proprie attività criminali, finendo implicati in alcuni dei più importanti misteri italiani. Diversi collaboratori di giustizia parlarono di un coinvolgimento della "salamandra" nella vicenda Moro: durante una riunione della Commissione, infatti, egli avrebbe bloccato il tentativo di salvare lo statista democristiano che Stefano Bontate voleva compiere, dichiarando che a volerne la morte erano esponenti influenti della stessa Democrazia Cristiana. Calò fu anche tra gli organizzatori dell'attentato al rapido 904, il treno che esplose la notte del 23 dicembre 1984, provocando la morte di quindici passeggeri e il ferimento di altri duecento. Il convoglio saltò in aria nei pressi di San Benedetto Val di Sambro (BO), nella stessa galleria in cui dieci anni prima vi era stato l'attentato al treno "Italicus" (12 morti e 105 feriti).
Il cassiere di Cosa Nostra fu arrestato il 30 marzo 1985, in una villa a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti: nel suo covo fu ritrovato un vero arsenale da guerra. Il 25 febbraio 1989 fu condannato all'ergastolo unitamente ad altri quattro imputati: nel corso delle indagini emersero i collegamenti tra lo stesso Calò ed ambienti della destra eversiva. La sentenza fu confermata in appello (15 marzo 1990). A questa condanna si aggiunsero poi altri due ergastoli, uno per l'omicidio del commissario Boris Giuliano e l'altro per l'eccidio di via Carini, in cui perse la vita il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nel settembre del 1993 chiese di essere interrogato dai magistrati che indagavano sugli attentati alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a Roma, ma non fornì contributi rilevanti. Agli inizi del 1997, finirono in manette il costruttore palermitano Luigi Faldetta e Vincenzo e Giuseppe Bellino, uomini della famiglia di Porta Nuova: i tre furono accusati di essere i prestanome del boss palermitano per l'attività di riciclaggio. Il 26 settembre Calò fu condannato nuovamente all'ergastolo per la strage di Capaci. Alla fine dell'ottobre dello stesso anno, il "Corriere della Sera" pubblicò la clamorosa notizia della sua collaborazione con gli inquirenti: tuttavia la circostanza fu subito smentita.

Gaspare Mutolo  (1940 - collaboratore di giustizia)

