La Casetta 1951

 

Nell’autunno del 1951 (mi pare il primo novembre) i contadini lasciarono il podere e, quindi, la casa. Questo consentì una redistribuzione razionale delle stanze della casa che, ora, era abitata soltanto da due famiglie: quella della zia Delfina e la nostra. Così Delfa occupò le quattro stanze della metà ovest della casa mentre noi occupammo le quattro (due a terreno e due al primo piano) della parte est. Il miglioramento fu notevole soprattutto per noi, perché, finalmente, avemmo una vera cucina. Infatti Delfa lasciò la cucina che aveva per occupare quella che era dei contadini, mentre noi andavamo ad occupare quella che lei aveva lasciato. Erano vere cucine entrambe (così è sempre stato alla Casetta anche se la abitava solo il nonno paterno Carlo) con caminetto e acquaio, due cose che prima noi non avevamo. Nella stanza che prima era la nostra cucina (e che era l’unica pavimentata con mattonelle non di cotto) facemmo il nostro salotto e, al primo piano, quella che era stata la camera di Guido e mia, divenne la camera della mamma e del babbo mentre io (io solo perché Guido nel 1950, mentre io ero militare, si era sposato con Lisetta e viveva a Monzone) mi ero spostato nella nuova camera acquisita che si trovava sopra il nuovo salotto.

 Naturalmente l’ingresso alla casa, i due corridoi o anditi (di sotto e di sopra) e il gabinetto rimasero in comune.

 Ed ora vediamo di descriverla, anche se ci furono pochissimi arricchimenti in fatto di mobilio e, in realtà, furono gli stessi poveri mobili di prima diversamente distribuiti nella quattro stanze. Parto dall’ingresso:

L’andito di sotto

Era un vano completamente spoglio. Il pavimento era costituito da un battuto di cemento un po’ malridotto e il soffitto era formato (come quello di tutte le stanze del piano terreno) da bei travi e travicelli di castagno che sostenevano rosse mezzanine di cotto. Su uno dei travi era conficcato un enorme chiodo al quale, una volta, veniva appeso il maiale per essere macellato. Sulla destra si aprivano due porte: la prima immetteva nel nostro “salotto” e la seconda nella nostra cucina. A sinistra c’erano altre due porte simmetriche che immettevano: la prima nel salotto della Delfa e la seconda nella sua cucina. In fondo a sinistra c’era la scala di pietra che, con una prima rampa, saliva fino al pianerottolo da cui si accedeva al terrazzino e al gabinetto. A destra, invece, c’era una porta che immetteva nel sottoscala. Il sottoscala lo occupavamo noi perché Delfa aveva la disponibilità del vecchio porcile situato vicino, nei pressi della capanna di Jaccò. L’unico uso di questo andito era il passaggio di tutti noi

La sala

Entrando in casa, la prima porta a destra era quella della sala. Come ho detto era quella che era stata la nostra cucina di fortuna fino alla partenza dei contadini.

Essa era, in realtà, una stanza pressochè del tutto disadorna. Di tutti i mobili della cucina che c’erano prima era rimasta solo la stufetta ora non più necessaria in cucina dove avevamo il caminetto e un fornello a gas. Di questo fornello debbo dire che comparve già nella vecchia cucina nel 1950, quando io ero militare. Venendo in licenza trovai questa eccellente novità e il babbo mi spiegò che nel suo negozietto di San Romano aveva preso a vendere anche questi fornelli e le necessarie bombole di gas. E subito ne aveva preso uno per noi. Così la stufetta era rimasta nella “sala” e consentiva di riscaldarla quando qualcuno voleva soggiornarvi. Oltre a questo c’era il tavolo di legno che prima era in camera nostra e, nell’angolo a destra subito dopo la porta, la libreria che pure era in camera di Guido e mia. Una splendida illuminazione diurna era assicurata dalle due finestre che davano sulla campagna. L’illuminazione elettrica consisteva in una lampada appesa al soffitto con un riflettore rotondo di ferro smaltato di bianco che, però, era guarnito da una specie di tendina circolare fatta di perline di vetro colorate, che esisteva fin da quando la casa era abitata dal nonno e che, evidentemente, aveva resistito alla guerra e a tutti i successivi eventi. Era una cosa carina che faceva apparire meno ordinario il piatto riflettore smaltato. C’era anche una sedia impagliata per sedersi al tavolino. Più che una sala, quindi, era uno studiolo molto modesto ma gradevole.

