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POPOLAZIONE CHE CAMBIA

Il 2005 è il punto di svolta di un decennio segnato da tre cambiamenti senza precedenti nella storia dell'umanità. Prima del 2000 i giovani erano più numerosi dei vecchi, da allora in poi i vecchi saranno più numerosi dei giovani. Fino al 2007 la popolazione rurale sarà più numerosa di quella urbana, ma da allora in poi la popolazione urbana supererà quella rurale. Infine, a partire dal 2003 il numero medio di figli per coppia su scala mondiale è, e rimarrà, pari o inferiore a quello minimo in grado di assicurare il ricambio della popolazione.

D'altro canto sono già avvenuti altri tre cambiamenti non meno importanti. Anzitutto, nessuno di coloro che sono morti prima del 1930 ha mai assistito a un raddoppio della popolazione umana, né vi assisterà chi nasce dopo il 2050. Chi oggi ha almeno 45 anni, invece, ha visto più che raddoppiare il numero degli esseri umani, passati da tre miliardi nel 1960 a sei miliardi e mezzo nel 2005. Il picco massimo del tasso di crescita della popolazione, circa il 2,1 per cento annuo, si è registrato fra il 1965 e il 1970. Prima del XX secolo non vi era mai stata una crescita così veloce, e con ogni probabilità non accadrà mai più. I nostri discendenti guarderanno a quel picco come all'evento demografico più significativo nella storia della popolazione umana.

La seconda novità è il crollo spettacolare del tasso di crescita iniziato nel 1970 (oggi è pari all'1,1 - 1,2 per cento all'anno) dovuto soprattutto alla scelta (e all'obbligo) di miliardi di coppie in tutto il mondo di limitare il numero delle nascite. E probabile che in passato il tasso di crescita demografica sia aumentato e diminuito diverse volte. Per esempio, nel XIV secolo le grandi epidemie e le guerre hanno ridotto non solo il tasso di crescita, ma anche il numero assoluto della popolazione umana. In tutti e due i casi, si è trattato di eventi casuali: prima del XX secolo non si erano mai verificate riduzioni volontarie del tasso di crescita. Infine, nell'ultimo mezzo secolo si è assistito a un'enorme alterazione dell'equilibrio demografico fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, che proseguirà ancora per almeno mezzo secolo. Se nel 1950 i paesi in via di sviluppo avevano circa il doppio della popolazione dei primi, nel 2050 il rapporto sarà di oltre sei a uno.

Queste colossali trasformazioni nella dinamica e nella composizione della popolazione umana sono in gran parte sottovalutate. Di tanto in tanto, uno dei sintomi di questi mutamenti profondi è oggetto di dibattito politico. Ma le proposte di riforma al sistema di previdenza sociale, per esempio, spesso non tengono conto del generale invecchiamento della popolazione, mentre le discussioni che si fanno in Occidente sulle politiche dell'immigrazione spesso trascurano le differenze tra i tassi di crescita di quei paesi e quelli dei loro vicini meridionali.

In questo articolo saranno esaminate le principali tendenze che si prevede governeranno le trasformazioni demografiche nei prossimi cinquant'anni, e alcune delle loro conseguenze a lungo termine. Rispetto al XX secolo, la popolazione sarà più numerosa, crescerà più lentamente, sarà più anziana e sarà sempre più concentrata nelle aree urbane. Ovviamente, le cifre precise sono molto incerte. Per esempio, anche un minimo cambiamento nelle stime sui tassi di fertilità può avere effetti enormi sul numero totale degli esseri umani. Ma al di là delle cautele le proiezioni per il futuro suggeriscono alcuni dei problemi che l'umanità dovrà affrontare nei prossimi cinquant'anni.

Crescita rapida, ma in declino

Anche se dagli anni settanta in poi il tasso di crescita demografica è in calo, gli attuali livelli di crescita della popolazione globale sono comunque più alti rispetto a tutti quelli conosciuti prima della seconda guerra mondiale. Per arrivare al primo miliardo di individui l'umanità ha dovuto aspettare l'inizio del XIX secolo, ma oggi per aggiungere un miliardo di persone bastano 13 - 14 anni. Le proiezioni indicano che entro il 2050 la Terra sarà abitata da 9,1 miliardi di individui, con un'oscillazione di due miliardi in più o in meno, legata ai futuri tassi di natalità e mortalità. Questi 2,6 miliardi di esseri umani che entro cinquant'anni si aggiungeranno a quelli attuali, ovvero 6,5 miliardi, superano il totale della popolazione globale nel 1950, che era di 2,5 miliardi.

