INDICE :

1) Le mie case

                                                                                Le mie case

 

Sommario :

La casa dove sono nato

La casa della Gemma

La casa di Aulla

La casa di Massa

Camporgiano. La casa dell’Editta

Minucciano. La casa della Delfa

Camporgiano. La casina del Rumito

La Casetta 1947

La Casetta 1951

La Casetta oggi

La Casetta vive

La casa di Marisa

La casa del Rodolfo

La casa del Grilli

La casa finalmente nostra

 

 

La casa dove sono nato

Monzone 1930-1933

 

Non è che di questa casa mi ricordi un gran che, anche se ci ho vissuto fin quasi a tre anni di età. Molte cose le so perché me le hanno raccontate. Di ricordi personali chiari ho quello di un gran camino (o forse era a me che pareva grande) davanti al quale la sera stava tutta la famiglia che, oltre a mio fratello Guido e ai miei genitori, comprendeva anche i miei nonni materni. Ricordo i visi rossastri, specialmente quello di mio nonno Giovanni, una volta che era andata via la luce per cui i visi erano illuminati dalla fiamma del camino. Ricordo anche l’ingresso, abbastanza vasto, quella volta che era venuto a trovarci l’Eliseo, fratello di mia nonna Mariuccia, che era torrnato inaspettatamente dall’Argentina dopo cinquant’anni. Lo ricordo bene perché, mentre tutti erano in piedi e stavano dicendosi le ultime cose prima di salutare l’Eliseo che stava partendo ed io giocavo con un bastone (forse un manico di scopa) cercando di starci sopra con i piedi in equilibrio, il bastone mi ruzzolò sotto i piedi ed io picchiai una bella botta in terra, battendo anche la testa, per cui i saluti furono disturbati da questo piccoletto urlante e piangente che cercava consolazione in braccio alla mamma. E dell’interno della casa, salvo qualche altro confuso barlume, sostanzialmente non ho altri ricordi. Ricordo molto bene il lungo e stretto giardino che correva lungo tutta la villa, costituito da un marciapiedi pavimentato lungo il quale si succedeva una serie di aiuole con piante e fiori. Naturalmente i ricordi di questo luogo si sono mantenuti facilmente perché anche dopo che non abitavamo più lì avevo modo di passarci davanti e di vederlo. L’appartamento che noi abitavamo era un’ala della grande villa del Signor Giannetti, grosso proprietario terriero e gran signore.

Il resto dell’edificio era abitato soltanto dal Signor Mario Giannetti e dalla moglie perché non avevano figli. All’altra estremità della villa c’era la cappella privata. La domenica mattina Don Andrea diceva la prima messa in questa cappella e anche la gente poteva assistere, evitando, così, si salire a Monzone Alto dove era la chiesa nella quale Don Andrea diceva la messa “grande” alle ore undici. Spesso anche i signori Giannetti assistevano alla messa delle otto ma senza scendere nella cappella. Essi, infatti, potevano assistere dall’alto, da una balconata cui potevano accedere dalla villa e che si apriva sulla cappella. Due fatti accaduti nel giardino che ho detto, ricordo. Il primo – dovevo essere molto piccolo perchè mia madre teneva in braccio me e in mano un piatto di riso in brodo – è quello di mia madre che, cercandi di ficcarmi in bocca qualche cucchiaiata di riso, diceva a delle persone che erano lì davanti nella strada: “Guardate come è bravo il mio bambino che mangia il suo risino”, mentre io sentivo con fastidio che c’era qualcosa che non andava in quel discorso perché il riso io proprio non volevo mangiarlo. Il secondo si riferisce invece a quella volta che Guido – di dieci anni più grande di me – mi faceva giocare. Mio padre, che aveva sempre a disposizione una quantità di cassette di legno dentro le quali arrivava la merce per il negozio, con le tavolette di quelle casse mi aveva costruito un cavallo di legno che poggiava su un piano cui aveva applicato quattro ruote. Naturalmente sarà stata una costruzione piuttosto rozza, ma a me piaceva moltissimo e moltissimo mi piaceva stare in groppa mentre Guido mi trascinava con una cordicella lungo il marciapiede. Ma proprio di fronte a noi abitava un signore che chiamavano “il ministro”, che era il marito dell’Ernesta e padre delle tre figlie Piera, Dina e Ada. Era una famiglia con la quale siamo sempre stati in grande amicizia, ma il “ministro” era un burlone e si divertiva a farmi arrabbiare dicendomi: “Ma quello non è un cavallo, è una capra”. Ed io mi arrabbiavo veramente e mi affannavo a controbatterlo dicendo che era effettivamente un cavallo.

 

primacasa

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                            Ed ecco la casa. Il muretto con la sovrastante cancellata sono gli originali. A destra, di là dalle aiole, corre il marciapiedi dove

                            Guido mi trascinava, in groppa al mio cavallo di legno.

 

 

cappellagiannetti

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                            All’altra estremità della casa del Giannetti era la cappella della casa (porta marrone con gli stipiti in pietra a sinistra. In alto si

                            intravede l’ombra nera del ponte che collega la villa Giannetti al loro giardino situato dall’altra parte della strada. Ponte che

                            ha dato il nome al rione “Ponte”

 

 

La casa della Gemma

Monzone 1933-1941

 

Tutti i migliori ricordi della mia infanzia sono legati a questa casa. Voglio cominciare col descriverla. Mi piace farlo perché mi aiuta a scavare nei ricordi della mia infanzia. Si chiamava “casa della Gemma” perché in passato fu di questa Gemma che vi gestiva (allora la casa era molto più grande) un albergo e ristorante. In quel tempo Gemma era morta e il proprietario era un certo Rossi che abitava a Isolano. Ho detto che la casa era molto più grande, ma quando fu costruita la ferrovia (credo nel primo decennio del secolo ventesimo) fu necessario tagliare un bel pezzo di questa casa, forse la metà, per consentire il passaggio dei binari in quella strettissima valle del fiume Lucido che aveva, alla sua destra, la strada per Equi Terme e, alla sua sinistra, prima una breve striscia di terreno, il cosiddetto “Sottogora”, poi la gora che portava l’acqua alla segheria del marmo, a fianco di questa  la strada di Vinca e, a fianco di questa, appunto la ferrovia. Al di qua della ferrovia c’era la casa e, poi, la stradicciola detta “Riolo” lungo la quale era la casa della Gemma.

