Gli anni della ripresa
Abbiamo appena girato
la boa del mezzo secolo, il mondo è in piena effervescenza, in piena
effervescenza è anche l'Italia. De Gasperi tiene saldamente le redini
del governo, che ha l'appoggio di socialdemocratici e di repubblicani.
Sforza è sempre agli esteri, Scelba è sempre agli interni, Vanoni è
sempre alle finanze. Al bilancio, e ad interim al tesoro, c'è però Pella,
che non incontra i favori della sinistra democristiana. Dossettiani e
fanfaniani l'attaccano, finirà che scoppia una crisi. Al vertice,
tuttavia, De Gasperi guarda lontano. Pensa all' Europa: chissà se un
giorno la si potrà vedere come un'unica entità politica? Pensa
all'Italia: chissà se un giorno almeno tutti i socialisti potranno
venire ricuperati al governo, per evitare — come dice Saragat — <<la
bolscevizzazione delle masse>>? De Gasperi mostra energia e lungimiranza
anche se gli anni incominciano a pesare. II 3 aprile di questo 1951 sono
settanta. Viene festeggiato, il partito gli fa un regalone che lo
commuove: una villa sul lago di Castelgandolfo, con due ettari di
terreno.
<<Spero di non morire
tanto presto>>, aveva detto tra il serio e il faceto, quando
gliel'avevano fatta vedere. Di tempo per vivere De Gasperi non ne ha
moltissimo, ma meno ancora ne avrà per godersi la villa. I problemi del
governo urgono. Non si sa mai che cosa può capitare. Proprio adesso
scoppia l'<<operazione Sturzo>>, una complicata <<combine>> che viene
messa in piedi in vista delle elezioni amministrative del 1952. Sturzo
e, naturalmente, don Luigi Sturzo, un vecchio combattente
dell'antifascismo ma soprattutto — per i cattolici di una certa età — e
l'uomo che, nel 1919, ha lanciato l'appello <<ai forti e liberi>> e ha
fondato il Partito popolare italiano. II Partito po- polare era stato
l'antesignano della Democrazia cristiana: istituzionalmente non
confessionale ma che faceva appello alle masse cattoliche. Il suo
successo era stato allora prorompente, ma non era bastato a fronteggiare
la spregiudicatezza e la risolutezza del movimento di Mussolini. Don
Sturzo si era trovato, alla fine, a malpartito anche con il Vaticano che
- allora come oggi — paventava l'avvento dei <<senza Dio>> agli ordini
di Mosca. Sturzo era stato cosi costretto all'esilio, ci era rimasto più
di vent'anni, cioè più di quanto era durato il fascismo, perchè la
Chiesa l'aveva pregato di soprassedere a un rientro intempestivo che
avrebbe messo in imbarazzo il nuovo partito. Curiosamente, dopo questo
po' po' di trattamento — ma l'obbedienza non è forse la virtù di chi
veste l'abito talare? – don Sturzo si trovava ora a interpretare la
volontà papale, mischiando il suo nome in un pateracchio dal quale, in
altri tempi, sarebbe rifuggito a ogni costo.
L'<<operazione
Sturzo>> consisteva semplicemente nel coalizzare tutti i voti
anticomunisti attorno al vecchio prestigioso dirigente cattolico.
<<Perché Roma non subisca l'affronto d'avere un sindaco marxista», era
la giustificazione con cui si cercava di condurre in porto
l'«apparentamento» fra democristiani, monarchici e missini. II grande
promotore dell'intesa era Luigi Gedda, presidente dell'Azione cattolica.
De Gasperi non aveva tardato ad avvertire il pericolo, ed era corso ai
ripari con un semplice machiavellismo che rivelava il politico
consumato. Aveva coinvolto nella questione anche i partiti «minori»
dell'area di governo. Il «no» risoluto di socialdemocratici e di
repubblicani aveva mandato a monte il progetto. Gedda si ritirava in
buon ordine, anche Sturzo aveva capito il passo che stava per avallare e
si era tirato indietro. Ancora una volta De Gasperi aveva vinto. Poco
dopo aveva fatto chiedere udienza a Pio XII a titolo personale:
ricorrevano i trent'anni del suo matrimonio e avrebbe voluto ricevere la
benedizione papale. Non ricevette mai una risposta. La risoluzione di
presentare in parlamento una legge elettorale maggioritaria era
probabilmente scaturita da questo episodio: dal desiderio di non
permettere che, in futuro, si affacciasse nuovamente l'ipotesi di una
compagine di governo — non importa se locale o nazionale — condizionata
dai voti delle destre. La sostanza della proposta era semplice. Si
trattava di stabilire che i seggi parlamentari non fossero, per la
maggioranza, proporzionali al numero dei voti raccolti ma prevedessero
un «premio», cioè un'aggiunta che consentisse di dare ulteriore
stabiIità al governo.