Insomma, il boom demografico non è finito. Oggi il numero di abitanti del pianeta aumenta ogni anno di 74 - 76 milioni: è come se ogni quattro anni al pianeta venisse aggiunta l'intera popolazione degli Stati Uniti. Ma gran parte della crescita avviene in paesi che non godono della stessa ricchezza degli Stati Uniti. Fra il 2005 e il 2050 Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Ciad, Congo, Repubblica Democratica del Congo, Timor Est, Guinea  Bissau, Liberia, Mali, Niger e Uganda, paesi tra i più poveri della Terra, triplicheranno la loro popolazione.

Nei prossimi 45 anni l'incremento demografico dovrebbe avvenire quasi unicamente nelle regioni oggi meno sviluppate dal punto di vista economico. Malgrado gli alti tassi di mortalità per ogni fascia di età, le popolazioni dei paesi poveri aumentano più velocemente di quelle dei paesi ricchi, perché i loro tassi di natalità sono molto più elevati: il numero medio di figli per donna è circa il doppio (2,9) di quello dei paesi sviluppati (1,6).

Metà della crescita totale graverà su nove nazioni: vale a dire, in ordine a seconda del contributo previsto, India, Pakistan, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh, Uganda, Stati Uniti, Etiopia e Cina. L'unico paese ricco della lista sono gli Stati Uniti, dove circa un terzo dell'aumento della popolazione è da attribuire all'alto tasso d'immigrazione.

All'opposto, da qui al 2050 subiranno un calo di popolazione 51 paesi, quasi tutti economicamente sviluppati. Secondo le proiezioni, la Germania passerà dagli attuali 83 milioni di abitanti a 79 milioni, l'Italia da 58 a 51 e il Giappone da 128 a 112. La situazione più drammatica riguarderà la Federazione Russa, che passerà da 143 a 112 milioni, trovandosi alla fine ad avere una popolazione leggermente inferiore al Giappone.

Il rallentamento della crescita demografica implica che il XX secolo sarà probabilmente l'ultimo della storia dell'uorno in cui il numero totale dei più giovani ha superato quello dei più anziani. La percentuale di popolazione globale con età compresa fra o e 4 anni ha raggiunto l'apice nel 1955, con il 14,5 per cento, per diminuire progressivamente fino al 9,5 del 2005, mentre la percentuale degli ultrasessantenni è passata dall'8,1 per cento del 1960 al 10,4 del 2005. E se nel 2000 i due gruppi erano alla pari, da oggi in poi gli anziani sono destinati a essere la maggioranza.

Questo cambiamento nelle proporzioni tra popolazione giovane e anziana è il riflesso sia di un miglioramento delle condizioni di vita sia di una riduzione della fertilità Dai primi del Novecento agli inizi del XXI secolo, la durata media della vita è passata da 30 anni a oltre 65. Ma la causa principale è la riduzione della fertilità, che ha fatto crescere sempre di meno le fasce di età inferiori.

L'invecchiamento della popolazione non sta avvenendo in modo uniforme su tutto il pianeta. Intorno al 2050, una persona su tre nelle nazioni sviluppate, e una su cinque in quelle meno avanzate, avrà più di 60 anni. Ma nei paesi a sviluppo minimo (Afglianistan, Angola, Burundi, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Guinea Equatoriale Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger e Uganda) metà della popolazione avrà al massimo 23 anni. Se la tendenza recente proseguirà come previsto fino al 2050, l'intera crescita della popolazione mondiale si concentrerà nelle aree urbane. E i paesi poveri dovranno costruire l'equivalente di una città di oltre un milione di abitanti alla settimana per i prossimi 45 anni.

Elaborare proiezioni demografiche valide fino al 2050 e oltre.

