La casa di Aulla

 

Il trasferimento

Verso la fine degli anni trenta, credo verso il 1938 o 39, il Sindacato Fascista dei Lavoratori dell’Industria dal quale mio padre dipendeva, decise di chiudere l’ufficio di Monzone e di trasferire mio padre come capo-ufficio nella sede di Aulla, assai più importante. Per il babbo fu, tutto sommato, una promozione, ma creò una serie di problemi. Aulla non era lontana da Monzone (circa 20 chilometri) e si poteva raggiungere col treno, ma il treno utile per essere in ufficio in orario passava alle cinque del mattino, perché i treni successivi passavano troppo tardi. Questo rappresentava, ovviamente, un grosso sacrificio per il babbo che doveva anche pranzare fuori e rientrava col treno delle venti.  Durante la stagione buona andava un po’ meglio perché al babbo era stata fornita una motocicletta (era una Bianchi 250) con la quale poteva raggiungere Aulla in orario senza fare levatacce. Tuttavia si dovette cominciare a prendere in considerazione l’opportunità di trasferirci tutti ad Aulla. Ma c’era il problema del negozio che, evidentemente, avrebbe dovuto essere venduto. Il che non era cosa buona perché la famiglia avrebbe perduto quel reddito e, anche se al babbo, come credo, era stato aumentato lo stipendio, un certo danno economico lo avremmo comunque avuto. C’era poi il fatto che tutti, a cominciare dalla mamma, eravamo affezionati a quel negozio e il doversene disfare era doloroso. E, infine, non era poi così semplice trovare un compratore. Così arrivammo al 1940. E fu in quell’anno che l’Italia Cecchini, madre del mio amico Francesco, si propose come possibile acquirente. Essa gestiva un negozio di alimentari ma aveva a disposizione anche un locale dove avrebbe potuto collocare la merce del nostro negozio. Credo che le trattative durarono un bel po’ ma alla fine si conclusero con la vendita. Credo che questo sia avvenuto nell’estate o nell’autunno del 1940. Fu venduta tutta la merce e anche le scaffalature, in modo che la stanza dove era il negozio rimase immensa e vuota. La cosa ci rese tutti un po’ malinconici ed io ricordo la tristezza che provavo ogni volta che passavo in questo grande stanzone vuoto. Ma ormai era fatta e si poteva pensare al trasferimento. Il babbo si era messo da tempo alla ricerca di un appartamento che andasse bene per noi cinque: babbo, mamma, Guido, la nonna Mariuccia (il nonno era morto nel 1938) ed io.

 E capitò un’occasione imperdibile. Un signore di nome Vallettini stava ristrutturando un edificio in località Groppino, alla periferia di Aulla ma -  in realtà a poche centinaia di metri dal centro - al pian terreno del quale si sarebbe trasferito, in due ampi locali, l’Ufficio del Sindacato e l’Ufficio di Collocamento. Al primo piano ci sarebbero stati due appartamenti, uno dei quali avrebbe potuto essere il nostro. La sistemazione sembrava eccellente per cui il babbo fissò l’appartamento. Ma i lavori erano in corso e bisognava attenderne il completamento. Così rimanemmo a Monzone nella casa della Gemma fino alla primavera del 1941.

 E il 10 aprile di quell’anno avvenne il trasferimento. Mio padre ed io raggiungemmo Aulla con il camion che trasportava tutte le nostre masserizie, la mamma e la nonna la raggiunsero in treno e Guido, che in quel periodo, pur essendo solo un universitario, aveva ottenuto una supplenza nella scuola media di Terrarossa, a pochi chilometri da Aulla sulla statale della Cisa, venne direttamente a casa a fine lezione provenendo da Terrarossa.

La casa

Naturalmente provvederò a descrivere dettagliatamente anche questa casa, la terza della mia vita, anche se la permanenza in essa sarà brevissima, poco più di un anno. Il portone si apriva direttamente sulla Statale della Cisa. Non ricordo bene ma ci sarà stato un basso marciapiedi. Nella parte della casa a destra del portone c’era, a pian terreno, l’ufficio di mio padre, che mi pare avesse un ingresso diretto dalla strada ma al quale si poteva accedere anche dall’interno della casa. E, in genere, veniva usato sempre quello sia da mio padre che dagli altri. Al primo piano, nella parte destra dell’edificio, c’era l’appartamento dei nostri vicini di casa. Nell’altra metà della casa, a sinistra del portone, c’era un ampio locale grande come tutto l’appartamento sovrastante (che era poi il nostro) che si era riservato il padrone di casa che qui ricoverava i suoi grandi carri a quattro ruote gommate trainati da un cavallo e i cavalli stessi. Infatti faceva il trasportatore con tali mezzi. Il locale aveva un largo ingresso che dava sulla strada.

 Al primo piano, come ho detto, c’era il nostro appartamento nella parte sinistra dell’edificio.

 Entrando dal portone ci si trovava in un ampio vano scale. Appoggiate al muro di sinistra c’erano le ampie scale di marmo. Di fronte, a destra delle scale, c’erano due porte che davano in due piccole cantine. Quella a sinistra era la nostra, l’altra era dei nostri vicini di casa. Sul muro a destra, subito dopo il portone, si apriva la porta di accesso all’ufficio. Salita la prima rampa di scale e giunti al pianerottolo, si saliva la seconda rampa si giungeva al pianerottolo adiacente al muro esterno che dava sulla strada, in cui si apriva una grande finestra. Ma l’ingresso agli appartamenti era dalla parte opposta, per cui il pianerottolo voltava a destra e proseguiva oltre l’angolo lungo il muro del nostro appartamento che aveva l’ingresso all’estremità di tale muro e, poi, voltato ancora l’angolo, proseguiva fino alla porta dell’altro appartamento che era esattamente di fronte alla nostra. Su quest’ultimo tratto di pianerottolo di aprivano due porte: una vicina al nostro ingresso, l’altra vicina all’altro ingresso. Esse davano accesso ai rispettivi servizi igienici che, quindi, erano esterni agli appartamenti, anche se vicinissimi.

 Entrando nel nostro appartamento ci si trovava dinanzi a un corridoio lungo quanto l’appartamento e abbastanza largo (credo almeno un metro e mezzo). In fondo ad esso avevamo subito costruito una robusta scaffalatura dove avevamo collocato tutti i nostri libri, escluso quelli di studio che Guido teneva in camera sua su uno scaffaletto.

  Sulla destra si aprivano due porte: la prima dava nella cucina, la seconda nella camera di Guido e della nonna. A sinistra la prima porta, di fronte alla cucina dava nella camera di mamma e papà dove dormivo anch’io, la seconda dava nella sala. Ogni stanza era illuminata da una sola ma grande finestra. Quelle della cucina e della camera di Guido e nonna guardavano sul retro dove avevamo un piccolissimo terreno su cui avevamo costruito un pollaio con le poche galline portate da Monzone. Oltre, a breve distanza, passava la ferrovia (Linea La Spezia-Parma). La camera dei genitori e la sala, invece, guardavano la strada della Cisa, sempre molto frequentata. Il corridoio non aveva finestre per cui, se le porte delle stanze erano chiusa (cosa che non accadeva mai per la cucina) , bisognava accendere la luce elettrica. Mi pare vagamente che ci fossero due plafoniere, una all’altezza della cucina e l’altra all’altezza della camera di nonna.

La cucina

Entrando si poteva notare, nella parete a sinistra, i fornelli in muratura da alimentare a carbone, subito dopo un bel caminetto di marmo e, in fondo vicino all’angolo, l’acquaio con l’acqua corrente (la prima acqua corrente in casa che io ho visto). Nella parete di fronte alla porta c’era una bella finestra che guardava verso la ferrovia. In quella di destra, nel mezzo, c’era il “mettitutto”, grande mobile formato da una vetrina in alto, da diverse ante e diversi piani e anche di due cassetti. Si trattava di un mobile diventato di moda in quegli anni, che andava a sostituire madia e vetrina. Le nostre, infatti, erano state vendute al momento di lasciare Monzone, dove già avevamo, sistemato nell’ex negozio ma non utilizzato, il “mettitutto” che avevamo fatto costruire dal “Tavià” (presumo Ottaviano) il falegname. A destra, appoggiato alla stessa parete della porta, c’era il vecchio tavolinetto col piano a scacchiera che reggeva la nostra radio che funzionava ancora benissimo. Naturalmente in mezzo alla stanza c’era il nostro grande tavolo col piano di marmo e con, intorno, almeno sei sedie. Al soffitto era appesa una bella lampada abbastanza forte, con un riflettore a piatto piuttosto semplice.