Gaspare MutoloNato a Palermo il 5 febbraio 1940, Gaspare Mutolo, detto "Asparino" crebbe tra i vicoli di Pallavicino e le borgate di Mondello e Partanna. Abbandonata la scuola, iniziò a lavorare come meccanico in un'officina e quasi contemporaneamente si dedicò ai primi furti di macchine. Fin da giovane venne a contatto con la realtà mafiosa, dal momento che alcuni suoi familiari erano membri effettivi dell'organizzazione. Nel 1965 finì in carcere per la prima volta per furto. All'Ucciardone conobbe Salvatore Riina, allora boss emergente della mafia della provincia: dividendo la cella con il futuro "capo dei capi", Mutolo venne a conoscenza dei segreti di Cosa Nostra e, su suo invito, si mise sotto l'ala protettiva di Rosario "Saro" Riccobono, il capo della famiglia di Partanna Mondello. Dopo qualche anno di apprendistato, Mutolo fu "combinato" da Riina nel 1973 a Napoli, durante una riunione nell'abitazione del camorrista Lorenzo Nuvoletta. Ufficialmente affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, divenne presto il braccio destro di Riccobono e uomo di fiducia di Riina per incarichi delicati.
Mutolo si fece quindi largo nell'organizzazione mafiosa, prima come killer e poi come trafficante di droga, grazie anche al rapporto di amicizia stretto in carcere con il trafficante Koh Bak Kin, originario di Singapore e attivo lungo le rotte del sud est asiatico. Arrestato ancora nel 1976 e poi nel 1982, finì per alternare periodi più o meno lunghi di detenzione nelle carceri italiane ad altri in cui fu sottoposto a provvedimenti di soggiorno obbligato in Toscana. Durante una delle sue detenzioni, fu compagno di cella di Luciano Liggio; successivamente rivelò agli inquirenti di essere lui l'autore delle tele attribuite all'estro pittorico del vecchio padrino di Corleone. La simpatia istintiva nutrita da Riina nei suoi confronti permise ad "Asparino" di salvare la vita, quando, nel novembre del 1982, Riccobono e altri uomini della cosca di Partanna Mondello furono eliminati perché ritenuti ormai del tutto inutili per i fini egemonici perseguiti dai corleonesi. Per alcuni anni Mutolo ebbe anche l'onore - onere di essere l'autista di fiducia e il guardaspalle personale del nuovo capo di Cosa Nostra. Al termine del primo maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino, fu condannato a sedici anni di reclusione. Nel dicembre del 1991, Mutolo, ormai rinchiuso nel carcere di Spoleto, maturò la decisione di collaborare con la giustizia e, dopo la strage di Capaci, si rafforzò nella convinzione di dover rompere definitivamente con Cosa Nostra. Fu per questo che, a partire dall'estate del 1992, rese le sue dichiarazioni prima al procuratore della repubblica di Firenze Pierluigi Vigna e poi al giudice Paolo Borsellino, a pochi giorni dalla strage di via D'Amelio. L'insieme delle sue deposizioni fu subito giudicato straordinariamente importante, perché frutto delle rivelazioni ricevute direttamente da alcuni dei più influenti boss della Commissione di Cosa Nostra. Mutolo parlò del ruolo di mediatore tra politica e mafia svolto da Salvo Lima e confermò anche le responsabilità di Giulio Andreotti. L'uccisione di Lima, secondo Mutolo, fu un segnale che la mafia volle inviare al senatore a vita, a seguito della conferma dell'impianto accusatorio del primo maxiprocesso. Destarono clamore anche le sue rivelazioni sulle presunte collusioni con le cosche di alcuni magistrati palermitani, tra cui Carmelo Conti, Pasquale Barreca, Domenico Mollica, Francesco D'Antoni e Domenico Signorino, pubblico ministero al primo maxiprocesso e morto suicida il 3 dicembre 1992, proprio a seguito della pubblicazione sulla stampa di alcune indiscrezioni relative ad un suo coinvolgimento nelle confessioni di Mutolo. L'ex mafioso di Partanna Mondello fu inoltre uno dei principali testimoni di accusa a carico del questore Bruno Contrada, distaccato al SISDE, dopo una carriera iniziata nella squadra mobile di Palermo e continuata poi nelle file.

Francesco Marino Mannoia  (1951 - collaboratore di giustizia in U.S.A.)

Francesco Marino MannoiaNato a Palermo il 5 marzo 1951, soprannominato Mozzarella o anche il chimico. Suo padre era un mafioso della famiglia di Santa Maria di Gesù. Nonostante fosse tra i picciotti più fidati di Stefano Bontade, alla sua morte passò con i clan vincenti, per i quali raffinò centinaia di partite di eroina. Dopo l'uccisione del fratello Agostino, nell'ottobre 1989, iniziò la sua collaborazione con le autorità giudiziarie. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan vincenti. Nel mese di novembre dello stesso anno la mafia, per intimidirlo, uccise la madre, la sorella e la zia. Al maxiprocesso venne condannato a diciassette anni di reclusione. Attualmente vive con la sua compagna e i figli sotto la protezione dell 'FBI, in seguito alle deposizioni rese nei tribunali americani. E' tra i principali testi d'accusa contro Giulio Andreotti.

Leonardo Messina  (1955 - in carcere dall'aprile 1992)


