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Cosa Nostra: le regole della mafia siciliana
Ordinanza-Sentenza nel procedimento penale contro Abbate Giovanni +706 (Antonino Caponnetto consigliere istruttore, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta giudici istruttori delegati), Palermo, 8 novembre 1985, vol. n.5, pp. 808-829.
Nella sentenza si descrive l'organizzazione di Cosa Nostra, secondo le testimonianze di Buscetta. Tra le molte leggi non scritte che regolano il comportamento mafioso, vi è anche l'obbligo di dire sempre la verità allorché si parla fra “uomini d'onore” di questioni comuni. La vita di Cosa Nostra (la parola mafia è un termine letterario che non viene mai usato dagli aderenti a questa organizzazione criminale) è disciplinata da regole rigide non scritte ma tramandate oralmente, che ne regolamentano l'organizzazione e il funzionamento ("nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali"), e così riassumibili, sulla base di quanto emerge dal lungo interrogatorio del Buscetta.
- La cellula primaria è costituita dalla "famiglia", una struttura a base territoriale, che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di Porta Nuova, famiglia di Villabate e così via).
-
La famiglia è composta da "uomini d'onore" o "soldati" coordinati, per ogni
gruppo di dieci, da un "capodecina" ed è governata da un capo di nomina
elettiva, chiamato anche "rappresentante", il quale è assistito da un "vice
capo" e da uno o più "consiglieri".
Qualora eventi contingenti impediscano o rendano poco opportuna la normale
elezione del capo da parte dei membri della famiglia, la "commissione"
provvede alla nomina di "reggenti" che gestiranno pro tempore la famiglia
fino allo svolgimento delle normali elezioni. Ad esempio, ha ricordato
Buscetta, la turbolenta "famiglia" di Corso dei Mille è stata diretta a
lungo dal reggente Francesco Di Noto fino alla sua uccisione (avvenuta il
9.6.1981); alla sua morte è divenuto rappresentante della famiglia Filippo
Marchese. Analogamente, a seguito dell'uccisione di Stefano Bontate,
rappresentante della famiglia di S. Maria di Gesù, la commissione nominava
reggenti Pietro Lo Iacono e Giovanbattista Pullarà, mentre a seguito
dell'uccisione di Salvatore Inzerillo, capo della famiglia di Passo di
Rigano, veniva nominato reggente Salvatore Buscemi; così, dopo la scomparsa
di Giuseppe Inzerillo, padre di Salvatore e capo della famiglia di Uditore,
veniva nominato reggente Bonura Francesco ed analogamente, dopo l'espulsione
da Cosa Nostra di Gaetano Badalamenti, capo della famiglia di Cinisi, veniva
nominato reggente Antonino Badalamenti, cugino del vecchio capo.
- L'attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale,
denominato "commissione" o "cupola", di cui fanno parte i "capi-mandamento"
e, cioè, i rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue.
Generalmente, il "capo mandamento" è anche il capo di una delle famiglie,
ma, per garantire obiettività nella rappresentanza degli interessi del
"mandamento" ed evitare un pericoloso accentramento di poteri nella stessa
persona, talora è accaduto che la carica di "capo mandamento" fosse distinta
da quella di "rappresentante" di una famiglia.
- La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento: in origine, forse
per accentuarne la sua qualità di primus inter pares, lo stesso veniva
chiamato "segretario" mentre, adesso, è denominato "capo". La commissione ha
una sfera d'azione, grosso modo, provinciale ed ha il compito di assicurare
il rispetto delle regole di Cosa Nostra all'interno di ciascuna famiglia e,
soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie.
- Da tempo (le cognizioni del Buscetta datano dagli inizi degli anni '50) le
strutture mafiose sono insediate in ogni provincia della Sicilia, ad
eccezione (almeno fino ad un certo periodo) di quelle di Messina e di
Siracusa.
-
La mafia palermitana ha esercitato, pur in mancanza di un organismo di
coordinamento, una sorta di supremazia su quella delle altre province, nel
senso che queste ultime si adeguavano alle linee di tendenza della prima.