La nostra camera

La camera dove dormivo io con i genitori, proprio di fronte alla cucina, era la stessa di Monzone. Nella parete a sinistra c’era il “canterale” con il grande specchio subito vicino all’angolo e, più in là, il “lavabo” e, vicino all’altro angolo, l’armadio a specchio. Nella parete di fronte c’era la finestra munita di tende,  e, appoggiati alla parete a destra c’erano i letti: quello dei genitori più vicino alla finestra, il mio, sempre il solito lettino di ferro, più vicino alla porta. La ricordo come una camera molto luminosa ( la finestra, che guardava sulla strada, non aveva abitazioni davanti per cui lo sguardo spaziava sulla larga valle del Magra ) e grande. Di sera, se non ricordo male, era illuminata da un lampadario che doveva essere stato acquistato proprio per quella nuova casa.

La camera della nonna

Oltre al letto di nonna e al lettino di Guido che erano appoggiati alla parete a sinistra di chi entrava, sulla parete di destra, vicino alla porta, c'era il tavolino rotondo che a Monzone era nel salottino e che qui serviva da scrivania per Guido. Appoggiato al muro, vicino al tavolo, c'era uno scaffaletto con quattro o cinque scaffe che ospitava i libri di studio di Guido. Non ricordo se per sedere aveva una sedia comune o una delle poltrone di vimini sempre del salottino. Infatti non ho memoria della fine di queste poltrone e poltroncine. Può darsi che alcune fossero state portate e stessero alcune in questa camera e alcune in fondo al corridoio vicino alla libreria. Credo, comunque, che una parte almeno siano state eliminate prima del trasloco. Al di là del tavolino c’era il canterale e, da qualche parte ci doveva essere la cassa o il baule di nonna ma non ne ho memoria precisa. Anche qui la luce era appesa al soffitto, con un piatto forse un po’ più elegante di quello della cucina, ma non ne ho sicurezza. Nella parete di fronte alla porta si apriva la bella e grande finestra che guardava, come quella della cucina, verso la ferrovia. Non mi pare che avesse tende.

La sala

Anche la sala era esattamente quella che avevamo a Monzone. Mentre mi accingo a descriverla mi rendo conto di averla frequentata pochissimo e di non averci mai sicuramente pranzato, tanto che faccio fatica a ricordare la collocazione dei mobili. Sicuramente il tavolo era in mezzo alla stanza, con le sedie circostanti e il lampadario gli pendeva sopra. Probabilmente la vetrina era nell’angolo a sinistra, vicino alla finestra e il divano era appoggiato alla parete di destra. Non riesco a ricordare null’altro di più preciso.

 

 Mi accorgo che non ho serbato molti ricordi della casa di Aulla. Forse perché, oltre al fatto che ci siamo stati poco più di un anno, poco prima che finisse la scuola (A.S. 1940/41 - io ero in quinta elementare - mi ammalai di quell’epatite che allora chiamavano “itterizia” per cui persi gli ultimi giorni di scuola e non potei dare l’esame di ammissione alla scuola media e rimasi ammalato per un bel periodo. E, appena passata l’estate, dovetti prepararmi a dare l’esame di ammissione nella sessione autunnale (a Pontremoli) e, subito dopo, cominciare a frequentare a La Spezia la prima media. Partivo al mattino verso le sette o poco dopo e ritornavo per l’ora di pranzo, a meno che non avessi qualche lezione pomeridiana nel quale caso rientravo anche più tardi. Voglio dire che sono stato poco tempo ad Aulla e anche in casa, per cui ho più ricordi de La Spezia che di Aulla e pochi ricordi legati alla casa.

 

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Nel mezzo si nota la porta di ingresso. A destra, dove ore sembra ci siano uno o due negozi, era l’ufficio dei Sindacati Fascisti dell’Industria, diretto da mio padre. Ad esso si poteva accedere da una porta interna che si trovava subito a destra appena entrati. Le due finestre sopra i negozi erano quelle dell’altro appartamento. Il nostro si trovava al primo piano nella parte sinistra dell’edificio. La finestra sopra la porta d’ingresso illuminava il vano scale e i pianerottoli. Quella subito a sinistra era quella della camera dei miei genitori. Quella ancora più a sinistra era quella della sala. La costruzione a destra con terrazza non esisteva.

 

 

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                                    La casa di Massa

 

Nei primi mesi di quel 1942 il babbo ebbe un forte contrasto con un capitano dell’esercito che comandava il presidio a guardia del Polverificio di Pallerone. Il contrasto nacque dal fatto che mio padre aveva avviato al lavoro nel polverificio un operaio che, in passato, era stato comunista ma ormai non lo era più e, anzi, approvava la politica sociale del Fascismo. Ed era, comunque, un capo famiglia che aveva il diritto di lavorare. Ma quel capitano, poiché lo stabilimento era militarizzato, si riteneva in diritto di rifiutare il lavoro a quell’operaio a causa delle sue passate idee comuniste. Mio padre, invece, riteneva che l’operaio fosse una persona per bene e che non poteva rifiutare di farlo lavorare. Le posizioni si irrigidirono per cui entrarono in gioco il Segretario Provinciale del Sindacato e le autorità militari della zona. Purtroppo in questi casi, volendo evitare di dare ragione a uno e torto all’altro, si ricorreva all’espediente del trasferimento dei contendenti. Naturalmente in questi casi si mascherava la cosa ricorrendo a una promozione. Così il capitano fu trasferito altrove non so con quale promozione e il babbo fu trasferito a Massa, capoluogo di provincia, a dirigere una zona molto più importante.

 E così, il babbo fu costretto a prendere servizio subito a Massa dove ogni mattina si recava in treno (partivamo con lo stesso treno ma lui a Santo Stefano doveva cambiare per raggiungere Massa) . Naturalmente si dette subito da fare per trovare un appartamento in quella città, ma si attese che io avessi finito l’anno scolastico. E il 10 giugno 1942, caricate le nostre masserizie sul camion del solito trasportatore che ce le aveva trasportate da Monzone ad Aulla, un certo Mariani, raggiungemmo la nostra nuova residenza. Mi pare che ancora una volta il babbo ed io arrivammo con il camion mentre gli altri vennero in treno.

 Il nostro appartamento si trovava in Via del Forte (non ricordo il numero) che era una ripida via fatta di bassi e larghissimi gradini, non  percorribile dalle auto e tanto meno dai camion. Il camion, quindi, dovette fermarsi in Piazza Mercurio ai piedi della Via del Forte e, da qui , una squadra di operai che il babbo aveva ingaggiato, trasportarono i mobili a mano fino all’appartamento. In realtà c’erano da salire non più di una trentina di metri, fin dove la strada curvava a destra e continuava a salire. Subito a sinistra, invece, si apriva un bel cortile rettangolare sul quale si aprivano gli accessi al nostro appartamento. Ricordo che la confusione per il trasporto e la collocazione dei mobili fu molto contenuta. Il babbo, infatti, aveva già progettato dove collocare ogni cosa per cui gli operai non solo portavano i mobili nell’appartamento ma li collocavano anche nel punto esatto che gli indicava il babbo. E così la sera avevamo già l’appartamento sistemato e funzionante. Ora lo descriverò e credo che sarò molto dettagliato e preciso perché ho dei ricordi molto chiari. Infatti ero ormai un ragazzo di dodici anni, quasi un adolescente, per cui ero molto presente a me stesso e conservavo la memoria delle mie esperienze. E ciò malgrado che il tempo passato in questa casa non sia stato più lungo di quello trascorso nella casa di Aulla. Possiamo dire che questa casa me la sono goduta di più.

 La casa – possiamo dire che era un palazzotto - era a tre piani. Al primo piano abitava il procuratore delle Imposte e al secondo il giudice Abiuso. E al pian terreno c’era il nostro appartamento. I soffitti erano molto alti e doveva esserci anche una soffitta abbastanza grande perché il palazzo appariva massiccio e molto alto. Doveva essere stato un palazzo di un certo prestigio, ma ormai aveva diversi anni e si vedeva.