 Anche dopo il taglio della ferrovia, comunque, la casa aveva ancora una discreta dimensione. La pianta aveva la forma di un trapezio, la cui base minore si apriva su una piazzetta – pure di proprietà della casa – alla quale si accedeva dal “Riolo” che la fiancheggiava. La base maggiore del trapezio, invece, rappresentava la parte opposta della casa sulla quale si apriva una porta a vetri che era l’ingresso dell’appartamento.

 Rispetto a chi si trovava nella piazzetta, cioè di fronte alla base minore, lungo il lato obliquo di sinistra correva la ferrovia, divisa dalla casa da una “murella” alta circa un metro e sovrastata da belle pietre squadrate e da un marciapiede largo, anche questo, un metro o poco più. In definitiva il treno passava a una distanza di circa tre metri dalla casa, facendo un bel fracasso. Lungo il lato obliquo di destra, invece, correva la via della “Riolo” . Detta via rappresentava un piccolo rione che cominciava al passaggio a livello (cinquanta metri sotto la casa della Gemma) e terminava al “Ponte” , altro piccolo rione dove si trovava la casa dove sono nato e che, con il rione detto “La mancina” costituiva la struttura di Monzone Basso, formato, appunto, da questi tre rioni.

 Ma veniamo alla casa: partendo dalla piazzetta ne percorrerò il piano terra descrivendolo.

 

Il piano terreno

 

 La bottega

Dalla piazzetta, attraverso un’ampia porta a vetri si entrava nel negozio di articoli casalinghi e da regalo gestita da mia madre. Era una stanza larga come tutta la casa e altrettanto lunga. La forma era trapezoidale, come, inevitabilmente, quasi tutte le stanze della casa e aveva una finestra munita di inferriata che guardava verso la ferrovia. Nella parete di fronte all’ingresso si aprivano: sulla destra un’ampia apertura che la metteva direttamente in comunicazione col “magazzino”,

sulla sinistra una porta grigio chiaro a due battenti che immetteva in un corridoio dal quale partivano le scale che conducevano al piano superiore. La “bottega” era convenientemente scaffalata e le scaffe erano piene di merci. Vediamo ora se la mia memoria mi consente di ricordare come erano disposte le merci..

 Sulla destra di chi entrava, nella stessa parete della porta, c’erano oggetti da regalo: ricordo vasi di cristallo, vassoi e vasi da centro-tavolo, servizi da tavola e cose del genere. Sulla parete di destra c’era soprattutto del pentolame. Ricordo, in particolare, pentole e tegami smaltati (allora molto diffusi) di colore blu, molto appariscenti. Nell’angolo a sinistra di chi entrava, scaffalato fino alla finestra, c’era della ferramenta: padelle, forse paioli e, in basso, attrezzi agricoli. Forse anche del materiale elettrico.

 Oltre la finestra e per tutto l’angolo fino alla porta grigia le scaffe contenevano casalinghi, soprattutto molte stoviglie. Nella parete di fronte all’ingresso, subito dietro il banco, c’erano pure scaffe fino al soffitto ma non ricordo bene cosa contenessero. Forse anche qui pentolame di alluminio. Ricordo solo che in basso, forse proprio appoggiati in terra, c’erano diversi cartocci cilindrici alti circa mezzo metro e con un diametro di circa 15 centimetri pieni di chiodi di varie misure.

 Il banco, di legno ma a vetri sul davanti per l’esposizione di merci, era largo circa un metro e lungo circa due. Sopra, alla sinistra di chi stava al banco, c’era una bella bilancia a piatti, coi piatti e i pesi di ottone sempre lucidi. Sul retro si aprivano due cassetti su cui venivano depositati gli incassi e anche dei documenti (fatture, suppongo). Appeso al soffitto proprio in mezzo alla stanza c’era un “piatto” (così si chiamavano i riflettori che riflettevano la luce verso il basso) abbastanza grande e – mi pare – di vetro dipinto. La lampada era abbastanza potente e luminosa.

 Come ho detto l’ingresso all’appartamento era sul retro. Potevamo, però, entrare anche dalla bottega e raggiungere la cucina attraverso il magazzino. Forse evitavamo di passare dal negozio quando c’erano dei clienti, ma, in linea di massima, usavamo indifferentemente l’uno o l’altro ingresso.

Il magazzino

Entrando dalla bottega ci si trovava davanti uno stanzone più stretto della bottega ma più lungo. Subito a sinistra si apriva una porta che dava nell’andito che era anche il vano-scale; sulla parete di fondo, di fronte a noi, si apriva, nel bel mezzo della parete, una porta a vetri che dava nella cucina e, alla sinistra di questa, una finestra che dava nel salottino adiacente alla cucina. Era uno stanzone piuttosto ombroso. Infatti non aveva nessuna apertura diretta verso l’esterno e prendeva luce soltanto dalla bottega, discretamente luminosa, dalla porta dell’andito che aveva una finestra proprio di fronte, dalla porta a vetri della cucina poco luminosa e, soprattutto, dalla finestra del salottino che era luninosissimo perché aveva una intera parete a vetri. Comunque se si doveva fare qualcosa nel magazzino bisognava accendere la luce. Questo locale fungeva veramente da magazzino e, infatti, la lunga parete alla destra di chi entrava era scaffalata e piena di merci di scorta. Merci che trovavano posto anche direttamente a terra, di fronte alle scaffe perché, evidentemente, non trovavano posto sulle scaffe stesse. Ma non era esclusivamente magazzino del negozio. Nell’angolo in fondo a destra, fin dove non arrivavano le scaffalature del magazzino, c’era una leggera scaffalatura dove trovavano posto altre cose che non riguardavano il negozio. Delle cose che si trovavano lì, però, ricordo solo la temuta bottiglia dell’olio di ricino e, forse, anche quella altrettanto temuta della medicina contro i “vermi” dell’intestino.