- In tempi più recenti, ed anche in conseguenza del disegno egemonico
prefissosi dai Corleonesi, è sorto un organismo segretissimo, denominato
"interprovinciale", che ha il compito di regolare gli affari riguardanti gli
interessi di più province.
- Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l' "arruolamento" degli
"uomini d'onore" ed i loro doveri di comportamento. I requisiti richiesti
per l'arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza (si ricordi
che Leonardo Vitale divenne "uomo d'onore" dopo avere ucciso un uomo); una
situazione familiare trasparente (secondo quel concetto di "onore"
tipicamente siciliano, su cui tanto si è scritto e detto) e, soprattutto,
assoluta mancanza di vincoli di parentela con "sbirri".
La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per quei personaggi che
rappresentano, secondo un'efficace espressione di Salvatore Contorno, la
"faccia pulita" della mafia e cioè professionisti, pubblici amministratori,
imprenditori che non vengono impiegati generalmente in azioni criminali ma
prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività
apparentemente lecite.
Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per
sondare la sua disponibilità a far parte di un'associazione avente lo scopo
di "proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie". Ottenutone l'assenso,
il neofita viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno
tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia
del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani un'immagine
sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto,
quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento
della stessa, ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la
frase: "Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò
fede al giuramento".
Lo status di "uomo d'onore", una volta acquisito, cessa soltanto con la
morte; il mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e
dovunque risieda in Italia o all'estero, rimane sempre tale.
Proprio a causa di
queste rigide regole Antonino Rotolo era inviso a Stefano Bontate (oltre che
per la sua stretta amicizia con Giuseppe Calò), essendo cognato di un vigile
urbano; e lo stesso Buscetta veniva espulso dalla mafia per avere avuto una
vita familiare troppo disordinata e, soprattutto, per avere divorziato dalla
moglie.
Pare, comunque, che adesso, a detta del Buscetta, a causa della
degenerazione di Cosa Nostra, i criteri di arruolamento siano più larghi e
che non si vada più tanto per il sottile nella scelta dei nuovi adepti.
L' "uomo d'onore", dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa Nostra e ad entrare in contatto con gli altri associati. Soltanto i Corleonesi e la famiglia di Resuttana non hanno mai fatto conoscere ufficialmente i nomi dei propri membri ai capi delle altre famiglie, mentre era prassi che, prima che un nuovo adepto prestasse giuramento, se ne informassero i capi famiglia, anche per accertare eventuali motivi ostativi al suo ingresso in Cosa Nostra. In ogni caso, le conoscenze del singolo "uomo d'onore" sui fatti di Cosa Nostra dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell'organizzazione, nel senso che più elevata è la carica rivestita maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con "uomini d'onore" di altre famiglie. Ogni "uomo d'onore" è tenuto a rispettare la "consegna del silenzio": non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso all'organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita quasi sempre con la morte. All'interno dell'organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l' "uomo d'onore" deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l'interlocutore. Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con "uomini d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità viene chiamato "tragediaturi" e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in tal caso si dice che l' "uomo d'onore è posato") alla morte. Così, attraverso le regole del silenzio e dell'obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la circolazione delle notizie sia limitata all'essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie riferite siano vere.
Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le
dichiarazioni rese da "uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e
per interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della
esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola la circolazione delle
notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a comprendere come
mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d'onore si
intendano perfettamente tra di loro.
Così, ad esempio, se due uomini d'onore sono fermati dalla polizia a bordo
di un'autovettura nella quale viene rinvenuta un'arma, basterà un
impercettibile cenno d'intesa fra i due, perché uno di essi si accolli la
paternità dell'arma e le conseguenti responsabilità, salvando l'altro. E
così, se si apprende da un altro uomo d'onore che in una determinata
località Tizio è "combinato" (e, cioè, fa parte di Cosa Nostra), questo è
più che sufficiente perché si abbia la certezza assoluta che, in qualsiasi
evenienza ed in qualsiasi momento di emergenza, ci si potrà rivolgere a
Tizio, il quale presterà tutta l'assistenza necessaria. [...]