 L’ingresso al palazzo era rappresentato da un enorme portone che dava accesso a un grande atrio a due livelli. A metà di esso, infatti, c’erano due gradini che portavano al secondo livello, un po’ più alto del primo. Sul fondo c’era un grande arco oltre il quale iniziavano le scale, piuttosto imponenti, per salire ai piani superiori. Sul secondo livello, poco prima dell’arco, si apriva sulla sinistra l’ingresso al nostro appartamento. Notai subito che c’era anche il campanello. Era la prima casa munita di campanello che andavo ad abitare.

L’ingresso

 Appena entrati ci si trovava in un ingresso rettangolare molto vasto. Per dare un’idea dell’ampiezza dirò che io riuscivo senza difficoltà a girarci dentro in bicicletta.  Sulla sinistra si aprivano due porte: la prima era quella della camera della nonna (nella quale, come al solito, dormiva anche Guido. Anche se ci ha dormito ben poco perché poco dopo il nostro arrivo a Massa fu richiamato alle armi e inviato a Pietra Ligure a fare il corso Allievi Ufficiali), la seconda dava accesso allo studio (stanza che mi sono goduto moltissimo, specie dopo che Guido era partito). Sulla destra si apriva una porticina che dava accesso a un piccolo ripostiglio che non abbiamo mai usato perché era tutto nero. O, forse, abbiamo usato anche noi per tenerci il carbone di legna per i fornelli. Probabilmente era servito come deposito di carbone anche in passato. In fondo, nella parete di fronte all’ingresso, si apriva una bella e grande porta a vetri che dava accesso alla sala. In questo grande atrio non c’erano mobili ma soltanto la nostra bicicletta appoggiata al muro.

La camera della nonna

Questa camera, nella quale non entravo quasi mai, era la solita di Monzone e di Aulla. Nella parete di fronte all’ingresso si apriva la grande finestra che dava sul cortile. Appoggiati alla parete di sinistra c’erano il “canterale” e la cassa, appoggiati alla parete di destra c’era il letto di una piazza e mezzo della nonna con i due comodini e, più vicino alla porta, il letto a una piazza di Guido.

Lo studio

Era il locale più amato e più frequentato. Era un po’ più piccolo della camera ma altrettanto luminoso per la grande finestra che si apriva sul cortile nel muro esterno. Appoggiato alla parete sinistra, vicino alla porta, c’era il divano. Era stato collocato qui e non in sala perché la sala era, come dirò, buia e, praticamente, non frequentata. E anche il babbo spesso amava farvi un riposino dopo pranzo. Più avanti, sempre appoggiato alla parete sinistra, c’era lo scaffale con tutti i libri di Guido. Di fronte a questo ci stava il famoso tavolo rotondo del salottino di Monzone sul quale Guido ed io (spesso con degli amici) studiavamo. Subito dietro il tavolo, nel muro di destra, si apriva un ampio vano scaffalato dove avevamo sistemato tutta la nostra biblioteca.. A destra di questo vano, sempre appoggiato al muro di destra, c’era un tavolinetto con sopra una macchina da scrivere, forse una vecchia macchina dell’ufficio che non serviva più e che il babbo aveva portato a casa.

La sala

Dall’ingresso, attraverso la porta a vetri che ho descritto, si entrava nella sala. Era una grande stanza piuttosto infelice. Infatti non aveva un’apertura verso l’esterno e prendeva un po’ di luce attraverso le porte aperte delle stanze davanti. Per illuminarla convenientemente, quindi, bisognava ricorrere alla luce elettrica. Non ricordo di aver mai pranzato in questa sala né di averla usata per altri scopi che non fosse il passaggio. Nel mezzo della sala c’era il solito tavolo con sopra il centro tavolo costituito da un grande piatto e una grande coppa di cristallo. Sopra il tavolo c’era il solito lampadario che non doveva essere stato fissato bene tanto che, una volta, esso cadde fragorosamente fracassando la coppa di cristallo. Si salvò il piatto. Nel muro di fronte all’ingresso, sulla destra c’era la solita vetrina mentre sulla sinistra si apriva una porta che dava in un piccolo andito dal quale si poteva salire nel bagno o accedere alla sala da pranzo.

 Nel muro a destra non c‘era nulla salvo qualche quadro. Nel muro a sinistra, invece, si apriva una porta che dava nella camera dei genitori (nella quale continuavo a dormire anch’io)e nell’angolo fra questa porta e la porta d’ingresso, c’era un bello scaffale con sopra tutta la nostra cristalleria.

La camera dei genitori

Dalla sala, come ho detto, si poteva entrare in questa camera. Alla parete di destra erano appoggiati i letti: più vicino alla porta era il mio lettino di ferro, sempre quello, nel quale stavo, ormai, un pochino stretto, poi il letto a due piazze con i due comodini. Oltre i letti, sempre nella parete di destra, si apriva un’altra porta che immetteva nella sala da pranzo. Nella parete di sinistra, subito vicino alla porta, c’era un bel caminetto che normalmente non usavamo ma che qualche volta abbiamo acceso per bruciarvi delle pigne di pino secche. Appoggiato alla stessa parete, un po’ più in là, c’era l’armadio a specchio. Nel muro di fronte c’era la solita grande finestra, munita, come le altre, anche di persiane di legno, che dava luce alla stanza. Il “canterale” era appoggiato alla parete che divideva la camera dalla sala, a fianco del mio lettino.

L’anditino e il bagno

Ritorniamo un momento nella sala per passare, da questa, all’anditino di cui s’è detto. Si trattava di un piccolo locale nel quale, entrando, si trovavano, sulla destra, due brevi rampe di scale che portavano al bagno sovrastante. Salendo lungo questa scale si trovavano, il primo all’altezza del pianerottolino e il secondo un po’ più in alto, due angusti ripostigli chiusi da due ante. Il secondo stava proprio sopra la cucina. Il bagno era abbastanza grande. A sinistra della porta d’ingresso c’era il water e il lavandino. Appoggiato all’estrema destra della parete di fronte all’ingresso c’era un monumentale scaldabagno cilindrico a legna e, subito a sinistra di questo, una vasca da bagno di ferro smaltato con la necessaria rubinetteria. Sempre nella parete di fronte all’ingresso, sopra la vasca da bagno ma spostata più a destra, c’era una finestrina alta che dava luce alla stanza.

 Ridiscendiamo la breve scala e poniamoci di nuovo in posizione di ingresso dalla sala: nella parete a sinistra si apriva una porta che immetteva nella sala da pranzo. A conclusione della descrizione dell’anditino debbo ricordare una cosa piuttosto buffa. Come ho già detto la nonna Mariuccia amava occuparsi delle galline ed era lei che, a Monzone, curava il pollaio che era di discrete dimensioni e ospitava una diecina o forse più galline. Ed era sempre lei che si occupava del pollaio che, sia pur di minori dimensioni, avemmo anche ad Aulla. A Massa non avevamo spazio per un pollaio per cui io credo che, prima di lasciare Aulla, avremo mangiato, ad una ad una, le nostre galline. Ma, evidentemente, non facemmo a tempo a mangiarle tutte per cui una di queste galline arrivò viva fino a Massa. Qui, come dirò fra breve, avevamo, oltre la cucina, un piccolo cortiletto cementato e chiuso tutto intorno da un alto muro. Qui visse, per pochi giorni credo, la gallina. La quale, però, non aveva riparo per la notte per cui, la sera, la nonna la portava a dormire nell’anditino. E la gallina si appollaiava sulla ringhiera delle scale e lì passava la notte. E avrà anche sporcato, penso, ma la nonna, che era la prima ad alzarsi, sicuramente avrà provveduto a pulire e a trasferire la gallina nel cortiletto. Mi pare anche (ma di questo non sono sicuro) che la gallina facesse ancora le uova. Comunque la cosa non può essere andata avanti che qualche giorno, per cui anche l’ultima gallina avrà rappresentato una preziosa risorsa alimentare. La guerra, infatti, era già nel suo terzo anno e i disagi del tesseramento e della carenza di molti prodotti si faceva sempre più sentire.