Leonardo Messina, detto "Narduzzo" nacque a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta il 22 settembre 1955. Cresciuto in una famiglia di modeste condizioni e di tradizione mafiosa, Messina lasciò la scuola dopo la licenza elementare e, ancora giovane, diede il via alla sua carriera di criminale con alcuni furti. La prima condanna pesante la subì nel 1978, quando finì in carcere per rapina. Dopo quattro anni di detenzione e un periodo di soggiorno obbligato, Messina fu pronto per diventare uomo d'onore. Il 21 aprile 1982, infatti, fu regolarmente affiliato alla cosca locale. Dopo alcuni anni trascorsi come soldato prima e capo decina poi, divenne sottocapo della famiglia di San Cataldo. In quegli stessi anni Messina divenne amico e uomo di fiducia di Giuseppe Madonia, detto "Piddu chiacchiera", esponente della famiglia più importante della provincia di Caltanissetta, quella di Vallelunga, molto legata ai corleonesi. Per molto tempo, nonostante le incriminazioni per furto, rapina e traffico di stupefacenti e alcuni provvedimenti di soggiorno obbligato a suo carico, fu considerato un esponente di secondo piano della mafia del nisseno. "Narduzzo", infatti, coprì le sue attività criminose, continuando a lavorare come caposquadra nella miniera di sali potassici di Pasquasia. Nel giugno del 1984, però, finì ancora in carcere con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di uno spacciatore e vi rimase fino al 1989; nel 1991 fu poi definitivamente assolto. Tornato in libertà, Messina si legò sempre più a "Piddu" Madonia, nel frattempo diventato il rappresentante provinciale di Cosa Nostra per Caltanissetta; per suo conto organizzò e gestì una rete per il traffico di stupefacenti con ramificazioni in altre regioni italiane.
Nell'aprile del 1992, alla vigilia di Pasqua, mentre stava per tendere un agguato mafioso ad un altro uomo d'onore, suo rivale nella corsa alla guida della famiglia di San Cataldo, fu catturato e finì in carcere. Temendo ritorsioni nei confronti dei suoi familiari e, come sostiene, forse spinto dalle parole di Rosaria, vedova dell'agente Vito Schifani, morto a Capaci, si decise a collaborare con la giustizia. Il 30 giugno dello stesso anno iniziò a deporre davanti al giudice Paolo Borsellino, facendo importanti rivelazioni sulle famiglie mafiose delle province di Caltanissetta, Enna, Palermo, Trapani ed Agrigento. Nacque così uno spettacolare blitz delle forze dell'ordine, la cosiddetta "Operazione Leopardo", che il 17 novembre del 1992 portò all'esecuzione di oltre duecento ordini di cattura in tutta Italia. Messina fu il primo collaboratore a mettere a verbale il nome di Giulio Andreotti, indicato come referente politico principale per le necessità di Cosa Nostra e fu anche l'unico a sostenere che il senatore a vita fosse stato "punciuto", cioè formalmente affiliato a Cosa Nostra. "Narduzzo" parlò poi delle responsabilità di Salvo Lima e del tentativo di aggiustamento in Cassazione del primo maxiprocesso, il cui esito fallimentare scatenò la stagione delle stragi nel 1992. A Messina si devono anche le prime informazioni sulla "Stidda", l'associazione mafiosa rivale di Cosa Nostra, soprattutto nell'agrigentino e nel nisseno e le importanti ed inquietanti rivelazioni sulla massoneria deviata e i suoi rapporti con Cosa Nostra.

 

Stefano Bontate o Bontade  (1938 - 1981)


Falco, noto anche come il principe di Villagrazia, nacque a Palermo il 23 aprile 1938. Ufficialmente possidente, fu invece il capo mafia della famiglia di Santa Maria di Gesù e anche affiliato alla massoneria. Suo padre, don Paolino, era tra i mafiosi più potenti della Sicilia e trattava gli esponenti politici come suoi sottoposti, non esitando a schiaffeggiarli in pubblico. I rapporti politici furono coltivati anche dal figlio che era in affari con Salvo Lima e i cugini Salvo, gli esattori di Salemi. Dopo gli studi presso il Liceo Gonzaga dei Gesuiti, Stefano e il fratello Giovanni seguirono le orme del padre all'interno dell'organizzazione. Stefano finì per la prima volta in galera con l'accusa di traffico di stupefacenti, dopo l'omicidio del procuratore capo Pietro Scaglione, ucciso dai corleonesi. Condannato a tre anni nel processo dei centoquattordici, fu assolto in appello. Oltre ai notevoli proventi del traffico di droga, davvero fruttuosa si rivelò la collaborazione con i clan napoletani nel contrabbando di tabacchi. Sul finire degli anni Settanta la sua influenza all'interno della mafia siciliana raggiunse l'apice. Accolse e protesse Michele Sindona nel 1979, in occasione della sua fuga in Sicilia.
All'interno della commissione era uno degli esponenti più autorevoli, tanto che i corleonesi decisero di eliminarlo il giorno del suo compleanno, il 23 aprile del 1981, inaugurando così la seconda sanguinosa guerra di mafia.

 

Gaetano Badalamenti  (1923 - carcere in U.S.A.)