 Lungo la parete alla sinistra di chi entrava, subito dopo la porta dell’andito si trovava un grande e robusto tavolo di legno, con il piano nero e malandato, sotto il quale trovavano posto i fiaschi del vino e, forse, anche qualche damigiana. Sopra di esso, invece, era stata costruita una apposita scaffalatura che arrivava quasi al soffitto e che fungeva da libreria. Essa conteneva tutti i libri che mio padre, appassionato lettore di opere storiche e anche di romanzi storici, continuamente accumulava. Non posso non ricordare l’imponente storia d’Italia di Paolo Giudici, opera popolare ma rigorosa che era uscita a fascicoli che mio padre aveva a suo tempo acquistato e poi fatto rilegare in cinque colossali volumi. Essa era ricca di illustrazioni poiché ogni fascicolo aveva la copertina illustrata da un bel disegno che rappresentava una delle vicende storiche narrate nel fascicolo. Poiché il tavolo che sorreggeva la libreria era molto largo e anche molto robusto, per accedere alla libreria specie alle scaffe alte, si saliva in piedi direttamente sul tavolo. A fianco di tale libreria e, quindi, vicina alla finestra del salottino era stata costruita un’altra scaffalatura che era la libreria di Guido. Essa conteneva, essenzialmente, i libri di scuola di Guido che diventavano via via più abbondanti col procedere dei suoi studi. Mi pare, ma non ne sono sicuro, che proprio sotto la finestra suddetta ci fosse un’altra bassa scaffetta sulla quale trovavano posto le scarpe della famiglia. Appoggiata al grande tavolo veniva spesso ricoverata la bicicletta che fu regalata a Guido credo nel 1936, dopo che ebbe brillantemente superato l’esame di quinta ginnasio. Anche in questo locale l’illuminazione notturna era rappresentata da una lampada appesa al soffitto sotto a un “piatto” bianco smaltato.

La cucina

La cucina era il cuore della casa. Qui si cucinava, qui si mangiava, qui si soggiornava, qui si ricevevano gli ospiti. Soltanto in estate frequentemente si mangiava, si soggiornava e si ricevevano gli ospiti anche nel salottino. Raramente e solo in occasioni importanti si pranzava nella sala che era al piano di sopra. Entrando in cucina dal magazzino ci si trovava dinanzi, nel bel mezzo della parete di fondo, ad un bello e abbastanza grande camino di marmo. Era, questa, l’unica fonte di riscaldamento della casa. D’inverno veniva acceso prestissimo da nonna Mariuccia che era la prima ad alzarsi (salvo quando qualcuno doveva partire col treno delle cinque, ma anche in quel caso il fuoco veniva acceso più tardi da lei) e rimaneva ininterrottamente acceso e convenientemente alimentato fino a che non si andava a letto. Ma anche di estate veniva acceso perché le minestre venivano cotte entro pentole col manico per appenderle alla catena, che le teneva sospese sopra la fiamma. Sopra al camino c’era la consueta mensola con la sveglia e una serie di barattoli.

 Subito a destra di chi entrava, appoggiata alla parete che la divideva dal magazzino, c’era una bella madia di legno chiaro lucentissimo. Credo fosse stata acquistata al momento del trasferimento in questa casa. La “madia” era un mobile classico delle cucine di un tempo. Era costituita da una parte superiore lunga oltre un metro e larga una settantina di centimetri, coperta con un apposito coperchio di legno che aveva un bordo sul davanti e ai lati per una migliore chiusura e che non era incardinato affinchè si potesse togliere in caso di necessità. In questa parte, infatti, si faceva l’impasto del pane quando quasi tutte le famiglie il pane lo facevano in casa. Non ricordo, però, che noi si sia mai fatto (anche se è probabile che qualche volta sia accaduto) perché comperavamo il pane – ottimo – da Pilade, che era il fornaio in cima al Riolo, quindi vicino a casa nostra. Così la parte alta della madia veniva usata per conservare varie derrate alimentari, compreso il pane di Pilade. La parte bassa della madia, formata pure da un unico vano, aveva due sportelli per accedervi e serviva per conservare altre derrate, particolarmente le bottiglie di vino e olio. Subito di là dalla madia c’era un grazioso tavolinetto che aveva il piano fatto a scacchiera sul quale, dal 1936, stava la nostra monumentare radio Phonola che veniva ascoltata generalmente la sera ma anche in altri orari. Al di là di questo, proprio nell’angolo, c’era la grande vetrina nera costruita da mio padre con le tavolette delle cassette ma che, con gli sportelli a vetri nella parte superiore, con dei piedi rotondi evidentemente acquistati già pronti e con una ottima verniciatura sembrava un mobile importante. Nella parte superiore stavano le stoviglie, in quella inferiore parte delle scorte alimentari (ricordo riso e farina) .

 Nella parete di destra – che era, poi, il muro perimetrale della casa – c’era un grande fornello in muratura che la occupava quasi tutta. C’era anche un fornello molto grande, da usare con grosse caldaie, ma noi non lo abbiamo mai usato. Ritengo fosse quello il fornello dove la Gemma cucinava per il ristorante. Sopra al fornello c’era una grande cappa che lo sovrastava tutto onde disperdere in alto la micidiale anidride carbonica prodotta dalla combustione del carbone di legna che veniva usato. Anche questa cappa aveva una mensola sulla quale stavano diversi oggetti. Di questi ricordo i pacchetti di “Carcadè”, un sostituto del tè e i pacchetti dei surrogati del caffè. Ovviamente questi ricordi si riferiscono al tempo di guerra, quando tè e caffè non si trovavano più. Sui fornelli mia madre cucinava le pietanze usando tegami e padelle. Delle minestre che, come ho detto, venivano cucinate al fuoco del camino si occupava generalmente la nonna.

 Spesso, però, interveniva anche la mamma per mettere nella pentola un bel mestolino di olio di oliva.

 Nella parete a sinistra di chi entrava dal magazzino si apriva, subito a sinistra, la porta a vetri che dava nel salottino. In fondo, vicino all’angolo, si apriva una finestra che guardava pure nel salottino e dava, insieme alla porta, luce alla cucina. Davanti alla finestra era l’acquaio di marmo piuttosto grande. Subito a destra dell’acquaio, appoggiato alla parete di fondo, c’era un’ampia scaffa, pure di marmo, che si prolungava verso il camino per un metro e mezzo almeno. Su questa scaffa stavano la secchia di rame e un paio di secchi di lamiera zingata. Era la riserva d’acqua che la nostra domestica teneva sempre rifornita. Infatti non c’era l’acqua in casa per cui bisognava andare a prenderla con i secchi. Le domestiche si recavano a una sorgente considerata molto buona che sgorgava vicino al fiume.  Per raggiungerla bisognava scendere per un sentiero che scendeva al fiume subito dopo il passaggio a livello.