La cucina

Sempre a piano terra, la seconda porta a destra era quella della cucina. Entrando si notava, appoggiata alla parete di destra, la madia e, oltre la madia, nell’angolo in fondo, la rozza vetrinetta costruita dal babbo con le tavolette di qualche cassa recuperata non so dove. Nel muro esterno che fronteggia la porta, proprio nel mezzo, si apriva l’unica finestra che guardava verso la cima della vigna, cioè verso nord-est. La posizione. gli alberi di cerro che circondavano la nostra proprietà e la capannina che si trova lì vicino facevano sì che non entrasse molta luce per cui la stanza era piuttosto ombrosa. Solo d’estate entrava qualche raggio di sole al mattino presto. Al muro esterno a sinistra di chi entra, che è senza aperture, era appoggiato un mobiletto chiuso da due ante, pure fatto dal babbo, sopra il quale troneggiava il fornello a gas a tre fuochi. Una cosa graditissima alla mamma che non doveva più sporcarsi le mani col carbone.

 Appoggiato al muro interno nel quale si apriva la porta, subito a sinistra, si poteva vedere il caminetto, con una bella cappa rotonda, alla base della quale c’era la consueta mensola su cui trovavano posto il macinino del caffè, la sveglia e vari barattoli. Nel mezzo alla stanza c’era il tavolo di legno ma col piano di marmo, con le sedie intorno. Sospesa al soffitto, proprio nel mezzo, c’era la solita lampada col piatto riflettore smaltato.

La camera dei genitori

Vi si accedeva dalla prima porta a sinistra appena saliti all’andito di sopra, proprio in cima alle scale. Era la stanza collocata proprio sopra la cucina, quella dove prima dormivamo Guido ed io (e, dal dicembre 1950, quando venni in congedo, io solo perchè Guido si era sposato).  I mobili erano gli stessi: il vecchio letto di ferro appoggiato allo stesso muro della porta. La testata rimaneva un po’ discosta dal muro perché appoggiava sulla sporgenza rappresentata dalla canna fumaria che saliva dalla cucina di sotto. Nell’angolo in fondo a sinistra, appoggiate al muro di sinistra, c’erano le tre famose cassette per proiettili di artiglieria che servivano da canterale mentre l’attaccapanni mi pare fosse attaccato nel muso di fronte alla porta, nell’angolo in fondo a destra. Davanti alla finestra che dava verso la cima della vigna c’era il solito semplice lavabo.

La camera mia

La porta per accedere a quella che ora è la camera mia è la seconda a sinistra per chi sale al primo piano. Essa, infatti, si trova sopra alla nostra nuova “sala” ed è luminosissima per le due finestre: una a est, verso la cima della vigna e l’altra a sud, sul davanti della casa. La camera è semplicissima. Il mio vecchio manumentale letto di ferro (vecchio letto della Casetta) è stato smontato ed io dormo nel lettino che era di Guido. E’ anch’esso di ferro ma più moderno, con la rete su cui appoggiare il materasso. Oltre al letto, che è appoggiato alla parete che divide la camera da quella dei genitori  c’è, davanti alla finestra che guarda a sud, il solito lavabo. Mi pare che non avevo comodino. E non c’era altro, giacchè il tavolo e la libreria erano state portata in “sala”. Ma resterò solo per pochi mesi. Il 23 febbraio 1952, infatti, sposerò Marisa e quella, da me opportunamente ridipinta, sarà la nostra camera matrimoniale. Che ora mi accingo a descrivere.