Gaetano BadalamentiDon Tano nacque a Cinisi il 14 settembre 1923. Nel 1947 emigrò clandestinamente negli Stati Uniti; nel 1950 venne rimandato in Italia e fu presente alla riunione all'Hotel des Palmes a Palermo. Grazie all'esperienza maturata in America, propose la creazione della prima "commissione" della mafia siciliana, che funzionò fino alla strage di Ciaculli. Dal 1971 al 1974 fu rinchiuso nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Già a metà degli anni Settanta era considerato dall'FBI come il vero cervello del traffico di stupefacenti che interessava le due sponde dell'Oceano Atlantico. Fece parte, con Riina e Bontade, del triumvirato che costruì Cosa Nostra e si mise a capo della commissione, per quanto non riconosciuto dai Riva, dal 1974 fino alla sua espulsione da Cosa Nostra avvenuta per motivi tuttora sconosciuti. Nel 1978 fece uccidere il militante di estrema sinistra Giuseppe Impastato che, dai microfoni della radio locale Aut Aut, ne denunciava i traffici di droga, organizzati grazie al controllo sull'aero-

porto di Punta Raisi a Palermo. Impastato fu ritrovato sui binari della ferrovia, dilaniato da una bomba: ci vollero diversi anni, prima che fosse riconosciuta l'origine mafiosa del delitto. 
Spazzata via dagli avversari la maggior parte dei suoi uomini, Badalamenti si rifugiò in Brasile, dove ebbe contatti con altri latitanti, tra cui Buscetta. Fu arrestato a Madrid nell'aprile 1984 ed estradato negli Stati Uniti. Qui è attualmente detenuto per traffico di stupefacenti, dopo la condanna a trent'anni di reclusione, avvenuta nel 1986, nell'ambito dell'inchiesta Pizza Connection. I suoi rapporti con la politica e la sua conoscenza dei molti segreti di Cosa Nostra sono stati al centro delle dichiarazioni di famosi collaboratori di giustizia. Nel marzo 1995, il suo nome è tornato alla ribalta in occasione del suicidio del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo che, stando alle indiscrezioni, ne stava organizzando il rientro in Italia per deporre in alcuni processi di mafia.

 

 

Tommaso Buscetta  (1928 - 2000)


Tommaso BuscettaIl più famoso collaboratore di giustizia, l'ex boss dei due mondi, nacque a Palermo il 13 luglio 1928, ultimo di diciassette figli. Dopo aver lavorato nella vetreria del padre, a soli 20 anni entrò nella famiglia mafiosa di Porta Nuova. Nel 1956 il primo arresto con l'accusa di contrabbandare sigarette. Allo scoppiare della prima guerra di mafia, Buscetta fuggì in Messico; nello stesso anno venne spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per associazione a delinquere e omicidio plurimo. La sua carriera criminale si svolse tra l'Europa e il Sud America, soprattutto nel contrabbando di tabacchi e droga. Processato in contumacia a Catanzaro, fu arrestato nel 1970 negli Stati Uniti e nel 1971 si trasferì in Brasile. Nello stesso anno la Commissione antimafia lo inserì nella lista dei dieci mafiosi più pericolosi. Nel 1977 fu estradato dal Brasile e dopo il carcere scontato all'Ucciardone e alle Nuove di Torino, grazie al regime di semilibertà, diventò di nuovo un latitante.

All'inizio degli anni Ottanta fece ritorno in Italia per cercare di trovare una composizione della vertenza tra le vecchie famiglie palermitane e i rampanti corleonesi. Non riuscì nel suo scopo e tornò in Brasile, dove fu arrestato nel 1983 ed estradato in Italia l'anno successivo. Iniziò a collaborare con Falcone, che emise in base alle sue rivelazioni ben 366 mandati di cattura. Fu Buscetta a svelare per primo e in maniera compiuta al giudice i segreti di Cosa Nostra, offrendo le necessarie chiavi di lettura per interpretare l'organizzazione, gli organigrammi, le attività e gli appoggi dell'associazione mafiosa. Al primo maxiprocesso venne condannato a tre anni e tre mesi. Dopo la strage di Capaci, a partire dall'aprile 1993, ha rilasciato nuove dichiarazioni sui rapporti tra mafia e politica e sui delitti Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa. E' morto il 2 aprile 2000 nella sua casa di New York dopo una malattia durata circa due anni, è rimasto cosciente fino alla fine.