 Una scaffa di marmo lunga come la precedente ma più stretta c’era anche più in alto. E anche a sinistra dell’acquaio, fra la porta e la finestra che davano nel salottino, c’erano altre scaffe di marmo. Non ricordo che cosa si teneva su quelle scaffe. L’unica cosa che ricordo è una tazza con un “panetto” di burro immerso in acqua che veniva tenuto sulla scaffa alta di sinistra. In mezzo alla cucina c’era un grande tavolo col piano di marmo con tante sedie impagliate (almeno sette o otto) . Più tardi (credo verso il 1938 o 1939) mio padre fece costruire una grande cassapanca con lo schienale alto che riparava le spalle da correnti fredde che stava proprio davanti al camino. Era comoda ma ingombrante. Per l’illuminazione notturna c’era un piatto simile a quello del magazzino ma con una lampada più forte.

Il salottino

Era, questa, la stanza più luminosa della casa. Infatti la parete che dava verso la ferrovia era di legno nella parte bassa (alta circa un metro) e di vetro spesso e colorato la parte superiore. Nel mezzo c’era una porta, anch’essa a vetri, che si apriva verso l’interno e consentiva di uscire sul marciapiedi esterno che correva a fianco della ferrovia. Dopo pochi anni dal nostro trasferimento (credo nel 1935 o 36) però, la Ferrovia impose di chiudere l’apertura in modo da non consentire l’uscita, considerata pericolosa per la eccessiva vicinanza dei binari. Così fu costruita esternamente una parete in mattoni alta quanto la parte in legno e la parte superiore fu chiusa con una grossa inferriata a grandi quadri. (anche tutte le altre finestre del pianterreno che si aprivano verso la ferrovia erano munite di inferriata)  In questo modo la luminosità del salottino rimase pressochè la stessa, la porta si poteva ancora aprire per dare aria alla stanza, ma non si poteva più uscire. Entrando in questa stanza dalla cucina, dunque, ci si trovava di fronte la grande vetrata che ho appena descritto. Nella parete che la divideva dalla cucina, oltre alla porta si apriva anche, come ho già detto, una finestra che dava luce alla cucina. Nella parete di destra – che era poi il muro esterno – si apriva, all’estremità destra, una porta a vetri che era la porta di accesso all’appartamento. Nella parete di sinistra, invece, subito dopo la porta della cucina, si apriva una finestra che dava luce al magazzino, come ho già detto. All’altra estremità della parete e, quindi, vicino alla vetrata, si apriva una porta a due battenti che immetteva nell’andito. Il salottino era arredato con un grande tavolo rotondo nel centro, con due grandi poltrone di vimini e con una serie di sedie di vimini (mi pare sei) che noi chiamavamo poltroncine. Sia le une che le altre erano guarnite con dei cuscini colorati (mi pare rossi). Non c’era altro, salvo una colonnina di ebano sopra la quale stava un vaso o, forse, una scultura, di cui ho un ricordo vago. Al soffitto era appeso un lampadario di qualche pretesa ma non riesco a ricordarne le fattezze.

L’andito

Si trattava di un lungo corridoio che metteva in comunicazione il salottino con il negozio. Entrando dal salottino si trovava subito, sulla sinistra, una porta grigia a un solo battente che immetteva in un piccolo sottoscala. Era un piccolo locale poco usato. L’unico uso che se ne faceva era quello di conservarci al fresco le bottiglie di vino che mio padre ogni tanto acquistava. Proseguendo si trovava, sul muro esterno di destra, una finestra che dava luce all’ambiente. Nella parete di fondo c’era la porta a due battenti che immetteva in “bottega”, mentre nella parete a sinistra si apriva la porta che immetteva nel magazzino. Appoggiate alla stessa parete, poi, c’erano le scale di marmo per salire al piano superiore. Nell’angolo fra la finestra e la porta della “bottega” c’era un discreto spazio dove, a volte, veniva tenuta la bicicletta di Guido anziché nel magazzino. Almeno una volta o due in quell’angolo ho costruito, sopra un tavolo abbastanza ampio, un bel Presepe. Ma il più delle volte ne costruivo uno piccolo sulla ampia soglia della finestrache stava fra il salottino e il magazzino. Credo che l’andito non avesse una sua illuminazione notturna se non quella della lampada che illuminava le scale e che, se ricordo bene, era collocata sul pianerottolo di metà scala.

La cantina

Per concludere la descrizione del piano terreno della casa della Gemma devo parlare anche della cantina. Bisogna sapere che l’edificio di cui stiamo parlando aveva una sorta di appendice alla base maggiore del trapezio, costruita, forse, dopo l’amputazione della casa originaria operata dalla ferrovia. Si trattava di una costruzione a due piani che, lungo il “Riolo”, proseguiva per una diecina di metri il muro della casa formandone parte integrante. La larghezza di questa appendice, però, non era come quella della casa, bensì circa la metà, cosicchè il muro della cantina rivolto verso la ferrovia faceva angolo col muro della casa dove si apriva la porta di ingresso. Uscendo dalla porta di ingresso dell’appartamento (quella del salottino) ci si trovava in un piccolo cortiletto coperto da un’ampia terrazza che lo sovrastava. Subito a destra, sempre sotto la terrazza, nel muro della cantina si apriva un’ampio portone a due battenti che vi dava accesso. Di fronte a questa, quindi subito a sinistra di chi usciva dall’ingresso, si apriva una porta ad un solo battente che dava accesso ai servizi igienici che costituivano, anch’essi, una piccola appendice alla casa. Per utilizzarli, quindi, bisognava uscire di casa, rimanendo, però, sotto la copertura del terrazzino.

 All’interno, illuminato da un piccolo finestrino aperto verso il giardino, c’era soltanto la tazza del water ma, ahimè, non c’era l’acqua, per cui bisognava tenervi una brocca piena d’acqua da gettare nella tazza dopo l’uso.