La prima camera matrimoniale di Marisa e mia

Naturalmente con il mio matrimonio e l’arrivo di Marisa la camera cambiò aspetto. Anzitutto fu da me ridipinta di bianco con disegni verdi prodotti con il pennello usato come tampone. Poi, dato che non avevamo mobili (quando decidemmo di sposarci, la nostra intenzione era di andare in Australia con l’aiuto della zia di Marisa che abitava là. Ma per varie ragioni il progetto andò a monti), chiedemmo ad Anna Pellegrinetti in Paoletti, cugina di mio padre e figlia di Jaccò di poter prendere in prestito la camera di Jaccò che non era usata da nessuno. La risposta fu sì, per cui provvidi a smontare il letto a due piazze e il canterale e a portarli su dalla vicina casa di Jaccò. Il letto, di ferro ma con rete metallica, fu appoggiato alla parete che divideva la nostra camera dalla camera dei miei (come era il mio lettino che, se ricordo bene, fu smontato e portato in soffitta) e il canterale fu appoggiato al muro esterno che guarda verso la cima della vigna, nell’angolo fra le due finestre. Rimase al suo posto il lavabo, davanti alla finestra sul davanti. Non avevamo comodini. Dopo poco tempo, però, il Rodolfo Regoli, che faceva il falegname, ci costruì un letto di legno moderno, anche se non certo di lusso, che pagammo a rate di 2000 lire al mese per nove mesi (la decima ci fu abbuonata per cui il letto costò 18000 lire) cosicchè il letto di Jaccò fu riportato al suo posto. Non così il canterale che rimase lì fino a quando trasferimmo la camera a casa di Marisa.

La soffitta

Dall’andito di sopra, a fianco delle scale, c’é una porta a vetri, aperta la quale ci si trovava di fronte una rampa di scale di pietra che sale fino a un pianerottolo. Da qui parte una seconda rampa di scale di legno che porta al vano sovrastante l’andito dei primo piano. Sopra alle nostre camere, quindi a sinistra di chi saliva, c’erano il vano di nostra competenza che si estendeva, senza divisioni intermedie, sopra le nostre due camere. Vi si accedeva attraverso due aperture: una subito a sinistra di chi saliva le scale, l’altra sempre a sinistra ma in fondo al vano-andito. Nella soffitta non si poteva stare in piedi se non nel mezzo del vano-andito, sotto il culmine del tetto. Per il resto bisognava stare chinati, per cui è sempre stato usato molto poco. Anche le aperture di accesso erano basse e malagevoli.

 

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La Casetta oggi

Nella Casetta così come è oggi io non ho mai vissuto. Ma l’ho frequentata pressochè quotidianamente sia quando ci vivevano i miei genitori, sia dopo. Perché fin da bambino ho sempre percepito la Casetta come luogo di luce, di pace, di serenità. Tutt’oggi è raro che passi un giorno senza che io vada alla Casetta a fare qualcosa nei campi, o in casa, o anche senza fare alcunché, magari accendendo il fuoco se è inverno, o leggendo qualche pagina di uno dei libri che si trovano alla Casetta. In definitiva la sento un po’ come casa mia anche se vivo altrove. Per questo mi fa piacere descriverla nella sua evoluzione e nel suo stato attuale.

La sala

Cominciamo dalla prima stanza che si trova entrando. Bisogna che dica che, dopo la morte dei genitori di Marisa (Dino 1959, Olga 1960) avremmo potuto andare a vivere in quella casa che ora è di Marisa. Ma avremmo dovuto farvi dei lavori e non avevamo i mezzi, inoltre nella casa del Grilli, dove allora abitavamo c’era anche il magazzino dei biscotti del babbo, ed era necessario che noi abitassimo lì per dargli l’aiuto che gli occorreva. Per cui decidemmo di affittare la casa per ricavarne un piccolo utile. Dopo alcuni tentativi non positivi di affitarla ammobiliata a dei villeggianti, ci fu chiesta dall’Iside per la sua famiglia e, poiché essa aveva i suoi mobili, noi dovevamo sgombrarla. Così accadde che Marisa decise di regalare alcuni vecchi mobili alla Polda, cugina di Olga ed i mobili della sala e della cucina alla Casetta. Così la vetrina, il tavolo con le sei sedie di legno leggero e con decorazioni come usavano una volta per le sale e il divano andarono ad arredare la sala. La vetrina, bella e ben conservata, fu appoggiata al muro esterno davanti alla porta vicino all’angolo di destra, il tavolo e le sedie furono collocati, ovviamente, in mezzo alla stanza e il divano fu appoggiato alla parete di sinistra, che divide la sala dalla cucina. La libreria rimase dov’era, cioè appoggiata al muro esterno nell’angolo vicino alla porta. Inoltre: appoggiata al muro di fronte alla porta ma nell’angolo a sinistra verrà, negli anni successivi, appoggiato uno scaffaletto stile “svedese” che si riempirà di libri mentre un secondo verrà appoggiato allo stesso muro interno della porta, nell’altro angolo a sinistra, esattamente di fronte al primo. Tali scaffaletti che prima usavamo noi, furono da noi dismessi quando avemmo altri mobili per i libri.