Proprio in ossequio a
queste regole di comportamento sia Buscetta sia Contorno, come si vedrà,
hanno posto una cura esasperata nell'indicare come "uomini d'onore" soltanto
i personaggi dei quali conoscevano con certezza l'appartenenza a Cosa
Nostra, e cioè soltanto coloro che avevano avuto presentati come "uomini
d'onore" e coloro che avevano avuto indicati come tali da altri uomini
d'onore, anche se personalmente essi non li avevano mai incontrati. Anche la
"presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal codice
di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri
dell'organizzazione si possano inserire estranei.
E' escluso, infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come
tale, ad un altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei
due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con un "uomo d'onore".
Occorre, invece, l'intervento di un terzo membro dell'organizzazione che li
conosca entrambi come "uomini d'onore" e che li presenti tra loro in termini
che diano l'assoluta certezza ad entrambi dell'appartenenza a Cosa Nostra
dell'interlocutore. E, così, come ha spiegato Contorno, è sufficiente che
l'uno venga presentato all'altro, con la frase "Chistu è a stissa cosa",
(questo è la stessa cosa), perché si abbia la certezza che l'altro sia
appartenente a Cosa Nostra. Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è
quella che sancisce il divieto per l'uomo di trasmigrare da una famiglia
all'altra.
Questa regola, però, riferisce Buscetta, non è stata più rigidamente
osservata dopo le vicende della "guerra di mafia" che hanno segnato l'inizio
dell'imbastardimento di Cosa Nostra: infatti, Salvatore Montalto, che era il
vice di Salvatore Inzerillo (ucciso nella guerra di mafia) nella "famiglia"
di Passo di Rigano, è stato nominato, proprio come premio per il suo
tradimento, rappresentante della "famiglia" di Villabate.
Il mafioso, come si è accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le
vicende della sua vita. L'arresto e la detenzione non solo non spezzano i
vincoli con Cosa Nostra ma, anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che
lega gli appartenenti alla mafia: infatti gli "uomini d'onore" in condizioni
finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti,
durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non si
tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è
notorio, "l'uomo d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il cibo
fornito dall'amministrazione carceraria, per quel senso di distacco e di
disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato. Unica conseguenza
della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi, per
tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte
le decisioni, dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in
possesso di tutti gli elementi necessari per valutare adeguatamente una
determinata situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata. Il capo,
comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col mondo esterno, è
sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista, che
però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere
che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate. Durante la
detenzione è buona norma, anche se non assoluta, che l'uomo d'onore
raggiunto da gravi elementi di reità non simuli la pazzia nel tentativo di
sfuggire ad una condanna: un siffatto atteggiamento è indicativo della
incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Adesso, però, sembra che
questa regola non sia più seguita, e, comunque, che non venga in qualche
modo sanzionata, ove si consideri che sono numerosi gli esempi di detenuti
sicuramente uomini d'onore, che hanno simulato la pazzia (vedi in questo
procedimento gli esempi di Giorgio Aglieri, Gerlando Alberti, Tommaso
Spadaro, Antonino Marchese, Gaspare Mutolo, Vincenzo Sinagra "Tempesta").
Tutto ciò, a parere di Buscetta, è un ulteriore sintomo della degenerazione
degli antichi princìpi di Cosa Nostra. Anche il modello di comportamento in
carcere dell'uomo d'onore, descritto da Buscetta, è radicalmente mutato
negli ultimi tempi.
Ricorda infatti Tommaso Buscetta che in carcere gli "uomini d'onore"
dovevano accantonare ogni contrasto ed evitare atteggiamenti di aperta
rivolta nei confronti dell'autorità carceraria. Al riguardo, cita il suo
stesso esempio: si era trovato a convivere all'Ucciardone, per tre anni, con
Giuseppe Sirchia, vice di Cavataio ed autore materiale dell'omicidio di
Bernardo Diana, il quale era vice del suo grande amico, Stefano Bontate; ma,
benché non nutrisse sentimenti di simpatia nei confronti del suo compagno di
detenzione, lo aveva trattato senza animosità, invitandolo perfino al pranzo
natalizio. Questa norma, però, non è più rispettata, come si evince dal
fatto che Pietro Marchese, uomo d'onore della famiglia di Ciaculli, è stato
ucciso il 25.2.1982 proprio all'interno dell'Ucciardone, su mandato della
"commissione", da altri detenuti.