 La “cantina” in realtà non era una vera cantina con tini e botti. Essa, che era un ampio stanzone rettangolare, fungeva anzitutto da legnaia. Nel muro davanti alla porta d’ingresso, infatti, c’era sempre una notevole catasta di legna da ardere che, come ho detto, veniva consumata anche in estate per i servizi di cucina. Ma possiamo dire che era anche lavanderia. Infatti, subito a sinistra dell’ingresso, troneggiava un’enorme “conca” di terracotta ( la conca era un enorme vaso fatto a tronco di cono con la parte più larga in alto e un foro in basso per far defluire i liquidi) nella quale, periodicamente, veniva fatto il bucato: riempita la conca di panni sporchi (prevalentemente lenzuola), questi venivano coperti con una tela sopra la quale veniva versata della cenere fino a ricoprirla. Poi veniva gettata ripetutamente dell’acqua bollente sopra la cenere finchè, filtrata attraverso le tela e i panni, fuorusciva dal foro apposito di cui s’è detto. Questo liquido, che era detto “lisciva”, veniva recuperato, riportato al bollore e gettato di nuovo sopra la cenere più e più volte. Questo liquido, passando e ripassando attraverso i panni, li sbiancava perfettamente. Finita questa operazione i panni venivano tolti e portati al lavatoio dove venivano sciacquati in acqua corrente.

 Oltre a ciò la “cantina” fungeva anche da garage. Accostate al muro che guarda il giardino, di fronte alla legna, c’erano ricoverate tre motociclette. Due erano del Rossi, il padrone di casa: una antidiluviana, conservata come antichità, non l’ho mai vista funzionare. L’altra, invece, veniva usata regolarmente dal Rossi stesso che la teneva lì perché abitava a Isolano, all’epoca non raggiungibile in motocicletta perché privo di strada. La terza era quella che il Sindacato aveva fornito a mio padre. Era una Bianchi 250. Infine la cantina, che aveva un’altra porta nel muro di fondo, a sinistra di chi entrava, dalla quale si usciva nell’orto, era anche luogo privilegiato di giochi, specie quando pioveva. Aprendo la porta dell’orto, infatti, la cantina veniva a godere di una eccellente illuminazione. Ricordo che, proprio di fronte alla porta di ingresso e prima della catasta di legna, c’era un grosso cilindro di legno (non ho mai capito a cosa fosse servito) pieno di cianfrusaglie, nel quale pescavamo spesso degli oggetti che servivano per i nostri giochi, E c’era anche una grande pila di pietra, di quelle entro le quali un tempo si conservava l’olio, entro la quale io tenevo una quantità di giornalini per ragazzi e anche altri oggetti per i giochi, in particolare spade e pugnali di legno che Guido mi costruiva con le tavolette delle cassette da imballaggio. Con le quali mi costruiva anche, ogni tanto, degli oggetti per giocare molto grandi. Ricordo una torretta “di avvistamento” (così la chiamavamo nei nostri giochi) e anche una grande barca (così grande che non trovava posto in cantina, per cui me la costruì nel cortiletto antistante) sopra la quale si poteva salire e, dalla tolda, si poteva scendere nella stiva attraverso un boccaporto. Naturalmente il fondo della stiva era il pavimento del cortiletto.

 Molti sono i ricordi legati alla cantina, come, del resto, ad ogni ambiente di quella casa. Anche la cantina aveva la sua lampada col solito piatto smaltato.

Il giardino e l’orto

Prima di passare a descrivere il piano superiore devo dire qualche parola anche sul giardino e l’orto. Cominciamo dal giardino. Poiché il giardino e la fagiolaia erano adiacenti alla ferrovia, ritengo che per essi mio padre pagasse un affitto alle Ferrovie. Comunque sono sempre stati nella nostra disponibilità.

 Il giardino cominciava subito al di là del cortiletto che era sul retro della casa. Per accedervi bisognava passare per un vialetto inghiaiato che correva lungo il muro della cantina e, percorso fino in fondo, dava accesso all’orto. Infatti il lato che fronteggiava il cortiletto e che andava dalla “murella” al vialetto suddetto era chiuso da una rete (o, forse, da fili di ferro) e da una lunga aiola, che proseguiva poi lungo la “murella” e nella quale crescevano dei giganteschi fiori gialli

Che erano poi dei topinambur. Essi erano così alti che proteggevano la “privacy” del giardino. Pressochè dove questa aiola faceva angolo il babbo aveva fatto montare un tavolo con i piedi di marmo fissati a terra e il piano tutto di marmo. Era molto gradevole, d’estate, cenare all’aperto su questo tavolo e lasciare che piano piano la notte ci sommergesse. Vicino al tavolo e nei pressi della “murella c’era un grosso oleandro sul quale potevo perfino arrampicarmi. Nel mezzo del giardino c’era un piccolo “bersò”  fatto con delle rose rampicanti. Dentro a questo “bersò” la mamma, d’estate, metteva una grossa vasca piena d’acqua e, quando il sole l’aveva resa tiepida, io ci facevo il bagno. Intorno c’erano altre piccole aiole dove venivano coltivati altri fiori. Ricordo, in particolare, le “rose turche”. Intorno alle aiole correvano dei minuscoli vialetti inghiaiati.  Al di là del giardino, che andava all’incirca, fin dove arrivava la “murella”, cominciava l’orto che veniva coltivato da qualche agricoltore amico. In un primo tratto venivano coltivate varie verdure. Ricordo i pomodori che, qualche volta, mangiavo a morsi come una mela. Subito dopo cominciava la lunga fagiolaia che arrivava diversi metri oltre. Qui la “murella” non c’era più e a dividere l’orto dalla ferrovia c’era del filo spinato. Alla fine della murella, però, c’era un’apertura attraverso la quale si poteva scendere nella ferrovia, attraversarla (naturalmente lontano dagli orari del treno) e arrivare alla strada di Vinca, alla “gora” e, poi, al fiume. Avevamo, però, un altro piccolo terreno (che credo appartenesse alla casa) che si trovava dietro la cantina, a fianco del terreno delle ferrovie. Ricordo che il babbo lo fece ripulire e scassare e ci fece seminare le patate. Credo però sia stata l’unica volta. Dopo era un prato, al quale si accedeva direttamente anche dalla porta di dietro della cantina di cui ho parlato. Questo terreno era delimitato dalla cantina, dal muro di sostegno della strada sovrastante (il Riolo) e dal muro dell’orto di Rizieri, un po’ sopraelevato, di fronte alla nostra cantina. Il quarto lato era aperto verso l’orto e la fagiolaia. Nell’angolo fra il muro della cantina e il muro di sostegno della strada avevamo anche il pollaio, costituito da un casotto per il ricovero delle galline circondato da un recinto di rete abbastanza vasto dove le galline potevano razzolare. Delle galline si occupava con grande piacere la nonna Mariuccia. D’inverno sia l’orto che la fagiolaia erano terreno di giochi indiavolati.