 A quel punto la stufetta fu tolta e portata in soffitta. Diversi anni dopo fu portata nel vano della finestra una stufa a cherosene che era stata acquistata quando la mamma si ammalò e il babbo la portò a vivere nella casetta degli Accorsini a Camporgiano per essere più vicini a noi, al medico e a tutte le comodità. Tale stufetta, dopo la morte della mamma e l’abbandono di tale casetta, la prendemmo noi e andò a sostituire la vecchia Worm Morning a carbone. E quando noi andammo a vivere nella casa di Marisa ristrutturata (Dicembre 1979) la portammo, appunto, alla Casetta. Ma non funzionava bene per cui l’abbiamo rottamata.

 Le due finestre della sala ora hanno le tende.

 Debbo anche dire che, nella parte bassa della vetrina uso tenere una decina di fiaschi di vino di mia produzione e, cosa che compromette l’immagine della sala, a terra, fra la porta e la vetrina, tendo i miei due “frullini” (nome corretto: decespugliatrice) per averli a portata di mano quando devo segare l’erba.

La cucina

Anche la cucina beneficiò dei mobili di Marisa. Ebbe, infatti, la vetrina per la cucina, che fu collocata nel bel mezzo del muro esterno alla sinistra di chi entra.

 Proprio di fronte alla porta, subito a sinistra della finestra che guarda verso la cima della vigna fu posto il mobiletto con sopra il fornello a gas. A destra del caminetto, nell’angolo, c’era una specie di divanetto (poi eliminato) fatto dal babbo con il sedile posteriore della “Balilla”. In mezzo alla stanza c’era ancora il nostro tavolo col piano di marmo che, però, verrà poi sostituito col nostro bel tavolo pure col piano di marmo, che portammo alla casetta quando noi comperammo una nuova cucina, e che c’è tutt’ora. La vetrinetta fatta dal babbo fu eliminata e portata in soffitta. Della madia il babbo eliminò la parte superiore e mise il coperchio sopra alla parte inferiore che fu messa nell’andito e serviva da sedile. Attualmente si trova nel baraccone dietro casa. Ulteriori trasformazioni furono fatte negli anni sessanta quando il babbo fece mettere un bell’acquaio di ceramica nell’angolo a sinistra della finestra, eliminando il vecchio acquaio. In quell’occasione fu possibile anche portare l’acqua corrente in casa, facendo a nostre spese (d’accordo con tutti i vicini) un piccolo acquedotto allacciato all’acquedotto del paese. Fu murata, infine, una caldaia di ferro nel caminetto che produceva acqua calda per il rubinetto e anche per un radiatore che era stato posto nella camera sovrastante che, così, veniva un po’ riscaldata. Sempre in quegli anni il babbo, che lavorava i biscotti di Maggiora, riceveva dei regali anche importanti. Uno fu una bella cucina a gas, con fornelli e forno, che andò a sostituire il vecchio fornello occupandone il posto. Funziona ancora. Dopo la morte della mamma il babbo veniva a passare l’estate alla Casetta (dove veniva a passare l’estate anche Delfa con Mirella e la sua famiglia) per cui acquistò un frigorifero di seconda mano che fu appoggiato alla parete che divide la cucina dalla sala, subito dopo la porta. Le ultime importanti trasformazioni avvennero nel 1994 quando noi comperammo una nuova cucina. Allora portammo giù la vecchia cucina e mettemmo la base a due ante più la cassettiera appoggiata alla stessa parete del frigorifero, al di là ai questo, poi montammo i pensili sopra la base e sopra l’acquaio nonché il pensile con cappa aspirante sopra la cucina a gas. Poco prima avevamo sostituito anche il vecchio frigorifero che aveva smesso di funzionare con il nostro che, a sua volta, era stato da noi sostituito con un frigorifero più grosso che, a sua volta ancora, era stato sostituito da quello della nuova cucina (Il frigorifero grosso, troppo grosso per la cucina della Casetta, lo regalai alla Nicoletta figlia di Mirella)

 Nell’angolo dove il babbo aveva messo il divanetto ci portammo anche un televisore in bianco e nero con relativo portatelevisore, quando noi ne comperammo uno a colori. Ha funzionato per poco, dopo di che è stato eliminato. C’è rimasto il portatelevisore con sopra un minitelevisorino portatite (regalato da Giordano vini) che funzionava in analogico ed ora, ovviamente, non funziona più (funziona solo come radio).