Il principio non era
nuovo, anche un paese d'antiche tradizioni democratiche come la Gran
Bretagna lo applica. Ma il momento era mal scelto. E male scelta era la
forma con cui la legge veniva presentata alle camere e alla popolazione
votante. Si apriva, tra la fine del 1952 e l'inizio del 1953, quella che
rimarrà alla storia come la più grossa «bagarre» che sia mai occorsa al
nostro parlamento. Il 14 ottobre 1952 il consiglio dei ministri aveva
approvato i principi informativi del disegno di legge: alla coalizione
dei partiti collegati che avesse conseguito il 50 per cento più un voto
sarebbero andati 390 seggi, alla minoranza 200. L' opposizione insorgeva
in blocco. La legge era subito definita «legge truffa». Era uno slogan
bell'e pronto che sarebbe echeggiato in breve anche nelle piazze. Il «no
alla legge truffa» dava luogo a una battaglia parlamentare senza
esclusione di colpi. Tumulti, invettive, incidenti di ogni genere erano
all'ordine del giorno d'ogni seduta. Il 7 dicembre il socialista
Lizzadri era invitato a uscire dall'aula dal vicepresidente Leone per un
apprezzamento fatto nei confronti d'una sua decisione. II deputato
rifiutava. Ne derivavano momenti di grande tensione. Sarebbero
intervenuti — la prima volta nella storia parlamentare! — i carabinieri?
Per fortuna non si giungeva a tanto. La questione era ricomposta e
veniva presto dimenticata nell'accesa sequenza degli avvenimenti
successivi. Le sinistre mettevano in atto un vero e proprio
ostruzionismo. Un discorso dell'on. Capalozza si protraeva per 7 ore e
40 minuti. Un intervento del senatore Cerruti batteva ogni primato con 8
ore e 40 minuti. Poi intervennero le mondariso. L'opposizione non trovò
di meglio che votare l'urgenza su un provvedimento a favore di questa
categoria di lavoratrici. Per 77 ore e 50 minuti le dichiarazioni di
voto si succedettero alle dichiarazioni di voto.
Ma il governo non
mollava. De Gasperi era ben deciso a condurre fino in fondo la sua
battaglia. Così, la domenica delle palme, 27 marzo 1953, il colpo di
mano governativo riusciva. In una confusione indescrivibile, che non
lasciava modo, a molti, di capire che cosa stesse succedendo, la legge
maggioritaria era messa ai voti e approvata. Nella mischia, che di
mischia si deve parlare, il presidente dell'assemblea, Meuccio Ruini,
era colpito alla nuca da un pezzo di legno scagliatogli da un deputato
d'opposizione. Il senatore Mauro Scoccimarro levò la sua protesta fin
sotto lo scanno presidenziale... col risultato che, nel verbale, ebbe la
sorpresa di trovare il suo voto fra quelli favorevoli. Nenni e Togliatti
prima, Pertini poi si recarono dal capo dello stato invitandolo, com'era
nelle sue prerogative costituzionali, a rinviare la legge al parlamento.
Era una procedura che Einaudi aveva già applicato almeno tre volte, in
circostanze, a dir poco, futili (l'11 gennaio dell' anno prima aveva
respinto una legge sulla «nomina ad aggiunto giudiziario degli
incaricati di funzioni giudiziarie»). In questa circostanza il
presidente della repubblica non ritenne di ostacolare la promulgazione
del decreto. Ormai la parola era alle urne. Il 7 giugno 1953 l'Italia
votò. I partiti collegati — democristiani, socialdemocratici, liberali,
repubblicani — raccolsero 13 milioni 491 mila 808 voti; i partiti non
collegati — comunisti, socialisti, monarchici, missini — ne ebbero 13
milioni 600 mila 935. Era il 49,8 per cento contro il 50,2 per cento.
Per pochissimo la legge maggioritaria non era scattata. Restavano molte
schede contestate. Forse l’esiguo margine avrebbe potuto dare speranze
ai promotori della legge. Si dice che lo stesso Scelba, che era stato il
grande <<patron>> dell'iniziativa, rinunciasse a ogni contestazione per
non intorbidare la già densa atmosfera politica. De Gasperi,
amareggiato, formava un monocolore che non riusciva ad avere la fiducia
delle camere. Seguivano due brevi governi Pella e Fanfani, a cavallo fra
il 1953 e il 1954.