 

 

Il piano superiore

 

Nell’accingermi a descrivere il piano superiore della casa della Gemma mi sovvengo che di esso non è così viva la memoria e le emozioni ner ricordare sono meno intense. Probabilmente perché tutte le mie esperienze più significative sono legate al piano terra, dove vivevo, giocavo, incontravo gli amici. Al piano superiore, salvo qualche occasione, si andava quasi esclusivamente per dormire. Ricordo, comunque, con sicurezza la disposizione delle stanze e, in gran parte, anche il loro contenuto in mobili. Vediamo, quindi, di rievocare anche questa parte di casa.

Le scale e i pianerottoli

 Poiché le serate si trascorrevano tutte in cucina, quando era l’ora di andare a letto si entrava nel magazzino, se ne usciva dalla porta a destra in fondo e ci si ritrovava ai piedi della scala. La scala era tutta di marmo, larga oltre un metro, quindi ampia e comoda. La prima rampa giungeva fino a un pianerottolo e. da qui, un seconda rampa in senso opposto saliva fino al pianerottolo di arrivo. Esso era abbastanza ampio e anche un po’ complesso. Mi pare che avesse una lampada appesa al soffitto perché la lampada sul primo pianerottolo non avrebbe potuto illuminarlo convenientemente. Subito sulla destra si apriva una finestra che dava verso la ferrovia e lo illuminava perfettamente. Di fronte a chi saliva  si apriva una porta grigia a due battenti per la quale si entrava nella sala, che sovrastava esattamente la bottega e, quindi, aveva la stessa ampiezza. A sinistra, proprio nell’angolo, si apriva una porta uguale alla precedente dalla quale si entrava nella camera matrimoniale. Volgendosi con la schiena verso la sala, sulla destra, subito dopo la porta di accesso alla camera, c’erano tre scalini di marmo che davano accesso a una specie di ballatoio che correva fino al muro dove si apriva una porta che dava accesso alla camera di Guido. Il ballatoio era sopraelevato rispetto al piano del pianerottolo onde garantire al pianerottolo di metà scala un soffitto sufficientemente alto.

La camera matrimoniale

 Entriamo ora nella camera dei miei genitori, nella quale, in un lettino di ferro nero, ho sempre dormito anch’io. Subito a destra, appoggiato alla parete di destra ci stava il “canterale” con quattro grandi cassetti e un ampio specchio che lo sovrasta, appoggiato sul piano del mobile. Nel murodi di fronte a chi entra c’era una finestra che dava sul Riolo. Davanti alla finestra, munita di tende, c’era la “toilette” consistente in una struttura di ferro con due piani di marmo. Sul piano superiore stava una grande catinella che, se non ricordo male, era di ceramica e, a fianco di essa, c’era il portasapone e, forse, gli spazzolini da denti e non so cos’altro. Nel piano inferiore stava una bella brocca, forse di ceramica anch’essa, dalla quale si versava l’acqua nella catinella per l’igiene quotidiana. Alto, sul retro, c’era uno specchio orientabile e, ai lati, due porta-asciugamani pure di metallo verniciato. Appoggiato allo stesso muro, fra la finestra e l’angolo a sinistra, stava l’armadio a specchio di legno scuro, a due ante grandi.  Lo specchio, alto, consentiva la visione dell’intera persona. Nella parete di sinistra si apriva la porta che dava accesso alla camera dei nonni. E, alla parete di fronte alla finestra erano appoggiati i letti: quello dei miei genitori era il primo vicino alla porta. Al di là di quello, vicino all’angolo, c’era il mio lettino di ferro nero con le sponde laterali che, quando ero piccolo, mi impedivano di cadere. Il letto dei miei genitori era, invece, di lamiera sagomata color marrone, a imitazione del mogano. E aveva, a ogni lato, un comodino. La stanza era illuminata, la notte, da una lampada di poche candele applicata alla parete sopra il letto matrimoniale mediante un braccio di ottone e un riflettore di vetro a forma di fiore che accoglieva la lampadina. Nella parete di sinistra, fra il mio lettino e l’armadio, si apriva la porta a due battenti che portava nella camera dei nonni che, necessariamente, dovevano passare o da questa camera o dalla camera di Guido.

La camera dei nonni

Questa camera era stata destinata ai nonni perché era la più calda. Infatti era collocata proprio sopra la cucina e il camino passava proprio nella parete cui era appoggiato il letto. Era, questa, la parete di fronte alla porta di ingresso. Nel muro a destra si apriva la finestra che dava sul Riolo mentre nella parete a sinistra si apriva la porta che dava nella camera di Guido. Da notare che la camera di Guido d’inverno era particolarmente fredda per cui in questa stagione il letto di Guido veniva spostato nella camera dei nonni, a fianco del loro letto. Non andavo quasi mai nella camera dei nonni per cui ho ricordi poco precisi su quello che era l’arredamento. Credo non avesse un armadio. Forse – ma non ne sono certo – aveva un “canterale” e un baule (o una cassa di legno). Quasi sicuramente c’era il consueto “lavabo” di ferro con catinella e brocca ma più piccolo e più semplice di quello dell’altra camera. Naturalmente a fianco del letto c’erano i due comodini.