 Su una scaffetta posta a destra della cappa del camino c’è una scaffetta sulla quale sta la nostra vecchia radio a valvole, che regalammo ai miei genitori e che funziona ancora perfettamente.

 Ed è questo l’aspetto attuale della cucina, tutto perfettamente funzionante. Qualche rara volta ci andiamo a mangiare la pizza, o le frittelle, o le caldarroste.

Per un certo periodo di tempo andavo con i miei colleghi, una volta l’anno, a fare un pranzetto a base di bucatini all’amatriciana e bistecche alla griglia con patate cotte sotto la cenere. Era l’amico Agoglia che cucinava ottimamemte. Ma anche quell’abitudine si è perduta.

La camera “di dietro”

E’ quella sopra la cucina, che era dei miei genitori. In origine aveva lo stesso mobilio di prima e cioè un vecchio letto di ferro appoggiato al muro interno cioè quello stesso della porta, le tre cassette da munizioni sovrapposte per la biancheria collocate nell’angolo in fondo a sinistra, appoggiate al muro esterno che guarda verso la strada, il lavabo davanti alla finestra che guarda verso la cima della vigna e un attaccapanni a destra di tale finestra. Dopo la morte dei genitori di Marisa si aggiunse un armadio a due ante senza specchio e due ampi cassetti in basso che fu collocato appoggiato alla parete che divide le due camere, cioè a destra di chi entra. Quando, poi, noi cambiammo la nostra vecchia camera (letto fatto dal Rodolfo e il resto dal Fiorani “Tranquillo”) essa fu portata alla Casetta e sostituì il vecchio mobilio che fu eliminato. Il letto fu messo nello stesso posto, l’armadio a tre ante con gli specchi fu posto al posto dell’altro che fu portato nella camera davanti insieme al canterale che non trovò posto in questa camera. Nel muro di fronte alla porta, a sinistra della finestra, fu collocata la “toelette” piuttosto grande e con un grande specchio. Il lavabo fu sostituito con uno più grande, con due piani di marmo e uno specchio che il babbo aveva portato la Monzone poiché Guido non lo usava più. Successivamente, però, dopo la morte della mamma e il semi-abbandono della Casetta (il babbo ci viveva solo i tre mesi d’estate) la Cinzia prese l’armadio che gli serviva per cui ci fu rimesso quello di prima. E questo assetto è rimasto immutato fino a oggi.

La camera “davanti”

Quella che era la mia cameretta divenne la nostra camera nuziale quando Marisa ed io ci sposammo il 23 febbraio 1952. Il lettino fu smontato e portato in soffitta e in suo luogo fu collocato il letto in lamiera stampata che ci aveva prstato l’Anna di Jaccò. Insieme al letto ci aveva prestato anche il canterale che fu posto nell’angolo sul davanti della casa, appoggiato al muro che guarda verso la cima della vigna. Il lavabo rimase al suo posto. Poco dopo il letto dell’Anna fu restituito e sostituito da quello di legno fatto dal Rodolfo. Quando Marisa ed io ci trasferimmo in casa sua fu restituito anche il canterale e fu riportato giù il lettino e la camera ritornò come era prima del mio matrimonio. Quando, poi, portammo giù la nostra vecchia camera si aggiunse il canterale che fu collocato appoggiato al muro interno nel quale si apre anche la porta. In epoca più recente noi acquistammo un armadio nuovo e l’armadio della camera precedente fu portato alla Casetta e collocato in questa camera, appoggiato al muro esterno che guarda verso la cima della vigna (quindi di fronte alla porta). Essendo esso a sei ante e, quindi, molto lungo, ha occupato pressochè interamente la parete ostruendo, quindi, anche la finestra. Così la camera prende luce solo dalla finestra sul davanti. In epoca ancora più recente ho portato a casa un vecchio computer dismesso dallo Snals con relativa stampante per cui ho portato giù un vecchio tavolinetto che avevamo in soffitta, lo ho collocato nell’angolo interno a sinistra della porta, dopo il canterale e appoggiato alla parete divisoria e vi ho collocato sopra il computer. La stampante è provvisoriamente sul canterale.  Nell’angolo subito a destra della porta, appeso al muro esterno c’è un attaccapanni. Questo è l’assetto attuale.

