Indice della pagina:

1)   La casa di Marisa

2)   La casa del Rodolfo

3)   La casa del Grilli

  La  casa di Marisa

Dopo il matrimonio Marisa ed io vivemmo alla Casetta fino al tardo autunno del 1952. In quel tempo Marisa risultò essere di nuovo incinta (il primo figlio, Fabio, nacque immaturo dopo sei mesi di gravidanza e non sopravvisse) e sua madre volle che abitasse a casa loro.  La cosa sul momento non mi piacque e per un certo tempo io continuai a vivere alla Casetta. Poi spostammo la nostra camera nella casa di Marisa e anch’io andai a dormire con lei. Di giorno, però, tornavo a vivere con i miei. Ma ai primi di settembre mi capitò un lavoro di insegnante, anche se precario, in un istituto per handicappati a Fornaci di Barga, che si aggiungeva al lavoro che già facevo in ferrovia. Così, tenendo conto che avrei potuto più facilmente raggiungere i luoghi di lavoro, oltre al fatto che stava per nascere Fabrizio, decidemmo che sarei andato a vivere anch’io in casa con i suoceri, versando loro un contributo in denaro. Quindi per un certo periodo di tempo quella fu la nostra casa. Ed anche se è la stessa nella quale viviamo ora, debbo descriverla perché all’epoca era piuttosto diversa.

Il piano terra

Ingresso

La casa di Marisa ha un lato sulla via Bertolini, all’inizio della piazza, però ha l’ingresso in Via del Forno al n. 2.  Entrando ci si trova nell’andito del piano terra. A destra si apre una porta che da in una stanza che, all’epoca narrata, era affittata alla Zara, una modesta pettinatrice. Da questa stanza un tempo (prima che la stanza fosse affittata) si poteva accedere alla bottega del Dino, il padre di Marisa, che aveva un negozio di scarpe, attraverso una porta nella parete di legno che divideva le due stanze. A sinistra si aprono due porte: la prima da accesso alla cosiddetta “cucina di sotto”, la seconda da accesso alla cantina.

Di fronte a sinistra si apre una piccola porta che da accesso ai servizi igienici mentre a destra c’è la prima rampa di scale per salire al piano superiore. Le scale sono di pietra e c’è una bella ringhiera di ferro battuto verniciata di nero. Nell’andito non ci sono mobili. Le pareti e il soffitto sono tinteggiati di bianco con un alto zoccolo dipinto di verde. L’unica luce naturale è quella che viene dalla porta quando è aperta e dal finestrino che la sovrasta e quella che viene dalla finestra che si trova in alto sul pianerottolo. Quindi è piuttosto buio. L’illuminazione elettrica è rappresentata da un’unica lampadina che si trova sopra la finestra del pianerottolo a illuminare piuttosto debolmente le due rampe di scale e i due anditi.

La stanzina della Zara

La stanza, anche se piccola, ha, nel muro a destra di chi entra, una ampia finestra che da in Via del Forno, mentre nel muro di fronte ne ha un’altra che da in Via Bertolini. Malgrado le due finestre non ha molta luce per i fabbricati che circondano la casa. A sinistra di chi entra c’è la parete divisoria di legno con una porta, ora chiusa, che dava accesso alla bottega del Dino. . Il pavimento era di cemento, senza mattonelle. Nella stanza c’è pochissimo arredamento. Forse un mobiletto o un tavolinetto per appoggiarvi i pochi attrezzi, un vecchio lavabo di ferro con una catinella per lavare le teste (la stanza non aveva acqua corrente) e, fra i pochi attrezzi, un “fon” per asciugare le teste lavate. Non c’era altro.

La bottega del Dino

Il Dino Mazzei era il padre di Marisa. Egli gestiva un negozio di calzature e lavorava come calzolaio. Il suo negozio che, come ho detto, era adiacente alla stanzina della Zara, aveva un bell’ingresso indipendente sulla Via Bertolini, ai limiti della Piazza San Giacomo. Sollevata la saracinesca che chiudeva il negozio di notte, si poteva vedere una porta a vetri che aveva ai due lati due vetrine per l’esposizione della merce. Tutte e quattro le pareti erano scaffalate e piene di scatole di scarpe. Nel muro a destra di chi entrava si apriva una ampia finestra che dava sul vicoletto detto “Scarriottola”. Di luce ne entrava poca perché il vicolo è stretto e l’alto fabbricato che è al di là del vicolo ne faceva passare poca. Un po’ più di luce entrava dalla porta a vetri e dalle vetrine che avevano le case un po’ più lontane. Proprio davanti a detta finestra stava un’ alta stufa di terracotta il cui tubo usciva dalla finestra attraverso un foro praticato in una latta quadrata che sostituiva un vetro. Di fronte alla porta, vicino alla parete di legno, c’era il banco di vendita, di legno con due cassetti e uno spazio sottostante.

 Subito a sinistra di chi entrava, vicino alla porta, stava il deschetto da calzolaio dietro il quale il Dino, seduto su una sedia, esercitava il suo lavoro. Per quell’epoca il negozio aveva una bella apparenza. . Il pavimento prima era di cemento, senza mattonelle, poi era stato pavimentato con vecchie mattonelle di cotto.

La cucina di sotto

Era, effettivamente una vera cucina, usata della vecchia zia Zelica che ha abitato lì finché è vissuta. Nel muro di fronte a chi entrava, infatti, nell’angolo a destra, c’era un bel caminetto dall’ampia cappa e il camino che saliva fino al tetto; e subito a sinistra, appoggiato allo stesso muro della porta, c’era un fornello in muratura a due fuochi. Nel muro a sinistra di chi entrava si apriva una finestra in Via del Forno e, proprio nello sguancio della finestra, c’era l’acquaio con il rubinetto dell’acqua corrente.  Vicina al muro di fronte, nell’angolo a sinistra, stava un’ampia conca di coccio rosa appoggiata su adatti sostegni. Serviva per fare il bucato.  A destra di chi entrava c’era la parete che divideva questa stanza dalla cantina. Appoggiata ad essa c’era una vecchia vetrina li legno verniciato di scuro e, fra questa e il camino, c’era una “cassa” (mobili all’epoca usati anche per contenere biancheria) che conteneva dei libri e dei documenti riguardanti i genitori di Olga, la mamma di Marisa, e il periodo che avevano vissuto in Brasile. Il pavimento era di cemento, senza mattonelle  (soltanto più tardi, subito prima di morire, il Dino lo aveva fatto pavimentare insieme alla stanzina della Zara, con mattonelle di graniglia)

Nel mezzo c’era un vecchio tavolo con due o tre sedie. D’inverno in questa stanza si faceva il bagno entro una grande vaschetta di lamiera zingata, davanti al fuoco acceso. In tutte le stanze l’illuminazione notturna era rappresentata da una lampadina elettrica appesa al soffitto.