E' una pratica di routine, ma i modelli economici per le proiezioni a lungo termine non sono altrettanto sviluppati. Sono vulnerabili sia alle imprevedibili trasformazioni delle istituzioni e delle tecnologie sia ai cambiamenti nel controllo dei governi e dei settori economici. Gran parte dei modelli, comunque, dicono che il mondo diventerà più ricco. Per gli scenari più ottimisti il rapporto stimato fra il reddito pro capite dei paesi industrializzati e quello dei paesi in via di sviluppo, che era di 16 a 1 nel 1990, potrebbe scendere a un valore compreso tra 6,6 e 2,8 a 1 entro il 2050. Questi progressi, però, non sono certi: altri modelli prevedono una povertà stagnante.

L'aumento di vari miliardi di abitanti nei paesi in via di sviluppo e degli anziani ovunque, unito alle speranze di crescita economica delle nazioni più povere, desta preoccupazione in molti su come trovare risorse per le popolazioni presenti e future.

Oltre la capacità della Terra

A breve termine, il pianeta è in grado di fornire spazio e cibo, almeno ai livelli di sussistenza, al 50 per cento di esseri umani in più rispetto a quelli attuali, poiché i cereali prodotti oggi sono sufficienti a fornire una dieta vegetariana a dieci miliardi di persone. Ma, come ha osservato nel 1991 il sociologo e demografo Kingsley Davis, "non c'è paese al mondo dove le persone si accontentino di avere a malapena quel che basta per mangiare". Il problema è se nel 2050 miliardi di persone saranno in grado di vivere in condizioni di libertà di scelta e prosperità materiale (qualunque cosa si intenderà nel 2050 per libertà e benessere) e così i loro figli, e i figli dei loro figli. Questo è il problema della sostenibilità.

E' una preoccupazione vecchia come il mondo. Le tavolette cuneiformi del 1600 a.C. mostrano che i babilonesi temevano che il mondo fosse già troppo pieno di gente. Nel 1798 Thomas Malthus rinnovò le paure, e lo stesso fece Donella Meadows nel 1972, come prima autrice di "I limiti dello sviluppo". E mentre qualcuno si è fatto prendere dal panico, i più ottimisti hanno assicurato che al benessere dell'umanità avrebbero pensato i santi o la tecnologia.

I primi tentativi di calcolare a quanti esseri umani la Terra può dare sostentamento (la cosiddetta human carrying capacity) si sono basati sull'assunto che le condizioni necessarie per una società umana sostenibile siano misurabili in unità di superficie. La prima stima nota risale al 1679, quando Antoni van Leeuwenhoek valutò che la superficie abitata della Terra fosse 13.385 volte più grande dell'Olanda, e che in Olanda vivesse circa un milione di persone. Assumendo che "l'area abitata della Terra abbia la stessa densità di popolazione dell'Olanda, essendo essa 13.385 volte più grande dell'Olanda, ne risultano... 13.385.000.000 di esseri umani sulla Terra", vale a dire un limite massimo di circa 13,4 miliardi.

Proseguendo nella stessa tradizione, nel 2002 Mathis Wackernagel (uno degli inventori dei concetto di "impronta ecologica" e i suoi colleghi hanno cercato di quantificare la superficie sfruttata dagli esseri umani per procurarsi risorse naturali e assorbire i rifiuti. Le loro prime valutazioni hanno stabilito che nel 1961 l'umanità utilizzava il 70 per cento della capacità globale della biosfera e nel 1999 il 120 per cento. In altre parole, alla fine degli anni novanta l'umanità sfruttava l'ambiente con una velocità maggiore rispetto a quella con cui esso si rigenera: una situazione, dicevano i ricercatori, chiaramente insostenibile.

Questo approccio presenta vari problemi. Il più grave è forse il tentativo di stabilire una condizione necessaria per la sostenibilità della società umana in termini di una sola dimensione, la superficie di terreno biologicamente produttivo. Per esempio, per tradurre lo sfruttamento dell'energia in unità di superficie, Wackemagel e colleghi hanno calcolato l'area di foresta necessaria all'assorbimento dell'anidride carbonica derivata dalla produzione di energia. Ma questo metodo non è applicabile alle tecnologie che non emettono C02 come i pannelli solari, l'energia idrica o gli impianti nucleari. Convertire l'intera produzione energetica nel nucleare sposterebbe il dilemma dell'eccesso di C02 all'eccesso di scorie radioattive. Il problema della sostenibilità rimane, ma la superficie di terreno biologicamente produttivo non è più un indicatore utile.