Il sottoscala

Per completezza debbo descrivere anche il sottoscala. Si tratta di un locale angusto ma molto utile. E’ sempre stato utilizzato anzitutto come ripostiglio per le scope e gli altri attrezzi per la pulizia. Poi il babbo montò alla bella e meglio tre scaffette subito a destra entrando e una proprio sopra la porta e furono usate per tenere vari attrezzi come martelli, pinze, tenaglie, ecc. nonché, in quelle più in alto, veleni vari da usare contro insetti e parassiti. Entrando ci si trova nello spazio sottostante alla seconda rampa di scale per cui all’inizio si può stare comodamente in piedi. Avanzando il soffitto si fa più basso per cui alla fine del vano, sottostante al pianerottoli ci si sta soltanto molto chinati o incoccolati. Da qui si può accedere al vano sottostante la prima rampa che, però, è sempre stato utilizzato poco perché troppo basso. Quando, però, ho cominciato a occuparmi dei lavori agricoli ho risistemato le scaffe del babbo e ne ho aggiunto una a tre piani in fondo sempre a destra del primo vano, sotto il pianerottolo, nonché altre due proprio nel secondo vano, che ho anche illuminato con una lampada. Infatti da allora lo uso anche per tenere la benzina (in una tanica) e la miscela che preparo quando occorre (in un fiasco) per i miei attrezzi a motore (motozzappa, motosega e frullini). Oltre a ciò trovano posto nel sottoscala anche barattoli di vernice o di tinta per i muri e altra cianfrusaglie varie. Anche la motosega ha qui la sua collocazione.

Il baraccone dietro casa

Quando rifacemmo il terrazzino e il gabinetto, costruimmo anche un pilastro di mattoni che sosteneva una tettoia sopra la porta da cui si esce sul terrazzo in modo che si poteva andare al gabinetto senza bagnarsi anche quando pioveva. Successivamente, però, alzammo il muretto del terrazzo fino a fare del terrazzo una stanzina triangolare chiusa e illuminata da una finestra che avevamo messo proprio davanti alla porta. Ora per andare al gabinetto non si usciva proprio per nulla all’aperto. Ma a quel punto pensammo che, alzando una parete sul muretto che divide la nostra proprietà dalla strada, avremmo potuto coprire lo spazio che va dal gabinetto all’angolo della casa ricavandone un bel locale da usare in vario modo. Esso avrebbe sostituito la baracchetta di legno che ci aveva costruito il babbo. Così fu fatto e questo locale, chiamato da noi “baraccone dietro casa” per distinguerlo dal baraccone ad uso garage che il babbo aveva costruito, col permesso di Millo che allora era l’affittuario, sul terreno delle ferrovie per tenerci il furgone dei biscotti. Il baraccone dietro casa ha avuto varie sistemazioni. In origine non aveva parete sul davanti ma aveva una pavimentazione cementata. Solo molto tempo dopo io ho costruito la parete e ci ho messo la porta a vetri che era alla bottega del Dino e che fu la porta esterna della nostra sala finchè non facemmo fare una porta nuova. Però era protetta da una saracinesca a maglie larghe per lasciar entrare la luce. All’interno trovarono posto, da subito, due corti travi tolti dalla casa di Marisa quando la ristrutturammo insieme a tavole varie e altro legname. Poi ci fu portata la parte residua della madia su cui era stato costruito un soppalco che in una certa epoca accoglieva il fieno che conservavamo per i conigli. In un’epoca successiva ci avevo portato una scaffalatura della bottega del Dino che era molto utile ma che poi ho ripreso per farci fare una libreria. Successivamente ancora ci fu portato il mettitutto che era in cucina quando in cucina ci montammo i pensili. E, insieme a varie cianfrusaglie, c’è stata a lungo anche la nostra cucina a gas, ancora perfettamente funzionante ma che noi avevamo sostituito con una nuova. Attaccati al soffitto ci sono dei gruppi di fiaschi e un vecchio paiolo di rame. Attualmente il mettitutto non c’è più perché è stato portato nell’ex pollaio per poter fare dei lavori di consolidamento del tetto. C’è ancora la vecchia madia (solo la parte inferiore) entro cui tengo i prodotti per trattare le viti e la macchina irroratrice a mano. C’è, inoltre, la lunga gomma per le irrigazioni estive, qualche vaso da fiori vuoto e le solite varie cianfrusaglie.