 

Salvatore (Totuccio) Contorno  (1946 - collaboratore di giustizia)


Salvatore (o Totuccio) ContornoDetto anche Coriolano della Floresta, nacque a Palermo il 28 maggio 1946 e fu iniziato a Cosa Nostra nel 1975, entrando a fare parte della famiglia di Santa Maria di Gesù. Di professione macellaio, si occupò di contrabbando di sigarette e poi di droga, con i cugini Grado. Negli anni Settanta fu mandato in soggiorno obbligato in provincia di Verona. Dopo una condanna a ventisei anni in contumacia per il sequestro di un industriale, visse la latitanza a Palermo. Fedelissimo di Stefano Bontate, il 25 luglio 1981 scampò ad uno spettacolare attentato tesogli dai clan rivali a Brancaccio. Divenne un informatore di Ninni Cassarà che lo chiamava, in codice, Prima Luce. Fu arrestato il 23 marzo del 1982 a Roma, mentre studiava il piano per uccidere Pippo Calò e vendicare così i suoi molti parenti uccisi dai corleonesi e dai loro alleati. 
Nell'ottobre del 1984 cominciò a collaborare con i giudici, completando le dichiarazioni rese da Buscetta. Nel 1987, alla conclusione del maxiprocesso, fu condannato a sei anni. Dopo la testimonianza al processo per la Pizza Connection,

la giustizia americana gli concesse lo status di collaboratore. Nel 1989 fu arrestato nei pressi di Palermo, mentre si pensava fosse in America. Nell'estate di quell'anno nacque così la vicenda delle lettere anonime, probabilmente scritte da un addetto ai lavori, poi soprannominato il corvo di Palermo. In queste lettere si accusavano i poliziotti e i magistrati più impegnati nella lotta alla mafia di utilizzare l'ex killer per uccidere i capi dei corleonesi. Nel 1997 nuove polemiche sul ruolo svolto in passato da Contorno hanno alimentato le voci di una possibile revoca del programma di protezione.

 

Antonino Calderone  (1935 - collaboratore di giustizia)


Nato a Catania il 24 ottobre 1935. Ufficialmente imprenditore, in realtà mafioso di spicco dal 1962, anche se incensurato al momento dell'arresto. La famiglia Calderone fu tra le cosche perdenti dalla seconda guerra di mafia, che nel catanese vide trionfare Nitto Santapaola, alleato dei corleonesi. Il fratello di Antonino, Giuseppe, rappresentante delle famiglie catanesi nella Cupola, fu assassinato l'8 settembre 1978. Arrestato a Nizza nel 1986, durante la permanenza in carcere, Calderone ebbe il sentore che poteva essere ucciso e divenne così collaboratore di giustizia a partire dall'aprile 1987. Le sue dichiarazioni fornirono un positivo riscontro alle confessioni di Buscetta e Contorno e causarono l'emissione di 166 mandati di cattura.
Calderone spiegò ai giudici le origini della mafia a Catania e il funzionamento della commissione interprovinciale di Cosa Nostra, detta in gergo mafioso Regione. Fece inoltre pesanti rivelazioni sul conto di Salvo Lima e dei cugini Salvo e svelò i rapporti tra Santapaola e i cavalieri del lavoro, vale a dire gli imprenditori Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro. Dopo le stragi del 1992 ha fornito nuovi particolari sui rapporti tra mafia e politica.

Leonardo Vitale  (1941 - 1984)


Leonardo VitaleNacque a Palermo il 27 giugno 1941 e nel 1960 entrò a far parte della famiglia di Altarello di Baida, comandata dallo zio. Arrestato il 17 agosto 1972 con l'accusa di aver partecipato al sequestro dell'ingegner Cassina, venne scarcerato per insufficienza di prove il 30 marzo 1973.
Perseguitato da furori mistici e dal rimorso di coscienza, si recò spontaneamente dai giudici ai quali confessò di far parte di una potente associazione criminale: Cosa Nostra. La stessa spontaneità di rivelazioni così scottanti, per certi versi allora incredibili, venne valutata come indice di pazzia e pertanto Vitale, dopo essere stato sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu rinchiuso per dieci anni nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.
Sul merito delle sue rivelazioni non venne mai avviata alcuna indagine. Una conferma indiretta della loro veridicità si ebbe invece il 2 dicembre 1984. Solamente due mesi dopo essere tornato in libertà, all'uscita dalla messa domenicale, il primo pentito della storia della mafia venne ucciso. Il suo omicidio doveva costituire un monito per quei mafiosi che, come Buscetta e Contorno, stavano in quei mesi collaborando con la magistratura palermitana. A molti anni di distanza i collaboratori di giustizia più importanti confermarono le sue accuse.