La cantina

La cantina era una stanza col pavimento di cemento, senza mattonelle. Aveva i muri non intonacati ed era usata principalmente come legnaia. Nel muro a destra di chi entrava si apriva una piccola finestra che dava sulla “Scariottola” e, quindi, dava poca luce. Era protetta da un retino di ferro per impedire ai topi di entrare. La finestra, infatti, si apriva a poca distanza dal piano della stradina. Lungo tutto il muro di fronte a chi entrava veniva sistemato il rifornimento di legna da bruciare nel caminetto, all’epoca unica fonte di riscaldamento. Alla sinistra di chi entrava c’era la parete che divideva la cantina dalla cucina di sotto. Appesa a questa parete c’era una “moschiera” , armadietto a due scaffe con le pareti e lo sportello fatti di rete molto fina per impedire alle mosche di entrare. La “moschiera”, molto usata quando non c’erano i frigoriferi, veniva collocata nel luogo più fresco della casa e serviva per conservare i cibi. A destra della moschiera c’era un “corbello” entro cui il Dino metteva la legna convenientemente appezzata per usarla nella cucina economica. In terra, a destra di chi entrava e fin all’angolo, venivano conservate nella paglia le mele acquistate in quantità e le patate. La porta di ingresso, come tutte le altre, era una bella porta ampia, di legno di abete verniciato di marrone, con una bella cornice lavorata.

Il gabinetto

Il gabinetto o cesso si trovava nel sottoscala. In fondo all’andito, fra la prima rampa di scale e il muro della cantina, si apriva una porta più piccola delle altre che vi dava accesso. A destra, appoggiata al muro al di là del quale c’era la bottega, c’era una base in muratura alta una quarantina di centimetri e larga altrettanto, nel mezzo alla quale c’era il foro circolare entro cui convogliare orina ed escrementi. Il tutto, attraverso un tubo, scendeva nel sottostante tombino o pozzo nero. Per utilizzarlo occorreva salire coi piedi sopra la base e incoccolarsi sopra il foro. Il quale foro, poi, veniva chiuso con un apposito tappo di legno. Una finestrina come quella della cantina si apriva sulla Scariottola e dava poca luce. Il soffitto era basso perché si trovava sotto il pianerottolo. Il pavimento era di cemento. Il piccolo ambiente proseguiva anche sotto la prima rampa delle scale e qui, sul pavimento, si apriva una botola con una chiusura di pietra, attraverso la quale si poteva, periodicamente, svuotare il pozzo nero il cui contenuto era molto apprezzato  dai contadini come fertilizzante. Mi pare che qui si conservavano anche le scope e gli altri strumenti per la pulizia. Non c’era altro.

Il piano superiore

Salita la seconda rampa di scale, ci si trovava nell’andito di sopra. Era pavimentato con mattonelle da marciapiedi grigie abbellite da un disegno ma non lisce e, quindi, faticose da pulire. Adestra si aprivano due porte: la prima dava nella “cameretta”, la seconda nella cucina. A sinistra si aprivano altre due porte: la prima dava in sala, la seconda nella camera matrimoniale. Nel muro di fronte a chi saliva si apriva una ampia finestra che dava nella via del forno che dava abbastanza luce. Altra luce veniva anche dalla finestra del muro opposto, quella che si apriva sopra il pianerottolo. Fra la porta della cameretta e la porta della cucina c’era, appoggiata al muro, una cassa di legno ben tenuta, mentre di fronte ad essa, fra le porte della sala e della camera matrimoniale, c’era un grazioso mobiletto attaccapanni abbastanza largo e alto circa due metri da terra. Nel mezzo c’era uno specchio.

La cameretta

Se non ricordo male questa era stata la camera della Zelica, zia di Dino, che aveva vissuto in questa casa occupandone una parte sua fino alla morte. Nel muro a destra di chi entrava si apriva una finestra che dava sulla Scariottola portando abbastanza luce essendo la casa che la fronteggiava un poco più indietro della stradina. Il pavimento, come tutte le stanze del piano, era pavimentato con mattonelle di buona fattura. L’arredamento consisteva in un letto da una piazza e mezzo che appoggiava la testata alla parete di sinistra, che la divideva dalla cucina. Il letto era fiancheggiato da un comodino. Appoggiato al muro di fronte alla porta di entrata c’era un canterale ottocentesco di pregevole fattura, con una alzatina munita di cassettini e di uno specchio. Non ricordo altro.

La cucina

Questa stanza era la più utilizzata in quanto fungeva anche da sala da pranzo e da soggiorno.  Nel mezzo della parete a destra di chi entrava c’era un bel caminetto che, d’inverno, costituiva l’unica fonte di riscaldamento della casa. Alla destra del caminetto c’era un mobiletto che sosteneva un fornello a gas in bombole, di recente acquisizione. Alla sinistra del camino, proprio nell’angolo ma appoggiata al muro di fronte alla porta, c’era una cucina economica a legna che veniva accesa di rado, per cucinare qualcosa nel fornetto. Appoggiata allo stesso muro ma nell’angolo opposto c’era la vetrina, con una alzata chiusa da due ante a vetri. Nel muro a sinistra di chi entrava si apriva una finestra, ampia come le altre, che guardava verso la via del forno. Dava abbastanza luce perché in quel punto la strada curvava verso sud aprendo uno spazio che consentiva di guardare anche oltre le case, verso la “Calabricchia”. Come nella cucina di sotto, anche qui, nello sguancio della finestra, era posto un acquaio di cemento. Dal muro a destra dell’acquaio usciva un rubinetto con l’acqua corrente. In un’angolo del camino, poggiato a terra, c’era un fornellino di ghisa che, a volte, veniva usato utilizzando la brace del camino, risparmiando, così, il gas.

La camera matrimoniale

Di fronte alla cucina, dall’altra parte dell’andito, c’era la camera matrimoniale. Era, questa, la camera di Olga e Dino, ma quando Marisa ed io ci trasferimmo qui, la camera fu ceduta a noi mentre Olga e Dino si ritirarono nella cameretta.

 Questa camera era abbastanza luminosa perché, oltre alla finestra del muro a destra di chi entrava, che guardava verso la via del forno e, quindi, non portava molta luce, c’era quella nel muro di fronte, che guardava verso la via Bertolini, più ampia anche perché eravamo proprio al limite della via che, poi, si apriva sulla piazza. Anche questo pavimento era di buona fattura ma aveva delle mattonelle un po’ smosse perché appoggiavano, come nel resto delle stanze, su tavole di abete sostenute da travi di legno, come gran parte del le case dell’epoca.  Come arredamento, di nostro, avevamo solo il letto, fabbricato dal Rodolfo e pagato a rate. Così i suoceri ci avevano lasciato il loro canterale e il loro armadio oltre ai comodini. Il canterale poggiava contro il muro di fronte, nell’angolo di destra. Il letto poggiava la testata alla parete di sinistra, che divideva la stanza dalla sala e l’armadio a due ante senza specchio poggiava contro lo stesso muro della porta, a sinistra di chi entrava. Al di là dell’armadio, proprio nell’angolo, comparve dopo poco tempo una piccola scrivania che avevamo fatto costruire dal Vasco per sostenere la nostra vecchia macchina da scrivere (era del vecchio farmacista Leandro, fondatore e direttore de “Il Camporgiano”, che la sua vedova aveva dato a mio padre per pagare il fornelloa gas che gli aveva venduto). Era una vecchia macchina americana dell’800 ma ancora funzionante, con la quale io arrotondavo i miei guadagni copiando atti notarili per conto del notaio Marafelli. Nell’altro angolo, a fianco del nostro letto, il 25 settembre comparve la culla di ferro (prestataci da un Bernardini parente di Marisa) entro cui dormiva il nostro figlioletto Fabrizio. Appeso sopra il letto c’era un quadro ma non ricordo l’immagine. E per l’illuminazione notturna c’era sicuramente un lampadario (che, poi, noi sostituimmo acquistandone un altro) ma non ne ricordo la forma.