La sala da pranzo

E’ qui che abbiamo sempre consumato i nostri pasti ma, in realtà, la dicitura “sala da pranzo” è un po’ eccessiva. Si trattava, infatti, di una stanza piuttosto piccola, di forma rettangolare, che si estendeva dalla parete dell’anditino fino al muro esterno, dove si apriva una porta a vetri che dava direttamente nel cortile davanti alla casa. In fondo alla parete di destra si apriva la porta che dava in cucina mentre in fondo alla parete di sinistra si apriva la porta che dava nella camera dei genitori. Il fatto che detta stanza avesse, come s’è visto, ben quattro aperture, e fosse piuttosto piccola non lasciava spazio a nessun tipo di mobilio se non, nell’angolo a sinistra della porta dell’anditino al solito tavolinetto con la radio e, nel mezzo, al nostro grande tavolo col piano di marmo e alle sedie che lo circondavano. Era, comunque, un luogo che serviva anche da soggiorno, sia perché dalla porta esterna a vetri entrava una bella e abbondante luce, sia perché qui si ascoltava la radio. Dopo non molto tempo che eravamo a Massa, verso l’autunno, il babbo si arruolò volontario nella milizia contraerea e fu destinato a una delle batterie contraeree collocate sui monti circostanti a difesa de La Spezia e del suo porto. E anche Guido, come ho già detto, era alle armi per cui in casa eravamo rimasti la mamma, la nonna ed io. Ed eravamo molto interessati alle vicende della guerra ( fra l’altro assistevamo, la notte, ai bombardamenti aerei su La Spezia, con i chiarori delle esplosioni che si intravedevano e, soprattutto, le esplosioni nel cielo delle granate antiaeree e le lunghe linee dei proiettili traccianti che sembravano fuochi di artificio. E sapevamo che lì c’era il babbo.) e ascoltavamo attentamente il giornale radio. E anch’io, che avevo solo dodici anni, cominciavo a prendere chiara coscienza di quel che stava accadendo. E mi trattenevo sempre, dopo il giornale radio delle tredici, ad ascoltare le bellissime “Canzoni del tempo di guerra” che venivano trasmesse subito dopo.

La cucina e il cortiletto

Entrando in cucina dalla sala da pranzo si poteva notare, appoggiato alla parete di destra il mettitutto e. al di là del mettitutto, l’acquaio con il rubinetto dell’acqua corrente. Nella parete di sinistra c’erano i fornelli, piuttosto ampi e con diversi fuochi, sovrastati da una bella e grande cappa per far fuoriuscire i fumi, gli odori e, soprattutto, l’anidride carbonica prodotta dalla combustione del carbone (una volta la mamma, che era rimasta troppo intorno ai fornelli, rimase intossicata e stette malissimo anche di stomaco). Nella parete di fondo, proprio di fronte all’ingresso, c’era un’ampia porta a vetri che dava una buona luce alla cucina. Al di là della porta c’era il cortiletto di cui ho già parlato. Oltre l’alto muro non abbiamo mai guardato ma dovevano esserci orti o giardini. Infatti una pianta rampicante stendeva i suoi rami anche sopra il nostro cortiletto formando quasi un pergolato. Inoltre, cosa per me importante, scavalcando il muro scendeva da noi una gatta quasi tutta bianca che diventò presto un’abitudinaria e un amica. Ho avuto spesso occasione di giocarci nel cortiletto e anche in casa dove entrava proprio come fosse casa sua. Mi pare, però, che non si fermasse a dormire e a sera se ne andasse riscavalcando il muro con un gran balzo.

 

E questa era la casa di Massa dove io mi trovavo veramente bene, soprattutto per la disponibilità dello studio. Ma era destino che le cose non durassero a lungo. Giunto l’ottobre del 1942 io iniziai a frequentare la seconda media e trovai moltissimi amici. Poi venne il 1943, io conclusi onorevolmente l’anno scolastico e mi accingevo a godermi le vacanze. Ma la guerra si faceva sempre più pericolosa. Il rischio che anche Massa e la sua zona industriale potesse subire attacchi aerei indusse mio padre, che ogni tanto veniva in permesso per un paio di giorni, a proporci di andare a passare le vacanze estive a Camporgiano, paese tranquillo che non aveva da temere bombardamenti. E così facemmo, con l’intenzione di rientrare a Massa all’inizio del nuovo anno scolastico, senza minimamente immaginare che quello sarebbe stato un addio definitivo a quella casa con tutte le nostre cose e a Massa.

 

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Camporgiano. La casa dell’Editta

 Con un tranquillo viaggio in treno via Viareggio-Lucca-Camporgiano la nonna, la mamma ed io giungemmo a Camporgiano nel pomeriggio di uno dei primi giorni di giugno. Era la prima volta che facevo quel viaggio in treno e lo feci molto volentieri perché potei vedere tutta la valle del Serchio (Quando si veniva in vacanza a Camporgiano da Monzone si veniva in auto lungo la strada allora provinciale che attraverso il passo dei Carpinelli ci portava dalla Lunigiana in Garfagnana. Il sud della valle, perciò, mi era completamente sconosciuto. Solo una volta mio padre con alcuni amici mi portò fino al Poggio. E non oltre). Rimasi meravigliato a vedere il grazioso laghetto di Pontecosi di cui ignoravo l’esistenza. A Camporgiano ci accolse la Bruna Tonini, moglie del Gino Bartolomasi che era cugino della mamma.

 C’era anche la figlia Rina, di pochi anni più grande di me ma era già una graziosa signorinetta. Ci fecero molta festa e ci invitarono a cena. Poi ci accompagnarono alla casa dell’Editta, dove avremmo posto la nostra residenza. Avevamo pochissimo bagaglio perché l’intenzione era di trattenerci solo per l’estate.

 Il nostro appartamento faceva parte di un’ala della casa e le stanze erano in comunicazione con il resto della casa abitata da Editta Guasparini e da sua figlia Rita. Il contatto con loro, perciò, era quotidiano ma erano molto gentili e questo contatto non era per nulla sgradevole.

 Noi disponevamo di tre stanze: una cucina a pian terreno cui si accedeva da una porta che si trovava subito a destra dell’ingresso principale che era in comune; e due camere al primo piano. Una delle due era sopra la cucina e l’altra sopra a una cantina-dispensa dell’Editta che era a fianco della nostra cucina e per raggiungere la quale bisognava transitare nella nostra cucina. Ma, come ho detto, fra noi era intervenuta una certa familiarità per cui la cosa non ci dava alcun fastidio.

La cucina

Come ho detto appena entrati dal portone dell’edificio ci si trovava in un ingresso di media grandezza in fondo al quale c’erano le scale di pietra che salivano al primo piano. A sinistra c’era una porta che portava nella cucina dell’Editta mentre sulla destra c’era la porta per cui si entrava nella nostra cucina. Sul muro a destra di chi entrava si apriva una finestra piuttosto piccola munita di inferriata che si apriva su un piazzaletto lastricato cha aveva sulla destra, proprio davanti al portone, una scala che scendeva nella sottostante via della stazione a due metri dal suo inizio sulla piazza San Giacomo. A sinistra, invece, il piazzaletto si immetteva direttamente sulla strada della stazione. Il piazzaletto era diviso dalla strada da un muretto di pietra. Al di là della strada c’era l’orto dell’Editta dove c’era anche il forno per cuocere il pane. L’orto si trovava proprio sotto le mura della rocca estense, allora disabitata. Dalle nostre finestre, specie quelle delle camere, si godeva una bella vista della parte frontale della rocca, con le due torri alle due estremità e l’ingresso vicino alla torre di sinistra. Dalla strada della stazione si saliva all’ingresso della rocca, chiuso con un cancello di legno, per una stradina acciottolata.

 Ma torniamo alla cucina. Nella parete di fronte a chi entrava, proprio di fronte alla porta, c’era un’altra porta di legno uguale per cui si accedeva alla cantina-dispensa dell’Editta (per accedere alla quale, come già detto, l’Editta o la Rita dovevano passare attraverso la nostra cucina). A sinistra di questa porta, appoggiato alla stessa parete, c’era un grosso mobile di legno piuttosto grezzo a forma di armadio, con diverse scaffe, che era il mobile entro cui si teneva tutto ciò che serve in una cucina, cibi compresi. Ma a quel tempo, non esistendo i frigoriferi e con i negozi di alimentari che rimanevano sempre aperti (anche la sera e la domenica perché funzionavano anche come bar o, almeno, come mescita)  gli alimenti venivano acquistati pressoché quotidianamente. Nel muro a sinistra di chi entrava, proprio di fronte alla finestra, c’era un bel camino, abbastanza grande. A destra del camino c’erano i fornelli a carbone. (Ma non ne sono sicuro. Forse si cucinava tutto nel camino, infatti avevamo anche una padella da appendere alla catena). A sinistra c’era nel muro un incavo rettangolare abbastanza profondo nel quale tenevo i miei libri che avevo portato da Massa. Nel mezzo c’era un tavolo di legno abbastanza ampio con quattro o cinque sedie intorno.