Vincenzo (1902 - 1975) e Filippo (1923 - in carcere)  Rimi

 

Padre e figlio, entrambi influenti uomini d'onore della famiglia di Alcamo (TP). Vincenzo Rimi era nato ad Alcamo il 6 maggio del 1902 e in gioventù divenne cognato e alleato di Tano Badalamenti. Il figlio Filippo nacque anche lui ad Alcamo il 9 marzo del 1923. I due mafiosi furono condannati in primo grado e in appello per l'assassinio di Salvatore Lupo Leale, figlio di Serafina Battaglia. Il giovane era stato ucciso il 30 gennaio del 1962 perché aveva progettato di vendicarsi dei Rimi, che riteneva colpevoli dell'omicidio del padre, espulso da Cosa Nostra. Serafina Battaglia fu la prima donna che testimoniò contro la mafia. Giunto il processo in cassazione, il 3 dicembre del 1971, i due mafiosi videro annullare le loro condanne all'ergastolo, grazie alle pressioni di alti magistrati e influenti uomini politici. Il nuovo processo si concluse il 13 febbraio 1979 con l'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Il vecchio Rimi scomparve prima di quest'ultima sentenza, il 28 marzo del 1975, mentre Filippo Rimi è tuttora in carcere.

Giuseppe Di Cristina  (1923 - 1978)


Giusepppe Di CristinaNacque il 22 aprile 1923, a Riesi, in provincia di Caltanissetta, all'interno di una famiglia di consolidata tradizione mafiosa; suo padre e suo nonno, infatti, erano entrambi potenti uomini d'onore. A partire dagli anni Cinquanta, "la tigre di Riesi", così soprannominato per le doti di astuzia e ferocia, seppe rinverdire i fasti della mafia del nisseno, riorganizzandola e orientandone la potenza criminale verso i nuovi traffici della droga e del riciclaggio. Inviato nel 1963 al soggiorno obbligato a Torino, dopo il ritorno in Sicilia, alla ricerca di una copertura per i suoi traffici illeciti, lavorò come impiegato presso gli sportelli palermitani della Sicilcassa e poi, nel 1968, fu assunto come contabile alla Sochimisi, la società chimica mineraria a partecipazione regionale. Esperto tessitore di trame e collusioni, il boss di Riesi insieme al boss catanese Giuseppe Calderone, suo compare e amico, cercò di stabilire un accordo incruento tra la Commissione e Michele Cavataio, giudicato responsabile dello scoppio della prima guerra di mafia; i due non riuscirono però nel loro intento e così si arrivò alla strage di viale Lazio (10 dicembre 1969). La "tigre" seppe imporsi anche come uomo d'azione, guidando i mafiosi,camuffati da medici che, il 28 ottobre 1970, fecero irruzione nell'ospedale civico di Palermo per uccidere l'albergatore Candido Ciuni, già ferito su suo ordine, per una pesante lite avuta in precedenza. Dopo avere scontato un breve periodo di detenzione, una volta uscito, Di Cristina tornò indisturbato ai suoi traffici. Nel frattempo, a causa della sua accresciuta intesa con i fratelli catanesi Calderone, nacque l'inevitabile ostilità dei Corleonesi e dei loro alleati che individuarono in questa alleanza una possibile sponda per le famiglie palermitane, rivali nello scontro per la supremazia dentro Cosa Nostra. Sul finire degli anni Settanta due episodi contribuirono a rafforzare ulteriormente l'isolamento di Giuseppe Di Cristina all'interno della mafia siciliana: l'eliminazione del boss di Vallelunga Francesco Madonia, suo rivale nel nisseno ma alleato di Riina e il duro scontro con il "papa" Michele Greco, colpevole di avere tollerato che gli uomini di Corleone uccidessero il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977), senza il consenso della Cupola. Messo alle strette e sentendo ormai di essere rimasto solo, "la tigre" giocò l'ultima carta a disposizione, in un tentativo disperato di rivalersi sui suoi nemici di sempre, i Corleonesi. Decise così di collaborare con i Carabinieri e, nel corso di alcuni colloqui segreti, promise dichiarazioni scottanti, anche se alla fine rivelò solamente le responsabilità dei clan emergenti, suoi avversari. Mentre gli inquirenti cercavano riscontri alle sue dichiarazioni, un commando di killer lo uccise a Palermo, il 30 maggio del 1978, ad una fermata dell'autobus.