 Nell’autunno del 1965 il crollo di una vecchia capanna di Jaccò (ora di proprietà di mia figlia Olga) ha distrutto la mia cantine che vi era appoggiata, per cui ho dovuto fare spazio in questo baraccone trasformandolo in una cantina piuttosto angusta ma funzionale. Ed è qui che vinifico la modesta quantità di uva che riescono a produrre le mie ormai poche viti.

Il pollaio

Ancora oggi chiamiamo pollaio quello che attualmente è un baraccone che contiene un bel po’ di cose ma non è più assolutamente un pollaio. Eccone la storia. Quando nel 1947 lo zio  Azelio lasciò la Casetta per  riprendere il suo posto e il suo appartamento come guardiano del carcere mandamentale, lasciò anche il suo pollaio che si trovava subito sotto la vigna, appoggiato al confine con il podere di Battifollo. Allora il babbo lo risistemò un pochino e avviò un modesto allevamento di polli per il nostro consumo. Il pollaio consisteva in una piccola baracca di legno coperta a tegole dove la notte si ritiravano i polli e di un recinto di rete entro il quale le galline restavano rinchiuse quando fuori avrebbero fatto danni. Ultimati i raccolti, però, al mattino  il recinto veniva aperto e i polli potevano razzolare nei campi e nei prati liberamente. E venivano degli ottimi, saporitissimi polli ruspanti. Quando la mamma si ammalò, nel 1970, e vennero ad abitare in paese, nella casa dei “Calistri”, il babbo continuò ad accudire i polli finché ce ne furono, ma non ne allevò altri per cui in breve tempo il pollaio rimase vuoto. Nel 1972 la mamma morì e il babbo andò a stare a Massa con Guido. Allora cominciai io ad occuparmi della Casetta dove anzitutto provvidi a coltivare le viti, ma anche a  coltivare l’orto e altre cose. E, cosa particolarmente interessante, decisi di riprendere l’allevamento di galline e conigli. Ma  le condizioni del pollaio erano così brutte che richiedevano un intervento. Allora decisi di costruire il casotto in muratura ed, inoltre, di costruire un muro sul retro e due muri ai lati per riparare il pollaio dai venti del nord, lasciando aperta soltanto la parte anteriore. Il lavoro era grosso per cui il primo anno riuscii soltanto a costruire il casotto, il muro sul lato nord-ovest,  una parte del muro posteriore e un basso muretto nella parte anteriore sopra il quale applicai una robusta rete (detta rete da autostrada). Rimase in funzione il vecchio e malandato recinto, collegato opportunamente alla nuova costruzione. E dentro a questo impianto iniziai l’allevamento di  galline e conigli  (questi entro apposite gabbie). L’anno successivo, poi, completai il muro posteriore, costruii il muro laterale di sud-est e completai la parte anteriore con un basso muretto sovrastato dalla solita rete da autostrada. Mentre la prima costruzione aveva una larghezza di circa due metri o poco più, questa seconda parte aveva una larghezza di tre metri abbondanti. E la lunghezza totale risultò essere di oltre sette metri. Naturalmente tutto era coperto, purtroppo di eternit che, all’epoca, veniva normalmente usata. Dopo diversi anni e dopo che i nostri figli (soprattutto le figlie) non erano più con noi, non fummo più in grado di continuare l’allevamento (io ero spesso impegnato col lavoro e Marisa era lontana e senza mezzi per andare) per cui lo abbandonammo. Dopo altro tempo ritenni che quel vasto locale avrebbe potuto servire come magazzino, legnaia o quant’altro, per cui lo ripulii, lo pavimentai alla meglio con vecchie mattonelle, chiusi il davanti applicando sulla rete delle lastre di lamiera ondulata e lo adibii all’uso che ho detto. Attualmente ci ricovero regolarmente la motozappa, ci ho trasferito il nostro vecchio mettitutto, c’è del legname, le  cassette per la vendemmia e mille altre cose. E’ uno spazio molto utile e, malgrado tutte le trasformazioni che ho detto,  continuiamo a chiamarlo pollaio.