Altri indicatori proposti per calcolare il numero massimo di abitanti che la Terra può sostentare sono l'acqua, l'energia, il cibo e vari elementi chimici necessari per la produzione alimentare. E il problema degli indicatori singoli, tuttavia, è che il significato di ognuno di essi dipende da altri fattori. Se l'acqua scarseggia e l'energia abbonda, per esempio, è più facile desalinizzare e trasportare l'acqua, mentre se l'energia è costosa desalinizzazione e trasporto non convengono.

I tentativi di quantificare la human carrying capacity della Terra, oppure le dimensioni di una popolazione umana sostenibile, devono fare i conti con la comprensione dei limiti imposti dalla natura, le scelte operate dagli individui e le ínterazioni fra questi due fattori. Alcuni dei vincoli naturali saranno trattati più avanti. Il punto che intendo evidenzíare è il problema della scelta umana, di cui deve tenere conto ogni valutazione della sostenibilità

Che cosa desidereranno gli uomini nel 2050, quale sarà il livello medio di benessere considerato accettabile? Di quali tecnologie disporranno? A quali istituzioni politiche nazionali e internazionali si affiderà la risoluzione dei conflitti? Quali accordi economici forniranno il credito, regoleranno il commercio, stabiliranno le regole e garantiranno gli investimenti? Quali misure sociali e demografiche influenzeranno natalità, mortalità, salute pubblica, educazione, matrimonio e immigrazione? In quale ambiente fisico, chimico e biologico gli uomini saranno disposti a vivere? Con quale livello di incertezza accetteranno di convivere? Quali livelli di rischio saranno disposti a tollerare? (Uragani, alluvioni e frane saranno rischi accettabili o no? La risposta a questa domanda condizionerà la definizione di area territoriale abitabile.) Ma soprattutto quali saranno i valori e i gusti delle persone? Come ha osservato nel 1977 l'antropologo Donald L. Hardesty, "un appezzamento di terreno può avere una bassa capacità di carico umano non solo per lo scarso livello di fertilità, ma anche perché è considerato sacro o infestato dagli spiriti".

Quasi tutte le ricerche sulla capacità demografica del pianeta rispondono a queste domande in modo acritico. Nel libro "Quante persone possono vivere sulla Terra?" sono raccolte e analizzate oltre una sessantina di queste valutazioni, pubblicate dal 1679 in avanti. Quelle risalenti agli ultimi cinquant'anni considerano tollerabile una quantità di persone che oscilla tra meno di un miliardo e più di 1000 miliardi. Sono stime politiche, volte a persuadere il pubblico del fatto che siamo già troppi sulla Terra o che, al contrario, l'aumento rapido e continuo della popolazione non è un problema.

Ma le stime scientifiche devono descrivere la realtà. Poiché nessuna di esse ha mai affrontato in modo esplicito le questioni che sono state sollevate, tenendo conto delle diverse risposte provenienti da società e culture differenti, si può affermare che non c'è nessuna stima scientifica attendibile riguardante le dimensioni accettabili della popolazione umana. Troppo spesso ci si concentra sulla sostenibilità a lungo termine trascurando il problema immediato del domani, del suo miglioramento rispetto all'oggi, un compito che offre in realtà un ampio spazio alla scienza e all'azione costruttiva. Consideriamo brevemente, quindi, due tendenze demografiche prevalenti l'urbanizzazione e l'invecchiamento e alcune delle scelte a cui ci chiamano.

Crescita o esplosione?

Molte delle più importanti città sono state costruite in regioni di eccezionale produttività agricola, tipicamente gli alvei di piena dei fiumi oppure le zone costiere e le isole con facile accesso alle risorse di pesca e al commercio marittimo. Se nella prossima metà del secolo la popolazione urbana raddoppierà, passando da tre a sei miliardi, mentre quella rurale si manterrà sugli attuali tre miliardi, e se molte città cresceranno in superficie anziché in densità di abitanti, i terreni agricoli fertili che circondano i centri urbani non saranno più coltivabili e le acque che circondano le città che si affacciano sul mare potrebbero trovarsi ad affrontare il problema sempre più grave dei rifiuti urbani.