La sala

La sala era una bella stanza grande, illuminata sua da una finestra aperta nel muro a sinistra di chi entrava e che dava sulla Scariottola e – molto di più – da una grande porta finestra  che si apriva nel muro davanti a chi entrava e che dava su un terrazzino sospeso sopra la via Bertolini ma, praticamente, sulla parte inferiore della Piazza San Giacomo. Il pavimento era fatto di belle mattonelle decorate da un bel disegno e le pareti erano dipinte di rosso, con il soffitto chiaro e delle rifiniture ben fatte dal Valentini che, all’epoca, era l’imbianchino del paese.  A sinistra, appoggiato allo stesso muro della porta, c’era un divano imbottito e con le molle, rivestito, come allora usava, di una stoffa spessa simile al velluto e decorata con disegni e ghirigori a colori piuttosto scuri. Mi pare, però, che tale divano in certi periodi sia stato collocato anche appoggiato alla parete di destra, quella che divide la sala dalla camera matrimoniale. Nell’angolo fra la porta-finestra e la finestra c’era, proprio messa di angolo, la vetrina di legno scuto, con l’alzata chiusa da due ante a vetri decorati. Era di qualità superiore a quella della cucina, fatta appositamente per arredare una sala. Nell’altro angolo in fondo a destra c’era uno di quei mobiletti a scaffe che venivano chiamati “etagè” alla francese (sul vocabolario: etagere) con sopra dei ninnoli vari. Nella scaffa più bassa mi pare ci fossero i giornali, ma forse c’era qualcosa come un portariviste lì accanto. Nel mezzo alla stanza c’era un bel tavolo quadrato, dello stesso legno della vetrina, con sei sedie pure di legno leggero decorato a rilievo. Alle finestre c’erano tende lunghe fino a terra. Appeso al soffitto, proprio sopra il tavolo, un lampadario. Ai muri erano appesi dei quadretti con delle stampe e delle foto. Ricordo la bellissima foto di Marisa nata da poco, distesa nuda su un piano, con due magnifici occhi spalancati.

Il soffitto

Sopra alle stanze del piano di sopra (tutte le stanze sia di sopra che di sotto hanno soffitti altissimi, a tre metri e trenta dal pavimento) c’era anche il soffitto. Vi si poteva accedere appoggiando una scala a pioli alla botola che si apriva nel soffitto, vicino alla porta della sala. Dal soffitto, attraverso un abbaino, si poteva salire sul tetto. All’epoca il soffitto non era praticabile se non per casi di emergenza e nel periodo in cui abbiamo abitato lì credo di non esserci mai salito né di aver visto qualcuno salirvi.

 

 

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La casa del Rodolfo

 

Il primo ottobre del 1955 ebbi il posto di ruolo come maestro per vincita di concorso e subito cominciammo a pensare di trovare una casa tutte per noi. Mentre ancora lavoravo in ferrovia vidi il Grilli che aveva appena costruito una casa in Via Garibaldi, vicina al macello del Santarini e gli chiesi se intendeva affittarla. Mi disse che per ora la casa doveva ancora essere completata e che, comunque, aveva già ricevuto diverse richieste. Quindi cominciammo a cercare altrove. Il Rodolfo Regoli (quello che ci aveva costruito il letto) che era un amico seppe che cercavamo una casa e ci offrì un mini appartamentino al secondo piano della sua casa. Era una casa a tre piani. Al piano terreno c’era l’ingresso, una cantina e un garage. Al primo piano abitava lui con la moglie e due figlie. Al secondo piano abitavano la mamma di Rodolfo con una figlia, Rita, non ancora sposata. Però occupavano soltanto due stanze per cui noi avremmo potuto occupare altre due stanze che erano libere. Erano soltanto due stanze ma molto grandi e luminosissime. Il bagno sarebbe stato in comune. Ci pensammo un po’ ma, infine, accettammo e nel febbraio del 1956 ci trasferimmo là.

 Nel frattempo avevamo completato la nostra camera facendo costruire il canterale e le due comodine al Fiorani “Tranquillo” e l’armadio a specchio a tre ante da un falegname di Castelnuovo (tramite il “Tranquillo”). Inoltre avevamo comperato un bel lettino per Fabrizio che, ormai, aveva due anni e mezzo. Avevamo già fatto costruire, pezzo per pezzo, anche un “mettitutto” per la cucina, un bel tavolo con il piano di marmo e le sedie, e lo tenevamo nel magazzino dei biscotti in casa della Giustina in attesa di avere una casa dove metterli. Così ci fu solo da trasportare i mobili, cosa che feci in gran parte da solo faticando un bel po’. Tanto che mi ammalai quando ormai in casa di Marisa c’erano rimaste solo le reti del letto. Per fortuna mi rimisi presto e terminai il trasloco. E cominciammo la nostra vita finalmente da soli, come desideravamo. Ed ecco la descrizione della casa:

La cucina

Dopo aver salito le quattro rampe di scale, subito a destra, sul pianerottolo, si apriva la porta della nostra cucina. Nel muro di fronte a chi entrava si apriva una finestra che guardava a sud, verso la villa del Dottor Bertolini. L’altra finestra si apriva sul muro a destra e guardava verso il retro della casa dove c’era un piccolo terreno. Il pavimento era a mattonelle di graniglia, molto semplici ma senza difetti. Svoltando a destra dopo essere entrati ci si trovava davanti al caminetto, appoggiato allo stesso muro della porta. Alla sua sinistra, nell’angolo ma appoggiato al muro sul retro c’era il fornello a gas sopra un apposito mobiletto. Nell’altro angolo, fra le due finestre, anche questo appoggiato al muro sul retro, c’era l’acquaio col rubinetto dell’acqua corrente. Nella parete che divideva la cucina dalla camera, posta a sinistra di chi entrava, era appoggiato il nostro mettitutto.

 Al di là di questo, in fondo alla parete, si apriva la porta che dava accesso alla camera. Quasi subito comperammo (anche questo a rate di 2000 lire l’una)  un apparecchio radio e lo collocammo a destra del caminetto (fra il caminetto e la porta d’ingresso), sopra il tavolinetto-scrivania che avevo fatto costruire per appoggiarci la macchina da scrivere che ora non usavo più. In mezzo alla stanza c’era il tavolo con le sedie. C’era così tanto spazio intorno che Fabrizio ci girava comodissimamente col triciclo.