 

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La Casetta vive

Cosa significa ?  In realtà la Casetta ha continuato a vivere come abitazione fino a che ha vissuto mio padre. Anche se la abitava soltanto d’estate, questa era la sua casa a tutti gli effetti ed era, quindi, viva come casa abitata. Con la sua morte, avvenuta il 28 febbraio 1983, nessuno l’ha più abitata o, per lo meno, nessuno ci ha più dormito. Perché, allora, io dico che vive ? Il fatto è che già dopo la morte della mamma, avvenuta il 29 febbraio 1972, della Casetta ho cominciato ad occuparmi attivamente io. Anzitutto dei terreni, continuando a coltivare le viti (oltre a quelle della Casetta presi a coltivare anche quelle “di Jaccò) nonché curando altre coltivazioni nell’orto ma anche nella vigna e nella vignetta, alle Cannelle e alla Pozzetta. Ma anche della casa dove, piano piano, sono stati rifatti i pavimenti dell’andito e delle due stanza al piano terra, è stato ricoperto, come già detto, il terrazzino dietro casa e il baraccone dietro casa. Ed è sempre stata curata la manutenzione (rinnovata più volte la tinteggiatura delle pareti, ripulita la bella travatura in legno di castagno e fatto quant’altro abbisognasse) Tutto questo, inevitabilmente, mi portava ad essere presente alla Casetta praticamente tutti i giorni (nel solo pomeriggio quando lavoravo, nell’intera giornata quando ero in ferie e dopo che sono andato in pensione.)  E mi portava a sentire la Casetta ancora come una casa viva, esattamente come prima. Bisogna anche dire che anche Marisa era spesso con me e anche Fabrizio e le due figlie, finché hanno vissuto con noi, e anche questo era vita per la Casetta. Accadeva anche che qualche volta facevamo un pranzetto laggiù, cucinando in loco con la cucina  a gas e il frigorifero allora, come tutt’ora, perfettamente funzionanti. Particolarmente gradevoli erano le cene all’aperto in cima alla vigna. Lassù, luogo tutto circondato da alberi, avevamo portato il vecchio tavolino e, d’estate, ci portavo la luce elettrica mediante un filo posticcio, per cui ci si poteva trattenere anche fino a tardi, godendoci il fresco della sera. Questo è continuato fino a pochi anni fa, con le nostre figlie e le loro famiglie (Fabrizio ha partecipato raramente perché viveva a Genova) e con i bambini che giocavano allegri nel buio che ci circondava. Negli anni ottanta del secolo scorso, poi, presi l’abitudine di fare dei pranzetti alla Casetta con alcuni dei miei colleghi che apprezzavano particolarmente il luogo. I nostri pranzetti diventarono famosi tanto che, a volte, volle partecipare anche il Provveditore agli Studi Rizzuti. Insomma: con tutto questo non potevo non sentire la mia Casetta come cosa viva e vegeta. Da qualche anno questi pranzetti non li facciamo più. Qualche volta abbiamo fatto la pizza e abbiamo invitato i figli di Olga che abitano lì presso. E Marisa ed io anche recentemente siamo andati a fare le mondine e anche a fare le frittelle. Ma, soprattutto, sono rarissimi i giorni in cui io non vado alla Casetta. Dove, fra l’altro, mi sento vicino al babbo e penso che, ovunque egli sia, egli sarà contento di avere ancora la sua casa che vive. A  volte penso che la abiti o, almeno, che la frequenti ancora. In fondo che ne sappiamo noi di quel che accade dopo la morte ? E penso anche che mi piacerebbe se i mie figli mantenessero in vita la mia casa. Sono sicuro che troverei il modo, dopo la morte, di tornare per aggirarmi ancora fra le mie cose, che amo e che hanno significato per me.

 

tre

 

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                                                                                                                                                      Immagini della cucina 1

 

 

                                                                                      

                                          La Casetta oggi (2016)

 

 

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                                         Immagini della cucina 2                                                                                   Immagini della cucina 3 

 

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