La camera della mamma

Il piano superiore di questa ala della casa dell’Editta aveva l’identica struttura del pian terreno. Salite le scale, dal corridoio superiore, attraverso una porta simile a quella della cucina, si entrava nella camera della mamma che era esattamente sopra la nostra cucina. Dalla parte opposta del corridoio, con una identica porta, si entrava nelle camere dell’Editta. La camera della mamma era molto semplice: un letto a due piazze era appoggiato alla stessa parete nella quale si apriva la porta di ingresso e aveva uno (o forse due) comodino a lato. E non c’erano altri mobili. I nostri abiti stavano dentro le nostre valigie o appesi a un attaccapanni che era vicino alla porta, fra la finestra e l’angolo vicino alla porta stessa. La finestra, ovviamente, guardava verso la rocca.

La camera della nonna

Proprio di fronte alla porta descritta, nella parete di fronte si apriva un’altra porta uguale che immetteva in quella che chiamo la camera della nonna. Qui c’erano due lettini a una piazza: in uno dormiva la nonna e in uno dormivo io. Quando veniva in permesso il babbo ovviamente dormiva con la mamma, ma ci sono stati periodi in cui io dormivo nel letto con la mamma. Forse accadeva d’inverno o, forse, accadeva per sporcare meno lenzuola. Quando, poi, venne Guido in licenza nel 1944, appena rientrato dalla Germania, nei due lettini dormivamo io e lui. Quindi la nonna dormiva con la mamma. In questa camera, diversamente dall’altra, c’erano due mobili anche se scarsamente utili. Una era una scaffalatura, quasi sicuramente una libreria, collocata fra la finestra e l’angolo opposto alla porta. Le scaffe erano vuote, ma ricordo di averci trovato dei volantini con l’edera, emblema del Partito Repubblicano. Erano quasi sicuramente dell’epoca pre-fascista. Appoggiata al muro di fondo c’era l’altro mobile: una bella e ampia scrivania di legno chiaro che aveva anche una bassa scaffetta che si ergeva dal bordo appoggiato al muro. Doveva essere stato, in passato, lo studio di un notaio o di un avvocato. La libreria non ci è mai servita a nulla mentre la scrivania io la utilizzavo volentieri per studiare e fare i compiti.

Il gabinetto

Non c’era un gabinetto interno. In fondo alla casa a destra di chi si poneva davanti ad essa, c’era un piccolo locale chiuso da una porta, che si poteva usare come gabinetto. Era un “cesso” come usavano ancora a quel tempo. Praticamente un foro in un piano rialzato su cui si saliva con i piedi, entro cui far cadere feci e urina che andavano nel tombino sottostante. All’epoca non pareva una cosa eccezionalmente scomoda.

Il soggiorno si prolunga

Nell’estate di quel 1943 successe di tutto. Prima il 25 luglio (caduta di Mussolini), poi l’8 settembre (l’infausto armistizio), poi la costituzione della Repubblica Sociale Italiana. Tutto questo con la guerra che andava sempre peggio per l’Italia. La nostra famiglia ne fu coinvolta pesantemente. Guido, che a fine agosto aveva concluso il corso allievi ufficiali ed era stato nominato sottotenente, era in forza per il servizio di prima nomina a Livorno, però nei primissimi giorni di settembre era a Fornaci di Barga per fare un “campo”. Così venne a trovarci con un breve permesso. Rientrò uno o due giorni prima dell’armistizio, fu catturato dai tedeschi e portato in Polonia. Poi aderì alla R.S.I. e fece addestramento in Germania con la Divisione San Marco. Il babbo aderì subito alla R.S.I. e tornò alla Spezia sempre nella contraerea. E noi ? A settembre avremmo dovuto rientrare a Massa perché in ottobre io avrei dovuto frequentare la terza media, ma il precipitare degli eventi e l’incalzare dei bombardamenti, ora anche su Massa, fecero decidere a babbo e mamma di rimanere a Camporgiano fino al termine della guerra. Allora io e mamma tornammo a Massa in treno (ricordo il viaggio da Lucca a Viareggio su un carro bestiame, che in galleria si riempiva di fumo quasi soffocandoci), sistemammo la nostra cristalleria e le cose più preziose dentro una cassa e facemmo un grande rotolo con i materassi di lana e le coperte (bisognava attrezzarci per passare l’inverno in Garfagnana) che poi spedimmo per ferrovia. In una valigia mettemmo gli indumenti pesanti e ripartimmo.

 Ma il grosso “collo” coi materassi e le coperte, che avevamo spedito come “bagaglio appresso” non giunse mai. Così continuammo a dormire sui materassi di vegetale che erano nei letti dell’Editta e ci arrangiammo in qualche modo con le coperte. Io andai a Castelnuovo a piedi con lo zio Settimo e trasferii la mia posizione di studente in quella scuola media che, poi, frequentai per tutto l’anno scolastico 1943/1944. Venne l’estate del 1944 e molte vicende accaddero, compresi i primi bombardamenti su Camporgiano. E in ottobre il fronte di guerra si stabilizzò poco a sud di Castelnuovo e, quindi, a una diecina di chilometri da noi. Il comando di divisione col generale Carloni era proprio a Camporgiano. Resistemmo fino ai primi giorni del 1945, poi l’aggravarsi del pericolo per i bombardamenti sempre più frequenti ci costrinse a lasciare anche la casa dell’Editta. Così  intorno all’epifania, con poche cose in uno zaino e in una borsa, in un paesaggio ricoperto da una eccezionale nevicata, salimmo a piedi fino a Casatico, da dove avremmo poi proseguito per Minucciano dove la zia Delfa e le sue due figlie ci avrebbero accolto in casa loro. Anche la casa dell’Editta usciva dalla nostra vita.

 

 

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Guardando a destra del portone di ingresso che si intravede fra le colonne del terrazzo, si vedono due finestre al piano terreno e due al primo piano. La prima al piano terra era quella della nostra cucina, la seconda era quella della dispensa dell’Editta. La prima al piano superiore era quella della camera della mamma, la seconda più a destra era quella della camera della nonna e mia.

 

 

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Minucciano. La casa della Delfa

Il trasferimento definitivo a Minucciano fu tutt’altro che semplice. Come ho detto il 4 o il 5 di gennaio aveva fatto una eccezionale nevicata per cui a fatica la nonna ce la fece, piano piano, a salire fino a Casatico, ma non era pensabile di fargli fare il lungo percorso da Casatico a Minucciano. Così la mamma noleggiò un asino, ci caricammo sopra le nostre scorte alimentari (si trattava della nostra parte di raccolto di grano e mais della Casetta e anche di quella della Delfa) e raggiungemmo Minucciano la mamma ed io, lasciando la nonna a Casatico ospite dei Regoli. Dopo un po’ di tempo tornammo per recuperare le poche cose che erano rimaste nella casa dell’Editta ma scoprimmo che, attraverso una breccia aperta da una bomba, erano entrati i ladri e avevano saccheggiato anche parte della nostra roba. Ma neppure allora fu possibile portare anche la nonna. Soltanto verso la fine di gennaio, anche se la neve era ancora alta, noleggiammo di nuovo un asino e riuscimmo a portare a Minucciano anche la nonna. Fu una brutta avventura che narrerò in un altro momento. E così ora la nostra casa era la casa della Delfa (che era rimasta sola con le due figlie dopo che lo zio Settimo era stato ucciso dai partigiani)  nella quale eravamo ospiti.

L’ingresso

Scendendo dalla piazza del comune verso la parte bassa del paese, subito dopo il negozio di alimentari dello Sforacchi che si trovava sulla sinistra, sulla destra della strada si entrava in una minuscola piazzetta in fondo alla quale si apriva la porta di ingresso della casa. Entrando ci si trovava in un locale abbastanza ampio senza altre aperture verso l’esterno. Il pavimento era un lastricato abbastanza rozzo, come piuttosto rozzo appariva tutto il locale. Sulla destra c’era una scala di legno che, con due rampe portava al piano superiore. Nella parete di fondo si apriva una porta che portava nel locale chiamato impropriamente cantina. In fondo alla parete di sinistra si apriva un’altra porta che portava in un andito ben illuminato da una finestra. In questo grande ingresso lastricato non c’era alcun mobile.