 

Michele Navarra  (1905 - 1958)


Primogenito di otto figli di una famiglia appartenente al ceto medio, Michele Navarra nacque a Corleone (PA) il 5 gennaio 1905; il padre Giuseppe, piccolo proprietario terriero e membro del "Circolo dei nobili" del paese, esercitava le professioni di geometra e maestro nella locale scuola agraria. Nonostante un carattere ribelle e incline alla spavalderia, riuscì ad applicarsi con profitto negli studi. Terminate le scuole ordinarie, si iscrisse all'Università di Palermo, prima alla facoltà di ingegneria e poi a quella di medicina. Ottenuta nel 1929 la laurea in medicina e chirurgia, prestò servizio militare a Trieste come medico ausiliario. Con il congedo definitivo, nel 1942, arrivò anche la nomina a capitano. Nell'esercitare come medico condotto a Corleone, seppe guadagnarsi la benevolenza degli abitanti della zona. Prestigio professionale, furbizia e apparente bonomia: furono queste le doti in grado di innalzarlo prima al rango di uomo d'onore tra i più rispettati e poi a quello di capo indiscusso della locale famiglia mafiosa, soprannominato per la sua influenza "u patri nostru". Vissuta senza troppi problemi la parentesi del regime fascista, in seguito allo sbarco in Sicilia, così come avvenne per gli altri capi mafia, Navarra divenne un interlocutore credibile per gli alleati ed egli ne approfittò per costituire con il fratello una società di autolinee, funzionante grazie ai mezzi recuperati nell'isola dal Governo alleato dei territori occupati (A.M.G.O.T.): nel 1947 la società fu rilevata dalla Regione Sicilia e quindi assorbita nell'Azienda Siciliana Trasporti. Riconoscendone l'importanza strategica, Navarra strumentalizzò sapientemente le evoluzioni della politica regionale e nazionale: dopo avere appoggiato inizialmente le istanze indipendentiste, fece poi confluire i voti controllati dalla mafia locale prima sul Partito liberale e poi sulla Democrazia cristiana. Nel giro di due anni, dal 1946 al 1948, il medico condotto di Corleone divenne anche la massima autorità sanitaria della zona, ricoprendo gli uffici di medico fiduciario dell'INAM e di direttore dell'ospedale di Corleone, poltrona così ambita da spingerlo a commissionare l'uccisione del legittimo titolare. Negli stessi anni si adoperò per controllare le pretese dei contadini e assicurare l'amministrazione dei feudi del corleonese ai suoi uomini. Il 14 marzo del 1948, dopo un'iniezione fattagli da Navarra, morì Giuseppe Letizia, un giovane pastore di soli tredici anni, unico testimone oculare del rapimento e dell'uccisione di Placido Rizzotto, il combattivo sindacalista eliminato da Luciano Liggio e da altri membri della cosca di Corleone. Arrestato nell'ambito dell'inchiesta su questi due efferati omicidi, ma mai condannato, fu inviato al soggiorno obbligato a Gioiosa Ionica (RC). Grazie alle pressioni di alcuni influenti politici, suoi amici, la misura di prevenzione, fissata inizialmente in un periodo di cinque anni, fu dichiarata decaduta dopo pochi mesi e già nella primavera del 1949 Navarra tornò a dirigere le attività della famiglia di Corleone. Navarra raggiunse l'apice del successo, favorendo l'elezione dell'avvocato Alberto Gensardi alla guida del Consorzio per la bonifica dell'alto e medio Belice: con tale nomina - Gensardi era il genero di Vanni Sacco, potente capo mafia di Camporeale - la mafia ribadì la propria contrarietà all'ipotesi di realizzare una diga sul fiume Belice, che avrebbe significato la fine del suo controllo sull'erogazione dell'acqua nell'agro palermitano, trapanese ed agrigentino.  Il primato raggiunto dal medico all'interno della mafia fu però messo in discussione da un suo picciotto, Luciano Liggio, l'astro nascente del panorama criminale corleonese. "Lucianeddu" iniziò giovanissimo a militare nella cosca guidata da Navarra ma l'intraprendenza e la ferocia, unite al forte ascendente che esercitava sui compagni, ne fecero ben presto un rivale temibile. Navarra si accorse di avere dato troppo spazio a quel giovane campiere e tentò di correre ai ripari, ordinandone l'uccisione. Liggio scampò però all'attentato e si prese la rivincita il 2 agosto del 1958. Quel giorno, mentre con un amico rientrava in auto da Lercara Friddi a Corleone, Navarra fu trucidato da Liggio e i suoi, lungo la statale nei pressi di Palazzo Adriano. L'uscita di scena di Michele Navarra segnò anche l'inizio dell'ascesa dei temibili corleonesi, guidati prima da Liggio e poi da Riina e Provenzano.