La camera

Altrettanto grande quanto la cucina, non trovammo difficoltà a collocarvi il nostro mobilio. Anche questa stanza aveva due finestre: una sul muro subito a destra di chi entrava che guardava verso la villa del Bertolini e l’altra nel muro di fronte a chi entrava, che si apriva sulla via Bertolini. Era piena di luce. Aveva il soffitto di tavole di legno verniciate di marrone scuro e il pavimento di mattonelle rettangolari di cotto non lucide (le mezzanine). Prima di entrare nella casa le verniciai tutte di rosso vivo, rendendole così lucide e facilmente lavabili. Nel muro a destra di chi entrava, oltre la finestra e fino all’angolo sistemammo il nostro armadio a specchio a tre ante. Di fronte alla finestra di fronte a chi entrava sistemammo la toalette con un grande specchio e lo sgabellino imbottito per sedersi, davanti. Nell’altro angolo a sinistra di chi entrava e, quindi, a sinistra della toalette, stava il canterale, messo proprio d’angolo. Nella mezzo della parete a dinistra di chi entrava si apriva una porta che dava nell’appartamento della Rita e di sua madre ma che, ovviamente, era chiusa. Il letto era appoggiato con la testiera alla parete che divideva la camera dalla cucina, con i due comodini, di cui uno subito vicino alla porta. Di là dal nostro letto c’era il lettino di Fabrizio. Era un bel lettino di legno che avevamo comperato a Castelnuovo l’anno prima.

 Sul pavimento, dalla porta fino a oltre il letto e, poi, da qui fino alla parete di sinistra, passando davanti alla toalette, c’era una guida di stoffa appositamente acquistata per salvaguardare il più possibioe la verniciatura del pavimento. Al soffitto era appeso il nostro primo lampadario acquistato dall’Arturin. Era di vetro ed era formato da una struttura tubolare a cerchio irregolare ( si potrebbe definire un ovale con curvature) sulla parte bassa del quale era fissata una coppa a forma di fiore rivolto verso l’alto all’interno del quale stava la lampadina.

Il bagno

Per accedere al bagno bisognava uscire dalla cucina e scendere una rampa di scale. Dal pianerottolo si entrava nel bagno che era stato costruito sopra un terrazzino sporgente dalla casa. In origine era il classico terrazzino su un lato del quale sorgeva un casottino che era un tipico “cesso” di una volta. Il Rodolfo aveva chiuso con pareti tutto il terrazzino ricavandone un piccolo bagno. Appena si entrava si vedeva, nella parete di fronte, una finestra che dava luce. Subito a destra, appoggiato allo stesso muro della porta, c’era un lavandino. Al di là del lavandino, nell’angolo, c’era uno scaldabagno a legna costituito da un cilindro alto da terra circa due metri. In basso aveva uno sportello che si apriva su un vano entro cui si accendeva il fuoco. Nell’altro angolo, di fronte allo scaldabagno, c’era il water e, pressochè nel mezzo della stanza, si poteva fare la doccia, sotto il diffusore che era sul soffitto. Sul pavimento, ovviamente, c’era una griglia per far uscire l’acqua.

 Era, tutto sommato, un servizio sufficiente. Il guaio era che si trattava di un servizio in comune con gli altri abitanti della casa. E, quel che era peggio, era che il sabato venivano lì a fare il bagno anche i parenti che abitavano altrove.

 

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La finestra a sinistra era quella della cucina che               La finestra a destra era quella della camera                                

ne aveva un’altra sul retro della casa                                 che ne aveva anche una verso la strada che                                                         

                                                                                           si intravede appena perché la facciata è in ombra

 

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  La casa del Grilli

 Nel marzo del 1957, dopo più di un anno, ci trasferimmo di nuovo. Era accaduto che fin al tempo che lavoravo ancora in ferrovia, avevo chiesto al Grilli se ci avrebbe affittato la casa che stava costruendo vicino al macello del Santarini, sopra a quello che era stato fino a poco tempo prima, un loro mulino a elettricità. Lui non mi aveva promesso nulla ma ai primi di quell’anno, quando la casa era quasi pronta, mi chiamò e mi disse che ce la avrebbe affittata. Così ne parlai con Marisa che fu d’accordo, andai a trattare l’affitto con la madre e la sorella del Grilli (che all’epoca gestivano ancora la distribuzione dell’energia elettrica), ci mettemmo d’accordo per un fitto mensile di            £ 10000 (che per l’epoca era molto alto) e a marzo facemmo il trasloco. Avremmo avuto una casa tutta per noi e la cosa, malgrado l’affitto alto, ci entusiasmava. In un giorno, caricando tutta la roba (un po’ per volta) sul portapacchi della “Balilla”, trasportai tutto da solo (qualcuno, forse il Dino, mi avrà aiutato con le cose più pesanti. Ed eccoci, felici, nella nuova casa.

L’ingresso

La casa si trova al n. 22 di Via Garibaldi ma è un po’ arretrata rispetto alla strada. Ha un bel marciapiede e ancora un paio di metri circa prima della strada (questo spazio era sterrato ma quando asfaltarono la strada facemmo asfaltare anche quello spazio con grande vantaggio. Attraverso una bella porta nuova di legno chiaro si accede ad un ingresso largo un paio di metri abbondanti. Subito a destra di chi entra c’è una porta che da accesso ad un garage ma è chiusa e noi la rivestimmo con una bella stoffa incerata e ne facemmo un attaccapanni. Avanzando un paio di metri, sulla destra la larghezza del locale si dimezza e prosegue fino in fondo. Là in fondo, sempre nel muro di destra, si apre un’altra porta che da accesso ad un locale con un acquaio con acqua corrente subito a sinistra nell’angolo vicino alla posta. In mezzo al muro di sinistra si apre una grande finestra che guarda verso la ferrovia, sul retro della casa. Vicino all’altro angolo, proprio di fronte alla porta d’entrata, c’è un caminetto funzionante (anche se fa un po’ di fumo). Questa stanza non ci competerebbe ma in realtà l’abbiamo sempre usata fino a che, come dirò avanti, affittammo anche quella. Tornando nell’ingresso vediamo, come ho detto, che a circa due metri dall’ingresso, appoggiata al muro di sinistra, c’è una rampa abbastanza lunga di una scala di marmo. Giunti sul pianerottolo, troviamo un’altra rampa più breve che sale, seguendo la direzione opposta alla prima rampa, fino al nostro appartamento, sfociando in un piccolo corridoio.

Il piccolo corridoio

E’ veramente piccolo, largo circa un metro e lungo tre abbondanti. Chi arriva salendo le scale si trova di fronte una porta a vetri che porta in un minuscolo salottino fra le due camere. Voltando a destra ci si trova davanti ad una porta che da accesso alla sala. Girandosi verso destra ci si trova davanti una breve rampa di scale ancora di marmo, interrotta da una porta che da accesso al soffitto.

 Chi, invece, avendo salite le scale, si volge a sinistra vede, in fondo, la porta che da accesso alla cucina, sulla destra, vicino a quella della cucina c’è un’altra porta che da accesso ad una camera mentre sulla sinistra, di fronte a quella della camera, c’è una porta a vetri che da accesso al bagno.

 Appeso al muro fra la porta del salottino e quella della camera, c’è un bell’attaccapanni di legno scuro da noi appositamente acquistato. Applicato al soffitto c’era un semiglobo di vetro per l’illuminazione notturna.