La camera di Guido

Quando dormiva lì Guido preferiva accedervi passando dal ballatoio, usufruendo così di un’entrata indipendente. Poiché il ballatoio, come ho cercato di dire, era a un livello più alto di quello delle camere, appena si entrava dalla porta ci si trovava su un pianerottolino privo di ringhiera, dal quale si scendeva nella camera mediante tre scalini. Sul muro di fronte a chi entrava c’era appoggiato il letto a una piazza di Guido, con un comodino a lato. A destra del letto, vicino all’angolo, si apriva la porta che dava sulla terrazza. A sinistra c’era il muro con una finestra che guardava la ferrovia, a destra la parete con una porta che dava nella camera dei nonni. Davanti alla finestra c’era il consueto “lavabo” di ferro con catinella e brocca. Nella camera di Guido mi recavo spesso a fare ginnastica con lui (facevamo gli esercizi che trovavamo illustrati nell’Enciclopedia Bompiani che mio padre aveva appena acquistato e che conservo ancora) per cui la ricordo piuttosto bene. E sono praticamente certo che non c’eralo altri mobili o arredi oltre quelli descritti.

Il terrazzo e l’ufficio

Il terrazzo era veramente bello grande e comodo. E molto assolato perché rivolto a sud. Non ho ricordi precisi ma penso che qui saranno stati stesi ad asciugare i panni lavati. Quello che ricordo bene è quando si rifacevano i materassi. Un tempo i materassi erano semplicemente ripieni di lana e ogni qualche anno andavano rifatti. Veniva, cioè, tolta fuori la lana, stesa al sole e qui, con l’aiuto di tutti, doveva essere “sfatta”, cioè allargata in modo da renderla più morbida e più voluminosa. Poi veniva di nuovo inserita dentro il “guscio”, cioè il contenitore, l’esterno del materasso che risultava bello gonfio e soffice e, a questo punto, veniva “cucito” con una serie di punti che fermavano la lana e davano al materasso il suo aspetto tipico. Mi piaceva molto “sfare la lana” in mezzo a tutto quel bianco che riempiva tutta la superficie del terrazzo. Esso era delimitato da una ringhiera di ferro e si affacciava sul cortiletto sottostante e sul giardino. Si vedeva anche l’orto, naturalmente, e fino in fondo alla lunga fagiolaia.

 Entrando dalla camera di Guido sulla sinistra c’era un gabinetto simile a quello del piano terra, sopra il quale era collocato. Sulla destra, invece, c’era il muro dell’ufficio nel quale si apriva una porta che ne consentiva l’accesso. Così mio padre, fin che ha avuto lì l’ufficio, poteva entrarci senza uscire di casa, direttamente dal terrazzo.

 Entrando in ufficio dal terrazzo ci si trovava in una stanza che fungeva da ingresso e da sala d’aspetto (anche se bisognava aspettare in piedi). Infatti, proprio di fronte alla porta del terrazzo, dalla parte opposta della stanza, c’era la porta di ingresso che si apriva sul Riolo. Era, ovviamente, l’ingresso che serviva a tutti coloro che dovevano recarsi al sindacato o all’ufficio di collocamento, che convivevano. La parete a destra di chi entrava dal terrazzo divideva questo locale dalla camera dei nonni e, ovviamente, non aveva aperture. A sinistra, invece, c’era una parete di legno al di là della quale c’era l’ufficio vero e proprio. Nel mezzo di questa parete si apriva uno sportello al quale si affacciavano gli utenti. All’estrema sinistra, vicino alla porta del terrazzo, c’era la porta per accedere all’ufficio. L’ufficio era una bella stanza grande e ariosa (si trovava proprio sopra la cantina) giacché aveva una finestra munita di inferriata nella parete a destra di chi entrava, affacciata sul Riolo, e una finestra nel muro di fronte, che si affacciava sull’orto e sul pollaio. Proprio davanti a questa finestra c’era un grande scrivania rivolta verso l’interno dell’ufficio mentra davanti all’altra finestra ce n’era un’altra più piccola (almeno così mi pare).  Nel muro a sinistra di chi entrava (quello verso il giardino) c’era un vano scaffalato pieno di cartelle zeppe di documenti. E proprio davanti a questi scaffali c’era una macchina da scrivere poggiata su un apposito tavolinetto. Chi la usava volgeva la schiena alle scaffe. Questa parte dell’ufficio è quella che ricordo meglio perché spesso andavo a trovare il mio papà e scrivevo a macchina. Ero ancora piccolo, forse sei o sette anni, perché dopo poco (forse nel 1938 o 39) il babbo dovette trasferirsi ad Aulla, tutto il materiale venne portato via e la stanza – che allora sembrava ancora più grande – rimase vuota e disponibile per andarci a giocare.

La sala

Ho lasciato per ultima la sala che era la stanza più importante della casa, anche se si usava piuttosto raramente. Ricordo, infatti, di averci pranzato e soggiornato soltanto quando avevamo qualche ospite di riguardo. Anche se, curiosamente, era in sala che mia madre mi costringeva a ingerire la medicina contro i vermi (che, a quel tempo, erano diffusissimi fra i ragazzi che, giocando per la strada, avevano sempre le mani sporche di terra e, purtroppo, poteva accadere di mettere le mani in bocca o, magari, di prendere in mano la merenda senza essersi lavati) e, poi, a fare la “cacca” e i vermi nel vasino. Non riesco a ricordare come mai proprio lì. Forse perché, tentando di sfuggire alla mamma, finivo proprio lì e lì venivo catturato. O forse ero io che sceglievo quel luogo per la tragica bisogna perché, per qualche ignoto motivo, la trovavo più tranquillizzante. Chissà !

 La sala, dunque, era collocata proprio sopra la bottega ed era altrettanto grande. Aveva un bel pavimento (in realtà tutta la casa aveva pavimenti piuttosto belli per l’epoca, ma quelli della sala e del salottino erano più ricercati) ma non ricordo la forma e il colore delle mattonelle ed era luminosissima. Aveva, infatti, sul muro di fronte a chi entrava una finestra e una porta-finestra che davano sul terrazzino che si affacciava sul piazzale antistante; sul muro di destra si apriva una seconta finestra che guardava verso la ferrovia e su quello di sinistra una terza finestra affacciata sul Riolo.

 L’arredo consisteva in un grande e anche allungabile tavolo di legno circondato da sei (o, forse otto) sedie di legno di legno scuro e di buona fattura. In mezzo al tavolo c’era un centro-tavolo formato da una coppa di cristallo che poggiava su un grande piatto pure di cristallo. Dal soffitto pendeva, proprio sopra il tavolo, un pesante lampadario di ottone e vetro con quattro lampade o, forse, più. Nell’angolo, fra la finestra del Riolo e quella del terrazzino, stava la vetrina.