La fluida situazione
politica permetteva un relativo rilancio dei sindacati che, ancora
divisi dopo la scissione seguita all'attentato a Togliatti nel 1948,
affrontavano senza coordinamento un'importante vertenza: quella per il
conglobamento nella busta paga delle varie «voci» che, via via, erano
andate a costituire il salario. La richiesta rendeva implicito un
miglioramento salariale, che però la Confindustria — guidata dal
coriaceo Angelo Costa — negava preventivamente. La Cgil abbandonava i
lavori, la Cisl e la Uil proseguivano le trattative, riuscendo a
spuntare un 5 per cento d'aumento, che veniva a costituire un ulteriore
motivo d'attrito fra le tre organizzazioni. Non a caso, l'anno
successivo, l'elezione delle commissioni interne alla Fiat, di solito
facile appannaggio della Cgil, vedeva prevalere abbastanza nettamente la
Cisl. Ma il mondo del lavoro — ovviamente non solo quello — doveva
essere scosso da una tremenda sciagura. A Ribolla, in Toscana,
un'esplosione si verificava in una miniera di carbone. I soccorritori
estrarranno faticosamente quarantatrè corpi senza vita. La cronaca di
questi anni frammischia notizie tristi a notizie liete. Scorriamole in
una carrellata: anche questa è storia. Nel 1951, Reza Pahlevi, scià di
Persia, sposa Soraya Esfandiari, 18 anni, figlia di un capotribù. Negli
Stati Uniti, Frank Sinatra, il famoso cantante, impalma alla chetichella
Ava Gardner, la famosa attrice. Gli avvenimenti politici più notevoli
sono il ritorno alla guida del governo inglese di Winston Churchill, che
era stato <<trombato>> alle prime elezioni del dopoguerra, nel 1945.
Passerà poi la mano a Anthony Eden (fresco di matrimonio: aveva sposato
nel '52 Clarissa, nipote di «Winnie»). Fiori d'arancio per l'ex campione
ciclista Alfredo Binda, che nel 1952 a cinquant' anni va a nozze con
Lina Ambrosetti, di ventitré. L'anno dopo è la volta di sir Alexander
Fleming, lo scopritore della penicillina. Vedovo da quattro anni,
impalma Amalia Coutsouris, un'ardente signora greca che, dopo aver dato
del filo da torcere ai tedeschi, ne darà più tardi anche ai colonnelli.
Anche Tito, il
«maresciallo di ferro», va a nozze con una formosa ragazza, che aveva
conosciuto durante la lotta partigiana: Jovanka, che un quarto di secolo
più tardi finirà per turbare i suoi ultimi anni. Fausto Coppi vince nel
1953 il campionato mondiale di ciclismo, un po' più in là si comincia a
parlare del suo romanzo sentimentale con una misteriosa «dama bianca»
(un male misterioso stroncherà il «campionissimo» più in là, il 2
gennaio 1960). In campo automobilistico gli italiani si fanno onore.
Nino Farina è campione di formula uno nel 1950 con l'Alfa Romeo ma già
l'anno dopo balza alla ribalta Juan Manuel Fangio, che conquista il
titolo sempre su un mezzo del Portello. Poi — 1952 e 1953 — si ha la
doppietta di Alberto Ascari e della Ferrari: ultima affermazione d'un
italiano (dopo di che inizierà la serie d'affermazioni di Fangio, su
Maserati, su Mercedes, su Ferrari). Si parla anche di Nuvolari, nel
1953, purtroppo per annunciare l'immatura scomparsa del grande campione.
«Il più grande di ieri, di oggi, di domani», l'aveva definito uno che di
piloti se ne intendeva, l'ingegnere tedesco Porsche. In vent'anni, Tazio
Nuvolari aveva gareggiato 158 volte e aveva colto 64 vittorie. In
altrettante occasioni era arrivato secondo. I giornali del 12 aprile
1953 riportano una notizia di cronaca nera che, in apparenza, sembra
come tante altre. Il giorno precedente, sulla spiaggia di Torvajanica, è
stato trovato il cadavere di una ragazza, che viene identificata come
Wilma Montesi. Dall'episodio esplode un «caso» che andrà ben oltre la
ricerca dei motivi della morte: disgrazia, suicidio, omicidio? Per tutto
il 1954 e il 1955 il «caso Montesi» tiene banco sulla stampa. Per un
seguito di circostanze — per le accuse perentorie e cervellotiche di
un'altra ragazza — il figlio di un ministro compare sul banco degli
imputati. La sentenza che lo scagiona verrà molto tardi. Si può dire che
il «caso Montesi» abbia inquinato, con i suoi torbidi retroscena e il
suo morboso interesse, la vita italiana di questi anni.