Il salottino

In realtà si tratta di un locale di tre metri per tre scarsi che ha, fra l’altro, ben quattro aperture. C’è, infatti, proprio davanti a chi entra, una bella e grande porta a vetri che da accesso al bellissimo terrazzo che si affaccia sulla via Garibaldi. In fondo alla parete di destra c’è un’altra porta che da accesso alla nostra camera matrimoniale mentre in fondo a quella di sinistra c’è la porta che da accesso alla camera di Fabrizio e, poi, anche di Cinzia e Olga (diversi anni dopo, nel 1964, ci scambieremo le camere perché acquisteremo un grande armadio a sei ante che poteva trovar posto solo nella camera nata come camera dei ragazzi). Piccolo locale, dicevo, ma molto luminoso e a noi piacque farne appunto un piccolo salottino arredato con un tavolinetto rotondo, due grandi poltrone di legno e di paglia intrecciata e due sgabelli pure di legno e paglia intrecciata. Molto più tardi (1962) faremo sistemare nell’angolo vicino alla porta d’ingresso, a sinistra, una grossa stufa a carbone Worm Morning che riscaldava bene anche le camere mentre nell’altro angolo vicino alla porta ma a destra faremo sistemare il televisore togliendolo dalla sala. Il pavimento, come quello di tutte le altre stanze, è di mattonelle lucide anche se non molto pregiate. Dal soffitto pende un grosso globo di vetro bianco per l’illuminazione notturna.

La cucina

Descrivere la cucina sarà laborioso perché ci sono stati molti cambiamenti nel tempo. All’arrivo sistemammo il nostro mettitutto appoggiato alla parete destra che divideva la cucina dalla camera dei ragazzi. E lì è sempre rimasto. Nel bel mezzo del muro di fronte alla porta sistemammo la bassa stufa a legna che avevamo usato alla Casetta quando ancora non avevamo una vera cucina. Era l’unica fonte di riscaldamento, utilizzabile anche per cucinare. Nel muro a sinistra di chi entrava si apriva l’unica finestra che guardava verso la ferrovia e che, comunque, illuminava bene la stanza. Appoggiato alla parete che divideva la cucina dal bagno (la stessa della porta) proprio nell’angolo vicino alla finestra c’era l’acquaio di marmo con l’acqua corrente. Fra la porta e l’acquaio c’era il mobiletto con sopra il fornello a gas. (Sia Marisa che io abbiamo la sensazione che all’inizio il fornello a gas fosse situato nell’angolo dove, poi, andrà il frigorifero. Poi lo avremmo spostato perché quell’angolo era troppo buio.Ma non ne siamo sicuri) Abbastanza presto sostituimmo la stufetta con una bella cucina economica nuova, sempre a legna. Doveva essere il 1958. Al di sopra di questa sistemammo una cappa di plastica che avevamo comperato e un ventilatore che convogliava i fumi fin dentro la cappa del camino che era di sotto. Ora, però, il caldo in cucina era eccessivo e la differenza con il resto della casa era tale che, passando dalla cucina alle altre stanze si correva il serio rischio di ammalarsi. Così dopo un po’ (forse nel 1962) la sostituimmo con una moderna cucina a gas. Il fornello a gas fu portato in soffitto e il mobiletto fu collocato al di là del mettitutto, a destra della cucina a gas ma un po’ discosto e appoggiato al muro di fondo. Nello stesso periodo il posto prima occupato dal fornello a gas, a fianco dell’acquaio, fu occupato da una lavatrice. E in un’epoca successiva ancora l’angolo in fondo a sinistra della cucina a gas fu occupato da un frigorifero. Forse era il 1965.  Infine sopra all’acquaio fu collocato un mobiletto pensile con lo scolapiatti e un vano per contenere varie cose di cucina. Dal soffitto pendeva un piatto di vetro con una lampadina di buon voltaggio. In mezzo alla cucina, ovviamente, c’era il nostro tavolo di marmo con le sedie di legno.

Il bagno

Era piuttosto angusto ma luminosissimo e completo di tutto. La finestra era proprio di fronte alla porta e guardava verso la ferrovia che correva più in basso. Alla parete di destra che divideva dalla cucina c’era il lavandino, sovrastato da uno specchio di bassa qualità, che sostituimmo subito con un mobiletto pensile dotato di specchio. In fondo, nell’angolo a destra c’era il bidè mentre nell’angolo a sinistra c’era il water. Appoggiata alla parete di sinistra, subito dopo la porta, c’era una corta vasta da bagno entro la quale si poteva stare seduti ma non sdraiati. Sopra di essa c’era lo scaldabagno elettrico. L’illuminazione notturna era garantita da un globo di vetro bianco che pendeva dal soffitto. Le pareti erano piastrellate con piastrelle di ceramica bianche e quadrate fino all’altezza di circa un metro e mezzo. Anche qui apportammo delle migliorie. Anzitutto in luogo della spina dello scaldabagna da inserire nella presa ( che si surriscaldava troppo e appariva pericolosa: avevamo la corrente industriale a 380 volts) collocai un interruttore adatto e molto più sicuro. Poi fissai al muro, ad una altezza di circa due metri un tubo a “L” cui appendere una tenda di plastica che chiusesse la vasca. Quindi comperai, per la “doccetta” un flessibile abbastanza lungo che consentiva di collocare la doccia su un apposito supporto, consentendoci, così, di fare la doccia invece che il bagno in vasca.

La camera dei ragazzi

Nel 1957 avevamo soltanto Fabrizio che così, all’età di tre anni e mezzo, ebbe la sua camerina. La accettò subito senza capricci, malgrado fosse abituato a dormire in camera nostra. In effetti la nostra camera era subito al di là del salottino e lasciavamo le porte spalancate. L’unico segnale di una certa resistenza era che quando andavamo a dargli il bacino della buona notte continuava a farmi una domanda dopo l’altra quasi a volermi trattenere il più a lungo possibile. Infine, però, accettava che si spengesse la luce senza replicare. Ma nella camera c’era soltanto il suo lettino, appoggiato alla parete a sinistra di chi entrava dal salottino (unica porta utilizzata), e quel tavolinetto che avevo a suo tempo fatto fare per tenerci la macchina da scrivere e che, dopo, a casa del Rodolfo, serviva a reggere la radio (Ora la radio era in cucina, in una rientranza apposita del mettitutto), collocato proprio davanti alla finestra che si apriva verso la via Garibaldi. Quasi subito, però, feci costruire dal Vasco falegname un mobiletto-libreria alto circa un metro e lungo due, con due scaffe e uno stipetto chiuso da un’anta ribaltabile, collocato appoggiato al muro di fronte a chi entrava dal salottino. Più tardi la camera avrà anche un armadio a tre ante senza specchi, che verrà collocato appoggiato al muro esterno a destra di chi entra, , al di là della finestra.  Le pareti furono adornate da grandi figure dei personaggi di Walt Disney da me disegnate su grandi fogli di carta da pacchi bianca, poi ritagliate e fissate alle pareti. Furono molto gradite da Fabrizio e dettero un’aria allegra alla cameretta. Più tardi (1958) il lettino di Fabrizio passò a Cinzia e Fabrizio, che ormai aveva cinque anni, ebbe un letto “grande” cioè un lettino a una piazza senza spalliera, Più tardi ancora (1961) il lettino passò a Olga e Cinzia, che aveva quasi tre anni, ebbe il suo letto “grande”. Tutti e tre erano appoggiati alla parete di sinistra che divideva la camera dalla cucina. Mi pare che per l’illuminazione notturna ci fosse un globo di vetro.