L’andito

Era un locale non troppo angusto, col pavimento di tavole, che aveva nella parete a destra una porta che immetteva in cucina e, nella parete a sinistra, un’altra porta che immetteva nel salotto (o, almeno, quello che doveva essere il salotto). Nella parete di fronte si apriva una finestra che dava sulla stradicciola acciottolata che portava in fondo al paese. Poiché le case al di là della strada erano più basse, erano visibili anche il monte Pisanino e le selve verso Ugliancaldo. Appoggiato alla parete di sinistra, prima della porta del salotto, c’era un divano che, forse insieme alla vetrina, erano stati tolti dal salotto che era diventato la camera da letto di Delfa e delle figlie Anna e Mirella.

La cucina

Entrando in cucina si notava, nel muro di fronte, un bel caminetto abbastanza grande. Nel muro a sinistra si apriva la finestra che dava sulla strada come quasi tutte le finestre della casa. Davanti alla finestra c’era l’acquaio senza acqua corrente. Doveva quindi esserci alla sua destra, una scaffa su cui appoggiare i recipienti con l’acqua che bisognava attingere alla fontana pubblica. Nel muro di destra si apriva una porta che conduceva nella “cantina”. Appoggiati alla stessa parete della porta d’ingresso c’erano, nell’angolo a sinistra, la madia e nell’angolo a destra la vetrina. Anche qui, come in tutta la casa ad eccezione della cantina e dell’ingresso, il pavimento era di tavole di legno. E nel pavimento, quasi davanti alla porta d’ingresso, si apriva una botola o ribalta (in dialetto si diceva “ribalza”) attraverso la quale si poteva scendere, con una ripida scala di legno, nelle cantine sottostanti, vaste come tutta la parte di casa che si affacciava sulla strada e, per di più, in comunicazione con le cantine di una casa in costruzione adiacente. Era un grande spazio da noi pressoché inutilizzato. L’unico prezioso utilizzo che ricordo fu l’allevamento di un maialetto che la mamma, d’accordo con lo zio Settimo aveva acquistato e che lo zio Settimo avrebbe ingrassato. Il maiale stava laggiù anche se Anna spesso lo portava fuori in una selva a pascolare. Fu macellato quando già anche noi eravamo a Minucciano ma fu fatto alla svelta nel timore che o partigiani o tedeschi ce lo portassero via. Per cui l’animale pesava poco più di cinquanta chili.

La cantina

Come ho detto il termine “cantina” era improprio. Infatti non serviva per fare o conservare il vino, bensì essenzialmente come legnaia. C’era, però, anche una “moschiera” cioè una specie di vetrinetta con le pareti e le ante a rete. Era un mobiletto in uso a quei tempi per conservare cibi al riparo delle mosche e che veniva collocato nella stanza più fresca della casa, come era, appunto, la “cantina”. Come già sappiamo nel muro a destra si apriva una porta attraverso la quale si accedeva all’ingresso lastricato. Necessaria per poter portare la legna, quando veniva acquistata, direttamente in “cantina” senza fare il giro dalla cucina.

 Sulla cantina non c’è altro da dire se non che le mie cugine ed io la usavamo a volte per fare certi giochi.

La sala

La sala , come ho detto, durante il periodo della nostra permanenza a Minucciano servì da camera da letto alla Delfa e alle sue figlie. Credo di essere entrato pochissime volte in quella stanza, cosicché ne ho un ricordo molto tenue. Ricordo vagamente che  il letto (o i letti ? Forse c’era anche il lettino di Anna o dormivano tutte e tre nell’unico letto ?) era appoggiato con la testata alla parete opposta al muro su cui si apriva la finestra che, come le altre, guardava verso la stradicciola acciottolata. C’erano, poi, i due comodini e, certamente, un armadio e un “canterale”, ma li immagino più che ricordarli.

L’andito di sopra e il gabinetto

Fatte le due rampe di scale ci si affacciava su un corridoio in fondo al quale c’era la porta del gabinetto. Nella parete a destra si aprivano due porte: la prima immetteva in una stanza vuota, la seconda, a vetri,  immetteva sulla terrazza. Nella parete a sinistra si apriva una porta che immetteva nella nostra camera.

  Nella parete, poi, opposta al gabinetto, verso la quale il corridoio, più stretto, proseguiva a fianco della seconda rampa di scale, si apriva un’altra porta che immetteva nella stanza che si trovava sopra l’ingresso lastricato della casa.

  Il gabinetto era un piccolo locale, come usava una volta, nel quale si trovava, su un lato, un muretto sopraelevato nel bel mezzo del quale c’era un foro entro cui rilasciare i nostri escrementi. Un finestrino si apriva sempre verso la strada e dava sufficiente luce.

La stanza vuota

Vi si entrava, come ho detto, attraverso una porta che si apriva subito a destra, appena in cima alle scale. Era, appunto, una stanza vuota, nella quale, però, io avevo montato un vecchio tavolo (in realtà era una parte di un vecchio tavolo a ferro di cavallo eliminato dal municipio dove, presumo, serviva per le riunioni di consiglio) per poter avere un luogo dove leggere e studicchiare (Nell’anno scolastico 1944/1945 le scuole in Garfagnana non erano state riaperte), In questa stanza passavamo molto tempo le mie cugine ed io, giocando con un vecchio grammofono e con un mandolino.

 Questa stanza si trovava sopra la cantina e aveva una finestra nel muro che guardava verso una ampia terrazza che stava sopra la cucina e si affacciava sulla strada. Era una stanza molto luminosa dove era gradevole soggiornare. Si trovava esattamente sopra la “cantina”.

La terrazza

Si trovava esattamente sopra la cucina. Una ringhiera di ferro proteggeva il davanti che si affacciava sulla strada, mentre sul lato sinistro aveva il muro del nostro corridoio, su quello destro il muro senza aperture di una casa vicina e, sul retro. Il muro esterno della stanza vuota appena descritta. Ho sempre trovato un luogo gradevole questa terrazza, fin da quando, bambino, venivo condotto a trovar gli zii, perché, essendo più alta delle case che stavano di là dalla strada, non aveva nulla che ostacolasse la vista che poteva spaziare dal monte Pisanino alle selve di Ugliancaldo. Inoltre non c’era luogo da cui si potesse vedere chi stava sulla terrazza, per cui ci si sentiva protetti come se ci si trovasse all’interno della casa. Naturalmente nell’inverno non era utilizzabile, ma quando la stagione si fece via via più mite, molto tempo si passava su questa terrazza.

La nostra camera

Entrando dal corridoio ci si trovava subito davanti al letto grande dove dormivamo la mamma ed io, con la testiera appoggiata alla parete a sinistra. Al di là di questo c’era il lettino a una piazza dove dormiva la nonna. Sulla parete di fronte alla porta, che divideva la nostra casa dalla casa adiacente ancora in costruzione, c’era un incavo nel muro delle dimensioni di una porta. Forse c’era l’intenzione del proprietario di mettere in comunicazione la vecchia casa con quella in costruzione una volta ultimata. Sul muro a destra si apriva la finestra sulla strada. In questa stanza dormivo ma credo di esservi entrato di giorno raramente o mai. Per cui non ricordo bene se c’era o non c’era un vecchio canterale appoggiato alla parete della porta. Ritengo verosimile che ci fosse mentre quasi sicuramente non c’erano altri mobili oltre ai comodini.

La stanza sopra l’ingresso

In questa stanza, nella quale si entrava di rado, c’era una gran confusione perché veniva utilizzata anche come sgombero. Ma era usata, soprattutto, dallo zio Settimo, gran cacciatore, per tenere la sua attrezzatura che comprendeva anche gli strumenti per preparare da solo le cartucce. Mi pare che fosse tutto sopra un vecchio tavolo. Ricordo, infine, la presenza di una damigiana di vetro piena per metà di grano in chicchi. Era un modo originale per conservarlo. E, forse, c’era anche qualche altra scorta alimentare. A proposito di questa damigiana ricordo che una volta doveva essere rimasta stappata e c’era entrato un topolino che, ovviamente, non era in grado di arrampicarsi sul vetro per guadagnare l’uscita. Allora io tentai a lungo di eliminarlo colpendolo con le molle del caminetto attraverso il collo della damigiana. Non ricordo come si concluse la lotta ma credo che avremo finito per eliminarlo, altrimenti avrebbe mangiato tutto il grano.