 

Antonino "Nino" Giuffrè (1945 - in carcere dal 16/4/2002)


 

Desined by Artino Pietro (C) 2008

Antonino GiuffrèDetto "Manuzza" per quella mano destra strappata via da una fucilata durante una battuta di caccia, 57 anni, sposato e padre di due figli, boss di Caccamo, nel palermitano.
Al l'inizio degli anni Ottanta, il giovane Nino inizia la gavetta, fa il cameriere: serve pranzo e cena all'allora capo della Cupola di Cosa nostra Michele Greco "il papa", a quel tempo latitante in un casolare di Caccamo. Quando il "papa" viene arrestato nel febbraio dell'86, lascia una buona parola per il giovane cameriere che è già nelle grazie del capomandamento di Caccamo, Francesco Intile. E' il salto, "Manuzza" non è più solo un ragazzo di bottega.
Con l'arresto di Lorenzo Di Gesù, eminenza grigia del mandamento, tramonta la stella di Pino Gaeta, boss di Termini Imerese (altro paese del palermitano). Giuffrè ne approfitta e, forte dell'alleanza con i corleonesi di Totò Riina, riesce a scalzare Gaeta e a imporre il controllo su tutta quella parte di territorio, diventa così il capo del mandamento più esteso di Cosa nostra. Sono gli anni Novanta, quelli degli affari, che "Manuzza" riesce a passare alla grande nonostante la stagione stragista di attacco diretto allo Stato decisa da Riina. Perché per la giustizia, Giuffrè non è lo spietato e freddo boss di Caccamo: è solo un perito agrario con lievi precedenti penali. Fino a che il pentito Balduccio Di Maggio rivela per la prima volta ai magistrati chi è veramente Nino Giuffrè. Quello stesso pomeriggio gli uomini della Dia piombano a Caccamo, ma il boss riesce a dileguarsi dalla porta posteriore della sua casa iniziando la latitanza. Negli ultimi anni, dopo l'arresto di Giovanni Brusca, il suo potere cresce a dismisura: allunga le mani sugli appalti miliardari per il raddoppio della linea ferroviaria Palermo-Messina e per il completamento dell'autostrada nella zona a cavallo tra le due province.
Quando, a metà degli anni Novanta, la cupola si spacca sulla strategia da seguire (stragi o trattativa con lo Stato), "Manuzza" non esita ad abbandonare Riina. Capisce che il futuro è ritornare ad immergersi, tenere un profilo basso e continuare a fare affari. E' il momento dell'avvicinamento a Bernardo Provenzano del quale organizzerà la latitanza e sposerà in pieno la tesi della ristrutturazione affaristica di Cosa nostra.
Giuffrè è stato condannato con pena definitiva a 13 anni e due mesi di carcere (pena unificata a seguito di cumulo di diverse sentenze con le quali è stato condannato per associazione mafiosa) e fino al suo arresto avvenuto in una masseria di contrada Massariazza a Vicari, era destinatario di 13 provvedimenti cautelari, fra i quali anche quello per la morte di Falcone e Borsellino. Fu trovato in un casolare con ancora addosso i biglietti e gli appunti delle cose da fare: appalti, racket, favori da concedere, uomini da valutare, messaggi dai sottoposti, messaggi per il grande capo.