 Più tardi ancora (1965) compreremo una camera matrimoniale nuova con un armadio a sei ante che non avrebbe potuto trovar posto nell’altra camera che aveva due finestre. Così la camera dei ragazzi verrà spostata nell’altra camera e questa diventerà la camera matrimoniale. E sarà così sistemata: il grande armadio sarà collocato appoggiato al muro di fronte a chi entra e lo occuperà quasi tutto. Il letto e i grandi comodini saranno appoggiati alla parete sinistra (al posto dei lettini) e la grande toalette verrà appoggiata alla stessa parete della porta occupando tutto lo spazio dalla porta di ingresso all’angolo, rendendo, così, definitivamente bloccata la porta che dava sul corridoio. Al soffitto era appeso il nostro solito lampadario.

La camera matrimoniale

Come ho detto all’inizio (e fino al 1965) essa era situata a destra di chi entrava nel salottino e aveva due finestre: una, nel muro a sinistra di chi entrava in camera, che dava sul terrazzo verso la Via Garibaldi e l’altra nel muro di fronte che guardava verso le case dei Micotti. La stanza, come tutte le altre, era rettangolare, con il lato lungo parallelo alla strada. A sinistra, oltre la finestra che guardava la strada, stava l’armadio a specchio. Davanti alla finestra che guardava verso i Micotti c’era la toelette. Alla parete di destra che divideva la camera dalla sala era appoggiato il letto e alla stessa parete della porta, a destra di chi entrava, c’era il canterale. Dal soffitto pendeva il nostro lampadario. Alle due finestre c’erano le tende di stoffa leggera.

 Nel 1965, come già detto, questa diventò la stanza dei ragazzi e, in un primo tempo, venne così sistemata: L’armadio fu collocato esattamente dove prima era il nostro. I tre letti (che, cresciuta Olga, furono tre lettini a una piazza uguali, erano collocati appoggiati alla parete che divideva la camera dalla sala. Dietro ai tre lettini avevamo applicato alla parete, a guisa di lettiera, una lunga striscia di stoffa a disegni colorati di azzurro. (Marisa dice che questa stoffa era stata applicata anche nell’altra stanza ma non ne siamo sicuri). Appoggiato alla stessa parete della porta, dove prima era il nostro canterale, fu sistemato il mobiletto libreria e davanti alla finestra che dava sulla strada sistemammo il tavolinetto-scrivania.  Alle finestre c’erano le solite tende, che ogni tanto venivano rinnovate.

 Più tardi, quando ormai i ragazzi erano cresciuti, cercammo altre soluzioni. Anzitutto dividemmo la stanza utilizzando tre scaffalature svedesi affiancate che andavano dalla parete che divideva la stanza dalla sala verso la finestra, lasciando il passaggio per andare dall’altra parte della camera. Questa diventò la cameretta di Fabrizio. L’armadio rimase al suo posto. Però comperammo un canterale che fu sistemato nell’angolo, di fronte all’armadio, appoggiato alla stessa parete del letto, un letto nuovo e un comodino. La sua finestra dava verso le Micotti.

 La prima parte della camera, destinata alle figlie, fu, in un primo tempo, sistemata così: Il mobiletto-libreria fu collocato appoggiato al muro a sinistra di chi entrava, subito dopo la porta e prima della finestra. Un letto fu accostato col fianco alla parete a destra di chi entrava e, vicina al letto fu collocata una grossa poltrona-letto (comperata a Massa su consiglio della Lisetta che la usava per la Marzia) che la sera veniva aperta e diventava un lettino. Ma ogni mattina bisognava richiuderla, col letto già rifatto, e questo comportava dei problemi e del lavoro in più. Così dopo poco tempo cercammo una nuova soluzione: eliminata la poltrona (che portammo in sala) e il retino (che portammo in soffitta), comperammo un letto a castello a due piani che collocammo accostato di fianco alla parete che divideva la camera dalla sala. Era lungo dalla parete della porta fin quasi agli scaffali-libreria. Olga dormiva di sopra e Cinzia di sotto e questa soluzione fu abbastanza soddisfacente e durò fino a che abbiamo abitato quella casa.

La sala

Appena arrivammo in questa casa nella sala non avevamo assolutamente niente da metterci, così rimase vuota. Mi ricordai, allora, che prima di andare a fare il marinaio avevo preso dall’Anna di Jaccò un vecchio tavolino e l’avevo portato nella sede del M.S.I. Ora la sede era chiusa ma il tavolino doveva essere da qualche parte. Così ne chiesi al mio amico Raffaello Crudeli che mi disse che il tavolo lo aveva lui. Allora me lo feci restituire, lo portai dal “Tranquillo”, il falegname che lo ripulì tutto e ne lucidò il piano. Fu, quello, il primo mobile della sala. Qualche tempo dopo, però, acquistammo un bel tavolo grande e di bella figura, anche se leggero, con sei sedie pure leggerine ma ben lavorate, di legno lucido e col sedile imbottito. Il centro della sala ora appariva meno vuoto. A quel punto il vecchio tavolo fu collocato subito a destra della porta, appoggiato alla stessa parete della porta e quello diventò la mia scrivania. Occorreva, però, anche un luogo dove tenere i miei libri, anche se, all’epoca, ne avevo pochi. Allora feci costruire dal Corrieri, detto “Lanternin della morte”, altro falegnametto, uno scaffale con due scaffe e lo appesi a fianco del tavolo, al muro esterno a destra di chi entrava. Più tardi, però acquistammo un mobiletto che aveva la parte bassa, alta circa un metro e venti, scaffalata e chiusa da due ante, e nella parte alta un altro vano chiuso da due antine scorrevoli. Lo collocammo al posto della scaffetta appesa al muro. A quel punto usai quel mobile come libreria e la scaffetta fu portata in garage e appesa al muro vicino al camino. E usata anche questa per i libri meno usati che si andavano accumulando (molti erano i libri di scuola dei ragazzi. Poco tempo dopo il “Tranquillo”, uomo bizzarro ma bravo come falegname, ci costruì un mobile lungo e basso (alto circa un metro e lungo circa due) che aveva alle due estremità due vani con una scaffa ciascuno, chiusi, ciascuno, da due ante. Nel mezzo c’era un altro vano, pure con una scaffa, chiuso da due vetri scorrevoli trasparenti ma lavorati con dei disegni smerigliati. Questo mobile fu collocato appoggiato alla parete che divideva la sala dalla camera, a sinistra di chi entrava. Ora la sala faceva una certa figura. Aveva un bel pavimento e due finestre con tende scorrevoli: una era nel mezzo del muro di fronte all’ingresso e guardava verso le Micotti mentre l’altra era nel mezzo del muro esterno a destra di chi entrava e guardava verso la stazione. Inoltre mio padre ed io restaurammo il vecchio divano della casa di Marisa, che era mezzo sfondato, e lo riportammo a condizioni quasi ottimali essendosi il velluto che lo ricopriva ben conservato. Questo lo collocammo appoggiato al muro esterno a destra, dopo la finestra, vicino all’angolo. Intanto nel 1963 avevamo comperato un televisore, che collocammo proprio nell’angolo in fondo a sinistra di chi entrava e proprio davanti al divano, e molte furono le serate passate tutti insieme su quel divano a goderci gli spettacoli. D’inverno la sala era molto fredda e noi ci scaldavamo con la nostra stufetta a gas montata su un carrello, che possedevamo fin da quando eravamo in casa di Marisa ed io facevo lezioni in sala. Successivamente i libri aumentavano di numero e l’esigenza di spazio si faceva sempre più pressante. Così dopo qualche tempo comperammo dal Giannini di Pian di Coreglia, dal quale all’epoca ci servivamo, una scrivania di ferro e legno chiaro abbastanza ampia e con tre cassetti ma che aveva, soprattutto, una scaffalatura consistente in tre capienti scaffe, fissate direttamente al retro della scrivania e innalzantesi sopra la scrivania stessa di oltre un metro. Naturalmente il vecchio tavolo non serviva più e fu portato nella cucina di sotto che, nel frattempo, era diventata il nostro magazzino dei biscotti e servì lì da scrivania e da bancone, con sopra una bilancia a piatti e la vecchia macchina da scrivere. E non fu tutto. Forse proprio contemporaneamentealla scrivania acquistammo un grande divano imbottito di pelle rossa il cui sedile poteva essere estratto in avanti e diventare un comodo letto ma che, soprattutto, aveva lo schienale, pure imbottito di pelle rossa, che, sollevato, svelava un ampio spazio ove collocare giocattoli o qualunque altra cosa. E, ancora sopra, aveva diverse scaffe capienti e, nel mezzo, un elegante sportello che si apriva abbassandolo, a formare un comodo piano di appoggio, e svelava uno spazio utilizzabile come mobile bar. Il vecchio divano fu portato alla Casetta ove fu arredata la sala con gli stessi mobili della casa di Marisa che portammo alla Casetta quando la casa di Marisa fu affittata al Tortelli e alla Iside.