 Le cosiddette “vetrine” erano, all’epoca, un mobile molto diffuso sia nelle cucine (più modeste) che nelle sale (di legno migliore, lavorate con più cura, con disegni decorativi sia sul legno che sul vetro). Esse avevano una base tutta di legno, chiusa con due ante, entro la quale, sopra a due scaffe, si collocavano le stoviglie e altro. Sopra a tale base stava una “alzata”, cioè, in pratica, una continuazione del mobile verso l’alto, fatto dello stesso legno ma con le due ante a vetri. All’interno, su tre scaffe, stavano i “cristalli”, cioè bicchieri e calici di varia forma, brocche, bottiglie eccetera. Nell’altro angolo, fra la porta-finestra e la finestra della ferrovia stava una graziosa colonna di ebano che sosteneva una scultura. Davanti alla finestra della ferrovia stava un grazioso tavolinetto col piano che aveva, nel centro, una scacchiera intarsiata (il solito che, nel 1936, fu trasferito in cucina per sorreggere la radio).  Subito a sinistra della porta d’ingresso, appoggiato alla stessa parete, c’era un divano nuovo (credo sia stato acquistato nel 1933 quando ci trasferimmo in quella casa e, forse, insieme agli altri mobili della sala) che noi chiamavamo “sofà”. Era rivestito da una stoffa con disegni non troppo appariscenti ed aveva il sedile e anche lo schienale con molle. Con manovre piuttosto complicate poteva essere trasformato in letto. Ricordo che una volta ci dormì lo zio Settimo che era venuto a trovarci. Alle pareti c’erano alcune foto e un paio di quadri. Ma devo anche ricordare che nell’angolino vicino alla porta Guido aveva appeso il testo di tre discorsi pronunciati da Mussolini durante e a conclusione della guerra d’Africa del 1936. Naturalmente erano opportunamente incorniciati.

 E con questo ho terminato di descrivere la casa dove ho trascorso dai 3 agli 11 anni, cioè tutta la mia infanzia. Questa lunga descrizione ha fatto riaffiorare una grande quantità di ricordi che mi hanno fatto rivivere tanti episodi, quasi tutti lieti, di questo periodo quasi mitico della mia vita che, ora che mi sto avvicinando alla fine del mio viaggio, rievoco con grande piacere e con grande piacere racconterò nella pagina “narrazioni” di questo stesso sito.

 Nelle foto che seguono e che guardo e riguardo con nostalgia, si vede come è oggi la casa, vuota e molto degradata, ma con molti elementi (porte, finestre, pavimenti e altro) che sono gli stessi del tempo in cui ci ho vissuto.

 

casagemma

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                      La casa della Gemma ormai abbandonata (2010) , con la porta della bottega originale, il piazzaletto ormai invaso dalle

                      Erbacce e diventato un parcheggio abusivo. Al piano superiore la porta finestra della nostra sala, che dava sul balconcino

                      A sinistra la “murella” (sempre quella di allora) e, al di là, la vicinissima Ferrovia. Fra la murella e la casa il marciapiedi

                      ormai intransitabile per le erbacce e gli arbusti che vi sono cresciuti malgrado fosse cementato. Anche oltre la murella,

                      però, nascono degli arbusti, malgrado la ferrovia sia ancora attiva (Linea Lucca-Aulla). A destra il “Riolo”.

 

 

retro

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco il retro della casa come si presenta ora, in pieno degrado. Il terrazzo, ove al posto della ringhiera di un tempo è stato costruito uno strano muro di mattoni, è delle dimensioni di allora e sovrasta il piccolo cortile sul quale si apriva la porta di ingresso (in basso, nel centro, se ne intravede la parte alta). In alto a destra si vede la “piccionaia” che sovrastava i servizi igienici del piano di sopra, identici a quelli di sotto. In alto nel centro si vede l’apertura per accedere al soffitto non praticabile. In basso a destra si intravede il finestrino che dava luce al gabinetto. L’alto muro a sinistra è il muro della cantina in fondo al quale, oltre il tubo di scarico delle canale del tetto, si intravede, sempre sotto il terrazzo, l’apertura per accedervi. La porta non c’è più.

 

salottino

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il pavimento che si vede in primo piano è quello del salottino. Sotto la patina grigiastra si intravede ancora la forma esagonale delle belle mattonelle colorate di quel tempo. Sulla destra c’è la finestra che dava luce al magazzino, ora murata. Di fronte c’è la porta che da accesso alla cucina, subito oltre la quale c’era, sulla destra, la porta che dava nel magazzino. Anche il pavimento della cucina è sempre lo stesso, a mattonelle bianche e nere. A sinistra si vede la finestra, sempre la stessa, che dava luce alla cucina. Nella parete della cucina che si intravede stava la nostra madia di legno chiaro e lucido.

 

pollaio

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla destra si vede il retro della cantina, con la porta che dava accesso all’orto, ora diventato una giungla. Si intravede la porta, probabilmente sempre la stessa. Il muro di fronte è il muro di sostegno alla strada soprastante (il Riolo). Nell’angolo stava il pollaio. La linea obliqua più bassa potrebbe essere un residuo del vecchio tetto del pollaio.

 

il riolo

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ed ecco il Riolo, che corre a fianco della casa della Gemma. La prima finestra a sinistra era quella della sala, la seconda quella della camera di mamma e papà, la terza quella della camera dei nonni. La porta che si intravede quasi in fondo era l’ingresso all’ufficio dall’esterno e la finestra che si vede in fondo, munita di inferriata, era una finestra dell’ufficio.

 

 

terrazzino

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il terrazzino al quale si accedeva dalla sala. E’ ben visibile la porta con le persiane mal ridotte (certamente sono quelle di allora) mentre la finestra che pure dava sul terrazzino è stata murata. Si vede in segno della muratura. La porta sottostante, sicuramente quella dell’epoca, è ancora intatta, con gli stipiti e il bell’arco di pietra. La porta era a vetri ma ogni sera venivano apposti gli sportelloni che coprivano il vetro. E ogni mattina venivano tolti, scoprendo il vetro che rendeva luminosissima la bottega.

 

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                            Per rendere meglio comprensibile la descrizione della casa ho tracciato, alla meno peggio, la pianta dei due piani.

 

 

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