Unica deroga al principio della indissolubilità del legame con Cosa Nostra è
la espulsione dell'uomo d'onore, decretata dal "capo famiglia" o, nei casi
più gravi, dalla "commissione" a seguito di gravi violazioni del codice di
Cosa Nostra, e che non di rado prelude all'uccisione del reo. L'uomo d'onore
espulso, nel lessico mafioso, è "posato".
Ma neanche l'espulsione fa cessare del tutto il vincolo di appartenenza
all'organizzazione, in quanto produce soltanto un effetto sospensivo che può
risolversi anche con la reintegrazione dell'uomo d'onore. Pertanto l'espulso
continua ad essere obbligato all'osservanza delle regole di Cosa Nostra. Lo
stesso Buscetta, a causa delle sue movimentate vicende familiari, era stato
"posato" dal suo capo famiglia Giuseppe Calò, il quale poi gli aveva detto
di non tenere conto di quella sanzione ed anzi gli aveva proposto di passare
alle sue dirette dipendenze. Anche Gaetano Badalamenti, nel 1978, benché
fosse capo di Cosa Nostra, era stato espulso dalla "commissione", per motivi
definiti gravissimi, su cui però Buscetta non ha saputo (o voluto) dire
nulla.
L'uomo d'onore posato non può trattenere rapporti con altri membri di Cosa
Nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola. E
proprio basandosi su questa regola, Buscetta si era mostrato piuttosto
scettico sulla possibilità che il Badalamenti, benché "posato", fosse
coinvolto nel traffico di stupefacenti con altri uomini d'onore; sennonché,
venuto a conoscenza delle prove obiettive acquisite dall'ufficio, si è
dovuto ricredere ed ha commentato che "veramente il danaro ha corrotto tutto
e tutti".
Anche la vicenda della espulsione di Buscetta da parte di Calò appare
nebulosa.
Il Buscetta, infatti, aveva avuto comunicata la sua espulsione addirittura
da Gaetano Badalamenti e durante la detenzione non aveva ricevuto, come
d'uso per i "posati", alcun aiuto finanziario da parte della sua "famiglia";
per contro il suo capo famiglia Pippo Calò lo aveva esortato a non tenere
conto di quanto andava dicendo quel "tragediaturi" di Badalamenti e si era
scusato per la mancanza di aiuto finanziario, assumendo che non era stato
informato; aveva notato inoltre che in carcere gli altri uomini d'onore
intrattenevano con lui normali rapporti, come se nulla fosse accaduto.
Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è l'assoluto divieto per l'"uomo
d'onore" di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo
il Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla
polizia giudiziaria per evitare che l'uomo d'onore, titolare del veicolo
rubato, possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con
l'uso dello stesso; naturalmente, può essere denunciato soltanto il fatto
obiettivo del furto, ma non l'autore. Del divieto di denunciare i furti, vi
è in atti un riscontro persino umoristico riguardante il capo della
"commissione", Michele Greco. Carla De Marie, titolare di una boutique a
Saint Vincent, era solita fornire alla moglie di Michele Greco capi di
abbigliamento che spediva a Palermo, tramite servizio ferroviario,
regolarmente assicurati contro il furto. Una volta, il pacco era stato
sottratto ad opera di ignoti durante il trasporto, e la De Maria aveva più
volte richiesto telefonicamente alla signora Greco di denunciare il furto,
essendo ciò indispensabile perché la compagnia assicuratrice rifondesse il
danno. Ebbene, la moglie di Michele Greco, dopo di avere reiteratamente
fatto presente alla De Marie che il marito non aveva tempo per recarsi alla
polizia per presentare la denunzia, aveva preferito pagare i capi di
abbigliamento, nonostante che non li avesse mai ricevuti.