Il magazzino dei biscotti e il garage

Dalla fine del 1954 il babbo cominciò a lavorare con i dolciumi, specialmente i biscotti di Maggiora, una casa torinese. Io lo aiutavo quando potevo. Iniziò come sub rappresentante (il rappresentante era di Viareggio e si chiamava Icardi. Ci aveva messo in contatto con lui Teseo, il cognato di Lisetta. Quasi subito, però, ci rendemmo conto che avremmo fatto meglio ad acquistare e rivendere la merce facendo i grossisti. Così cominciammo a portare in giro la merce usando i mezzi pubblici e trascinandoci dietro valigioni e scatoloni. Ma non era possibile. Quasi subito io comperai una Vespa, gli feci montare al posto del sedile posteriore un ampio portapacchi su cui potevo caricare un grosso scatolone, ma non era sufficiente. Allora decidemmo di comperare una vecchia Balilla e cominciammo ad usare quella. All’epoca abitavamo ancora da Rodolfo e il garage era una pertinenza del nostro appartamento. Il magazzino, invece, lo avevamo in una stanza della Giustina, vedova del farmacista Telloli, che era vicina. Col nostro trasferimento nella casa del Grilli, però, sia il garage che il magazzino erano lontani da casa, per cui trattammo con i Grilli, facemmo abbattere la parete che divideva la cucina di sotto da un vano che dava sulla strada ed era chiuso da una saracinesca, ottenendo così uno stanzone lungo quanto era larga tutta la casa e largo quanto era lunga ogni nostra stanza che, come ho detto, era rettangolare. A quel punto facemmo fare sul pavimento un bordo rialzato che isolasse la maggior parte della parte verso la strada dal resto dello stanzone e utilizzammo la parte maggiore del locale come magazzino e la parte guardante la strada come garage. Ecco quindi che debbo descrivere anche questo locale che ebbe una grande importanza per la nostra vita.

 Come ho detto c’era un accesso dalla strada, chiuso da una larga e pesante saracinesca. Il muro di destra era senza aperture ma aveva, vicino all’angolo in fondo, un caminetto. Nel muro di fronte alla saracinesca c’era un’ampia finestra a vetri, senza persiane. Nell’angolo in fondo a sinistra c’era un acquaio con il rubinetto dell’acqua corrente. Nella parete a sinistra, invece, c’erano due porte. Una era subito a sinistra, vicina alla saracinesca ma noi l’abbiamo sempre tenuta chiusa (dall’altra parte, come ho detto descrivendo l’ingresso, la usavamo, con opportuni rivestimenti e adattamenti, come attaccapanni). Più avanti, vicino all’acquaio, c’era l’altra porta che dava nell’ingresso e che ci permetteva di accedere a questo stanzone dall’interno del nostro appartamento. Tutta la cucina e un’ampia striscia lungo il muro di destra (entrando dalla saracinesca) serviva da magazzino. Il resto da garage. Fra la porta e l’acquaio costruii con il legno di alcune cassette un’alta scaffalatura larga circa un metro e una scaffa sopra la porta e quello fu il luogo dove tenevamo i sacchi di caramelle.

Nell’angolo vicino alla saracinesca, a sinistra, sistemai una cassa appesa al muro, ad un’altezza che non desse noia al movimento delle auto, nella quale tenevo tutti i miei attrezzi (chiavi, martelli pinze, ecc.). Davanti al finestrone, subito a destra dell’acquaio, sistemai (ma l’ho già detto) il vecchio tavolo che prima era in sala, con una vecchia bilancia a piatti di ottone e la vecchia macchina da scrivere. Via via che il lavoro dei biscotti aumentava le pile degli scatoloni salivano fino al soffitto e gli spazi per muoversi diventavano sempre più angusti. Ma andava bene così. Io passavo molto temo lì, a preparare i carichi al babbo e a tenere in ordine il magazzino. Avevamo un quantità di tipi di dolciumi e i ragazzi potevano scegliere quel che volevano per la colazione e la merenda. E’ stato bello anche per loro. Nel garage ci stavano sia la mia auto (che però dovevo mettere a marcia indietro per accostarla bene al muro) che il furgone del babbo.

 Successivamente il commercio dei biscotti ebbe un notevole incremento per cui affittammo anche l’altro stanzone a sinistra della porta di ingresso perché il vecchio magazzino era insufficiente. Era uno stanzone delle stesse dimensioni ma pavimentato con mattonelle e illuminato da due finestre che guardavano verso le Micotti e da un finestrone che guardava verso la stazione. Qui trovava posto una parte della merce e anche l’auto del Sirio che in quel periodo cominciò a lavorare per noi.

 Successivamente ancora anche questo secondo magazzino risultò insufficiente per cui lo lasciammo e affittammo il grande locale seminterrato che stata sotto il piano della strada ed era grande quanto tutta la casa. La porta di ingresso, di legno verde, rivolta verso i Micotti, fu allargata per permettere l’ingresso dei furgoni e quello fu un grande magazzino largamente sufficiente. Oltre a buona parte dei biscotti qui potevano stare anche un furgone (all’epoca ne avevamo due) e la macchina del Sirio. Prendeva luce dalla porta e da una finestra aperta in fondo al muro a sinistra di chi entrava e che guardava verso la stazione. Questo stanzone lo lasciammo quando chiudemmo l’attività mentre mantenemmo il garage e la “cucina di sotto” fin che abbiamo abitato questa casa.