L’illuminazione elettrica c’era in tutte le stanze ed era costituita da una semplice lampada appesa al soffitto, con un semplice riflettore a piatto. Forse nella sala (ora camera da letto) c’era un lampadario.

 

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Camporgiano. La casina del Rumito

Il 22 aprile 1945 gli ultimi alpini del Battaglione Intra transitarono da Minucciano e il giorno dopo passarono i negri della Divisione Buffalo americana. Per noi la guerra era finita ma Guido, del quale dal dicembre non si era saputo più nulla, non era ancora ritornato. Il babbo era alla Casetta. Egli era venuto in permesso pochi giorni prima e il passaggio del fronte lo aveva sorpreso alla Casetta, dove era rimasto (non era prudente venire a Minucciano), ma la sorte di Guido ci preoccupava moltissimo. La mamma si era fatta rilasciare un lasciapassare dai partigiani che erano ritornati dietro ai negri e lei ed io stavamo per partire alla sua ricerca, quando, finalmente, arrivò. Bisognava decidere che cosa ne sarebbe stato di noi e la decisione fu che l’unico luogo dove potevamo andare era la Casetta, una piccola proprietà in quel di Camporgiano di cui mio padre era comproprietario insieme ai fratelli Azeglio e Settimo. Ma il problema era che nella casa vivevano i nostri contadini, che anche la zia Delfa con le figlie dovevano venir via da Minucciano e anche loro avevano la Casetta come unica possibilità e che anche lo zio Azeglio doveva vivere lì poiché il carcere mandamentale, nel quale aveva un appartamento quale custode del carcere stesso, era andato distrutto con la guerra. Tenuto conto del fatto che i contadini erano dieci persone, Azeglio e famiglia quattro, noi quattro, Delfa e le figlie tre, assommavamo a ben 21 persone. La casa, di otto stanze, non poteva contenerci tutti per cui si dovette ricorrere ad altre costruzioni circostanti. Azeglio aveva tre stanze, Delfa ne aveva una sola, i contadini quattro e noi nulla. Allora la mamma, il babbo e la nonna si adattarono a utilizzare come camera da letto il fienile che si trovava presso la casa, mentre Guido ed io avremmo dormito in una casupola che sorgeva in una proprietà vicina che, di giorno, sarebbe stata anche la nostra cucina.

 Quella casupola era, appunto

La casina del Rumito

Come ho detto mamma, babbo e nonna dormivano nel fienile vicino alla nostra Casetta, ma la nostra casa, dove ci si riuniva al mattino e si soggiornava fino a sera, dove si confezionavano e si consumavano i pasti…..era la casina del Rumito. Il proprietario era Ruggero Micotti ma la vigna entro cui stava la casina era lavorata da un certo Satti che di soprannome faceva Rumito (versione dialettale di eremita). Da cui il nome della casina. Si trattava di una costruzione a due piani, costruita dal precedente proprietario, tale Arnaldo Micotti, nostro lontano parente, che aveva impiantato quella bellissima vigna su un terreno che gli aveva venduto il mio bisnonno e che, quindi, era adiacente alle nostre terre e piuttosto vicina. Il pian terreno, costituito da una unica stanza abbastanza vasta, era adibito a cantina, con due giganteschi tini e altre attrezzature per la vinificazione. A quell’epoca, però, la vinificazione non avveniva più lì perché il nuovo proprietario aveva altre terre e vinificava tutte le sue uve in un’altra cantina dove, fatta la vendemmia, veniva trasportata anche l’uva della vigna del Rumito. Di conseguenza si tollerava che noi potessimo utilizzare anche quel locale, sia come legnaia, sia come ripostiglio. Una scala esterna a destra del muro su cui si apriva la grande porta della cantina, con un’unica ripida rampa portava al piano di sopra. Anche questo era costituito da un’unica stanza abbastanza grande che per circa due anni fu la nostra casa e che, quindi, descriverò minuziosamente. La scala terminava in un minuscolo terrazzino guarnito, come la scala, di una ringhiera di ferro. Su questo terrazzino, nel muro che guardava verso i campi di Battifollo, si apriva la porta di ingresso che immetteva direttamente nella stanza.

 Nel muro di destra, nell’angolo vicino alla porta, era appoggiato un trabiccolo di legno ma con piano rivestito di lamiera zincata, sul quale si tenevano i recipienti per l’acqua (ovviamente non c’era acqua corrente per cui bisognava attingerla abbastanza lontano con dei secchi di zinco). Sotto al piano del trabiccolo c’erano dei ganci cui appendere la pentola di alluminio, il laveggio e il laveggino di bronzo. Non c’era acquaio, per cui la mamma lavava i piatti dentro un catino di terracotta smaltata e, poi, buttava l’acqua fuori dal terrazzino. Subito dopo, sempre nello stesso muro, c’era un caminetto, non tanto grande ma funzionante, che doveva essere il fuoco su cui cucinare e la nostra unica fonte di riscaldamento. In fondo, nell’angolo ma appoggiati sul muro di fronte alla porta, c’erano: in basso, appoggiata a terra, una cassa entro cui conservavamo, ben pigiata, la nostra scorta di farina di castagne che per lungo tempo sarà la base della nostra alimentazione; sopra la cassa, appesa al muro, c’era una “piattaia” con la rastrelliere entro cui sistemare, appunto, i piatti e i coperchi e con un paio di scaffe su cui tenere altre cose. A metà dello stesso muro c’era una finestra che si affacciava sulla parte superiore della vigna e verso i nostri terreni che erano subito al di là. Davanti alla finestra c’era la madia, entro cui si conservavano gli alimenti e nell’angolo a sinistra, con la testiera appoggiata allo stesso muro, c’era il lettino di Guido. Di là dal lettino, fra il lettino stesso e il muro di sinistra, stava, opportunamente ripiegata, la branda di legno e tela su cui dormivo io. Essa, ovviamente, veniva aperta solo la sera per lasciare, durante il giorno, il necessario spazio alle attività quotidiane, mentre ogni mattina veniva ripiegata e collocata nel luogo che ho detto. Nel muro di sinistra,all’altezza dei piedi del lettino di Guido, si apriva un’altra finestra che guardava verso il basso della vigna. Nell’angolo, a sinistra di questa finestra, avevamo montato una scaffalatura di fortuna su cui tenevamo i libri che avevamo potuto salvare o che ci eravamo procurati dopo. Davanti a questa povera libreria c’era un tavolo e, fra la libreria e il tavolo, una sedia. Era il luogo dove sia io che Guido potevamo studiare.  Fra questo tavolo e la porta c’era un vecchio specchio rettangolare piuttosto malandato e, sotto di esso, un vecchio lavabo con una catinella smaltata sopra e una brocca sotto. Nel mezzo alla stanza c’era il tavolo col piano di marmo e alcune sedie intorno (mi pare cinque o sei). Purtroppo non c’erano servizi igienici, per cui avevamo scavato una fossa sul retro della casina (proprio sotto la finestra della madia che tenevamo sempre chiusa), vi avevamo posto sopra una tavola abbastanza larga e robusta, vi avevamo costruito intorno, con tavole e frasche, un casottino con un tettuccio. E quello era il nostro gabinetto.

 Quando venne l’inverno, però, non era più possibile utilizzare il fienile che aveva chiusure di fortuna per cui Jaccò (Jacopo Pellegrinetti, fratello di mio nonno) ospitò Delfa e le sue figlie nella sua casuccia che si trovava subito sotto la Casetta per cui anche mamma, babbo e nonna poterono avere una stanza nella Casetta, la prima a destra a pianterreno per dormire. Ma la nostra “casa” continuava ad essere la casina del Rumito.