Il soffitto

Ho già accennato all’esistenza di un soffitto praticabile. Vi si accedeva attravers due brevi rampe di scale, la prima delle quali, di marmo, saliva dal piccolo corridoio fino ad una porta di legno chiaro che tenevamo sempre chiusa. Aperta la porta ci si trovava su un angusto pianerottolino illuminato da una finestrella che guardava verso la stazione. Da qui, lungo una seconda breve rampa con scalini di cemento, si saliva fino al soffitto. Sopra c’era il tetto, con travi di legno e tavole che sostenevano le tegole quadrate dette “embrici”. C’era anche un grosso trave, vicino al pavimento, che sosteneva una “capriata”, cioè un grosso pezzo di trave messo verticalmente che sosteneva i travi del tetto proprio al vertice del tetto medesimo. Solo nel mezzo si poteva stare in piedi, poi l’altezza andava degradando seguendo i due spioventi che si abbassavano verso i muri esterni. Per andare nella parte di soffitto sud, cioè sopra la nostra cucina e la camera, bisognava scavalcare questo trave, alto dal pavimento una quarantina di centimetri. La parte di soffitto che ci competeva terminava, circa due metri a destra di chi saliva, da una parete di mattoni con una apertura. Il Grilli aveva riservato per se questa parte e noi non la abbiamo mai utilizzata anche perché avevamo a sufficienza della nostra parte. Sopra alle scale c’era un abbaino a vetri che illuminava sufficientemente la parte prima della capriata. Oltre la capriata l’illuminazione sarebbe stata insufficiente per cui avevo provveduto a farci un impianto elettrico.

 La parte vicina alle scale, al di qua della capriata, la utilizzavamo per tenerci la legna da ardere ( e anche il carbone, credo, anche se non ho ricordi precisi. Ma per poco, perché dopo la cessazione della attività commerciale la grossa scorta annuale di carbone in sacchetti – 200 sacchetti - la tenevamo nel magazzino), le patate che comperavamo in quantità e anche le mele “casciane” che, pure, comperavamo in quantità.

 Quando sostituimmo la Worm Morning con la studa a kerosene ci portai anche due grossi fusti entro cui tenevamo la scorta di kerosene.

 Nella parte “oltre la capriata” proprio in fondo, appoggiata al muro oltre il quale c’era la proprietà dei Santarini, costruii con il legno di alcune cassette, una libreria larga circa un metro e alta fino al tetto, quindi meno di due metri, in cui stavano i libri vecchi e meno usati che non trovavano più posto nell’appartamento e nella scaffa della cantina.

Il terrazzo

Bisogna dire qualcosa anche del terrazzo, perché era lungo quasi quanto la casa ed era un luogo sul quale soggiornavamo spesso sia di giorno che di sera. Vicino alla ringhiera tenevamo moltissimi vasi con fiori; vicino al muro della casa, invisibili dalla strada, Marisa poteva asciugare al sole ( era esposto a sud-sud ovest) i panni di piccole dimensioni e i bambini potevano giocare. Sedendo su sedie appoggiate al muro la strada non si vedeva e non si era visti dalla strada, data la discreta larghezza del terrazzo e si aveva l’illusione di avere solo del verde anche sul davanti perché di là dalla strada, in posizione sopraelevata rispetto ad essa, c’era il magnifico prato della casa del Sisto Tonini (abitata dal Dottor Angelini), verdissimo e ricco di molte piante da frutto. Nelle tiepide sere estive Marisa ed io, dopo aver messo a letto i bambini, amavamo talvolta sederci sul terrazzo direttamente sul pavimento piastrellato a fumare l’ultima sigaretta (all’epoca, purtroppo, fumavamo tutti e due).

L’orto

Quando entrammo nella casa del Grilli essa, sui fianchi e sul retro era circondata da zone verdi. Di pertinenza della casa, però, c’era soltanto un piccolo spazio oltre la casa parallelo alla strada, pressochè al livello della strada stessa e verso le Micotti e un altro piccolo spazio più in basso sia sullo stesso lato (in pratica era la via in discesa per raggiungere la porta del seminterrato), sia sul retro. Oltre questi spazi, però, c’era molto verde: il prato e il giardino della villa della Virginia Micotti e, sul retro il grande prato con molti meli che scendeva fin quasi alla ferrovia, di proprietà dell’Osvaldino Micotti. Tutto questo verde era molto gradevole. Dopo qualche tempo che abitavamo lì mi venne in mente di fare un piccolo orto sul retro della casa. Era un piccolo spazio rettangolare largo un paio di metri e lungo sei o sette. Lo recintai, lo vangai e lo seminai con ortaggi e fiori. Da diversi anni avevamo la Worm Morning e ogni mattina scaricavamo la cenere su questo terreno. Così la terra risultò fertilissima e l’orto rese molto bene. Ci avevo seminato anche due o tre solchetti di fagiolini che crebbero rigogliosissimi e ne fecero in abbondanza. Ricordo che una volta passò di lì mio zio Azelio mentre io stavo facendo qualcosa nel mio orticello e manifestò una gran meraviglia per tutto quel che l’orticello aveva prodotto. Lo coltivai per qualche anno, finchè il prato dell’Osvaldino fu attraversato dalla strada per la stazione che passava proprio vicinissima all’orto ed era stata rialzata rispetto al livello dell’orto, per cui i camion che passavano abbondanti (portavano il pietrisco alle ferrovie) su questa strada sterrata facevano un polverone tale che avrebbe sommerso le mie coltivazioni. Fu, quindi, giocoforza abbandonare l’orto. Come anche il filo su cui Marisa stendeva le lenzuola ad asciugare. E il retro della nostra casa fu più brutto. Anche perché il prato coi meli era stato distrutto dalla fabbrica di mattonelle che vi era stata costruita.

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                                                                                                                           La porta d’ingresso     

 

 

 

 

 

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Sul fianco della casa si notano, al piano superiore, a sinistra la finestra della sala e a destra la finestra della camera dei ragazzi. Le due finestre del piano di sotto sono del secondo magazzino che abbiamo avuto per qualche tempo. Nella facciata la prima finestra è ancora della camera dei ragazzi, la porta finestra centrale è quella del salottino e la finestra in fondo è della camera matrimoniale (secondo l’ultima disposizione). Al piano terra si nota la porta d’ingresso centrale con le due saracinesche. Quella in fondo, verde, è quella del nostro primo magazzino.

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Nella foto di sinistra la finestra in alto a sinistra è quella della cucina  con la persiana aperta che copre quella del  bagno. Il finestrino centrale è quello del soffitto e la finestra in fondo è quella della sala. La prima finestra sottostante a sinistra  è quella del magazzino. Quella centrale è di un piccolo bagno del secondo magazzino e anche la finestra di fondo è di questo locale.

Nella foto di destra la porta in basso era l’accesso al grande  magazzino di sotto. Le due saracinesche che si notano in basso (anche nella foto precedente) nel retro della casa all’epoca erano due finestre.                                                    

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