 

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                        1) La casina del Rumito vista dalla ex vigna                                                                  2) La stessa vista da vicino

 

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                      3) Le scale per salire al piano superiore

 

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La Casetta 1947

Fu il 10 marzo 1947 che potemmo lasciare definitivamente la casina del Rumito, che noi chiamavamo scherzosamente “bungalow”. Era accaduto che le carceri mandamentali erano state ricostruite compreso l’alloggio per il custode, per cui Azeglio aveva potuto riprendere la sua attività e il suo alloggio. Così le sue tre stanze furono divise fra noi e la Delfa. Delfa ebbe la cucina (che era la seconda stanza a destra entrando) e riebbe dai contadini (alcuni dei cui figli non erano più lì ma si erano trasferiti a Genova per lavoro) la stanza al primo piano, noi avemmo la prima stanza a sinistra al piano terra, che diventò la camera della mamma e del babbo, quella che prima era la loro camera (prima stanza a destra al piano terra) divenne, con adattamenti, la nostra cucina e la prima camera che si trovava a sinistra appena giunti in cima alle scale ed era proprio sopra alla cucina della Delfa divenne la camera di Guido e mia. La grande libertà che avevamo nel “bungalow” ci lasciò qualche rimpianto, e ci addolorò molto il fatto che Ol Mokono, il nostro bel gattino bianco e nero si rifiutò di seguirci alla Casetta malgrado i miei tentativi di condurcelo. E morì poco dopo. Comunque ora avevamo una vera casa, anche se la dividevamo con altre due famiglie ed ora, naturalmente, debbo descriverla.

La cucina

Come ho detto era una stanza non nata come cucina, per cui non aveva caminetto, non aveva fornelli, non aveva acquaio. Era necessario risolvere il problema di una fonte di calore per scaldarci d’inverno e per cucinare. Trovammo da qualche parte una bella stufetta di ghisa, alta circa cinquanta centimetri dal suolo, con uno sportellino in basso per dare aria al fuoco. Nella parte superiore aveva due aperture rotonde con un diametro di una trentina di centimetri, chiuse con cerchi che consentivano di chiudere completamente le aperture quando non c’era da cucinare, ovvero di aprire togliendo alcuni cerchi in modo da adattare il foro alle dimensioni della pentola. Per l’uscita del fumo il babbo aveva tolto un vetro alla finestra sostituendolo con una latta con un foro nel mezzo attraverso cui passava il tubo, che, poi, saliva un po’ in alto e finiva con un adeguato cappuccio che impedisse alla pioggia di cadervi dentro. Debbo dire che la soluzione fu molto funzionale e soddisfece tutte le nostre esigenze. Non ci fu soluzione, invece, per la mancanza di acquaio. La mamma lavava i piatti dentro un catino sul tavolo e, poi, gettava l’acqua sporca dalla finestra. Esattamente come faceva nel “bungalow”. Da questo punto di vista non era cambiato molto. In realtà anche l’acquaio della Delfa, che aveva la cucina adiacente alla nostra, scaricava sul terreno che essendo in pendenza, lasciava scorrere l’acqua che, passando anche sotto la nostra finestra, andava a perdersi nei campi. L’acqua gettata fuori dalla mamma, quindi, non faceva che aggiungersi a quella della Delfa andandosi poi a disperdersi insieme a questa nei campi. Malgrado tutti questi problemi, però, noi eravamo soddisfatti perché rispetto a prima c’era stato un netto miglioramento della situazione. Descriviamo, quindi, la cucina. Entrando si trovava, nell’angolo subito a destra, una rozza vetrinetta fatta con delle cassette e poi verniciata che fece il babbo subito dopo il nostro trasferimento. Nel mezzo del muro di destra si apriva una finestra che dava sul davanti della casa dove era un piazzale cementato. Nell’angolo in fondo, appoggiato al muro opposto alla porta, c’era il trabiccolo per l’acqua e le pentole, il solito che avevamo al “bungalow”. Nel mezzo di questo muro c’era un’altra finestra che guardava verso la cima della vigna e, proprio davanti a questa ma un bel po’ distaccata dal muro, stava la stufetta sopra descritta, Appoggiata alla parete a sinistra, che divideva la nostra cucina da quella di Delfa, c’era la madia. Nel mezzo il solito tavolo e le solite sedie. E questo è tutto.

La camera di babbo e mamma

Si trovava subito a sinistra della porta di ingresso alla casa, quindi di fronte alla cucina. Appena entrati, nell’angolo a sinistra c’era un attaccapanni appeso al muro di sinistra (il muro esterno che dava sul piazzale) e, sotto di esso, tre cassette sovrapposte di legno chiaro larghe una quarantina di centimetri, lunghe un po’ più di un metro e alte una ventina di centimetri. Si trattava di cassette che contenevano, ai loro tempi, tre proiettili da cannone calibro – credo – 75 prolungato e che io avevo recuperato nella galleria del Poggio dove ce ne erano ammassate una certa quantità. Esse erano l’unico mobile della camera, oltre il letto e, forse,  le comodine. In esse la mamma teneva la biancheria usandole come se fossero tre cassetti di un canterale. Un po’ più in là, nello stesso muro, si apriva una finestra che, come ho detto, dava sul piazzale. Nel muro di fronte alla porta si apriva un’altra finestra che dava verso il cancello. Nel muro a destra (in realtà una parete che la divideva dalla cucina dei contadini) era appoggiato un vecchio letto di ferro che era del nonno, con, ai lati, una o forse due comodini. Non ricordo che ci fosse uno dei soliti piccoli lavabi. Probabilmente si lavavano in cucina.

Non c’era altro.

La camera di Guido e mia

Era situata sopra la cucina della Delfa. Salendo le scale era la prima porta a sinistra che bisognava prendere per entrare.  Proprio di fronte alla porta, nell’angolo, appoggiata al muro esterno che guardava verso la cima della vigna, avevamo sistemato la nostra “libreria” (quella stessa che avevamo al “bungalow”) e, davanti ad essa, il solito tavolo sul quale si studiava. In questo stesso muro si apriva una finestra e, davanti ad essa, c’era il nostro lavabo con catinella in alto e brocca in basso. Catinella e brocca erano di ferro smaltato. Nel muro di sinistra si apriva un’altra finestra che guardava verso Camporgiano e, appoggiati al muro interno – lo stesso in cui si apriva la porta di accesso – c’erano appoggiati due letti a una piazza. Il mio, che era più vicino alla finestra, era un vecchio letto della vecchia Casetta, di ferro nero, che in luogo della rete aveva un somier a molle. Era alto e un po’ monumentale, ma ci dormivo bene. Più vicino alla porta c’era quello di Guido, che era il solito lettino che aveva al “bungalow”. Fra i due letti nel muro c’era una sporgenza: si trattava della canna fumaria della cucina sottostante che attraverso la camera e il sovrastante soffitto andava a sfogare sul tetto con un bel comignolo di mattoni, coperto con quattro tegole.

I servizi igienici

Indubbiamente avevamo migliorato rispetto alla buca che avevamo al “bungalow”, ma anche questi erano piuttosto modesti. Nel pianerottolo fra le due rampe di scale c’era una porta che portava su un terrazzino sul retro della casa. Il terrazzino aveva forma triangolare con un vertice proprio nell’angolo della casa vicino al cancello. Da lì, costeggiando la strada di Battifollo, si veniva allargando fin oltre un metro dalla porta suddetta. In questo spazio più o meno quadrato (coi lati di poco più di un metro), a destra della porta, c’era il gabinetto tirato su a mattoni messi di costa. Appoggiata al muro della casa c’era una base in muratura in mezzo alla quale c’era un foro rotondo che altro non era che la bocca del tubo che portava nel sottostante tombino o pozzo nero. Il foro era coperto con un coperchio di legno. Per usarlo bisognava salire con i piedi sulla base e incoccolarsi sopra il buco. Sia il terrazzo che il gabinetto erano in condizioni precarie. Il pavimento del terrazzo e, quindi, anche del gabinetto, poggiava su travicelli di legno che, essendo da sempre esposti alle intemperie, erano mezzi marci tanto che in alcuni punti il pavimento aveva ceduto, per cui a malapena si poteva raggiungere il gabinetto. Dopo diversi anni, inevitabilmente, anche il gabinetto crollò in parte, tanto che il babbo ed io dovemmo intervenire e rifare prima un solido terrazzo su travi di ferro, poi un gabinetto sempre di mattoni ma molto più solido. Un finestrino che guardava verso la strada dava luce al gabinetto. Naturalmente, essendo l’unico servizio della casa, era in comune e veniva usato da tutti i membri delle tre famiglie che la abitavano.

 

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