Attualmente le aree urbane occupano il 2 - 3 per cento della superficie terrestre libera dai ghiacci. Se nel 2050 l'estensione delle città e il numero dei loro abitanti saranno raddoppiati, le aree urbane giungeranno a occupare il 6 per cento del territorio. La sottrazione di questa superficie al 10 - 15 per cento del terreno considerato coltivabile rischierebbe di avere un impatto considerevole sulla produzione agricola. Pianificare le città in modo da evitare lo sfruttamento del terreno coltivabile ridurrebbe notevolmente gli effetti dell'aumento della popolazione urbana sulla produzione alimentare, un obiettivo di grande interesse anche per i cittadini che avranno bisogno di essere approvvigionati.
A meno che la produzione di cibo proveniente da orticolture urbane non subisca un'impennata, entro 25 anni ogni agricoltore dovrà passare dalla situazione odierna, dove in media sfama se stesso e un abitante di città, a una in cui dovrà sfamare se stesso e due abitanti di città. (Va peraltro osservato che la maggior parte dei lavoratori agricoli del mondo sono donne.) Ma se aumentasse l'intensità della produzione agricola rurale, la domanda alimentare insieme con la tecnologia fornita alle zone rurali dalle città in espansione potrebbe sollevare la popolazione delle campagne dalla povertà, come è già accaduto in molti paesi ricchi. Il rovescio della medaglia è che se per incrementare i raccolti si utilizzeranno fertilizzanti chimici e biocidi, l'aumento di produzione alimentare rischia di causare profondi problemi all'ambiente.

Inoltre, se non si prenderanno misure sanitarie corrette riguardo al rifornimento di acqua potabile e all'eliminazione dei rifiuti, la crescente urbanizzazione potrebbe esporre i cittadini a rischi spaventosi di contrarre malattie infettive. Nelle metropoli, tuttavia, si concentrano anche le migliori opportunità di crescita educativa e culturale, un accesso più facile alle cure sanitarie e la possibilità di impieghi diversi. Di conseguenza, se nei prossimi 45 anni dovremo costruire la metà delle infrastrutture urbane che esisteranno nel 2050, le opportunità che si aprono nel progettare, costruire, amministrare e mantenere nuove città, migliori di quelle già esistenti, sono vastissime, eccitanti e stimolanti.

L’urbanizzazione è destinata a fare i conti con le trasformazioni sociali provocate dall'invecchiamento della popolazione. Se la città premia economicamente i lavoratori più giovani e meglio istruiti, la mobilità che promuove finisce spesso per indebolire le tradizionali reti familiari, in cui trovano sostegno le persone più anziane. Vivendo in una zona rurale, una donna in età avanzata e con una scarsa istruzione godrebbe del sostegno familiare e di un lavoro agricolo produttivo; in città, invece, avrebbe difficoltà a trovare sia i mezzi di sostentamento sia un supporto sociale.

Dopo il 2010, in quasi tutto il mondo si verificherà una brusca accelerazione nella crescita dell'indice di dipendenza senile, ossia il rapporto fra la popolazione oltre i 65 anni e quella compresa fra i 15 e i 64 anni. Il mutamento sarà avvertito soprattutto nelle aree più sviluppate, mentre i paesi poveri sperimenteranno un lento rialzo dopo il 2020. Nel 2050 l'indice di dipendenza senile dei paesi meno avanzati sarà prossimo a quello che avevano le nazioni industrializzate nel 1950. Tuttavia estrapolare direttamente i problemi sociali ed economici da quelli legati all'età è un'operazione credibile. Il peso economico delle persone anziane dipende dal loro stato di salute, dalle istituzioni economiche disposte a offrire loro un'occupazione e dalle istituzioni sociali disposte ad assisterle.

Il trend nella salute degli anziani sono in complesso positivi, nonostante i gravi problemi che affliggono alcune economie in transizione e le regioni afflitte dall'AIDS. Per esempio tra il 1982 e il 1999, la percentuale di malattie croniche fra gli anziani è diminuita rapidamente. Nel 1999, gli statunitensi in età avanzata afflitti da malattie croniche sono stati inferiori del 25 per cento rispetto a quanto ci si poteva aspettare se il numero dei malati fosse rimasto quello del 1982. Poiché in caso di difficoltà una persona anziana conta soprattutto sul consorte (se ha un consorte), anche lo stato civile ha un'influenza determinante sulle condizioni di vita dei meno giovani. Chi è sposato ha più probabilità di essere assistito in casa, invece che in istituzioni pubbliche o private, rispetto a chi non lo è, ai vedovi e ai divorziati. La sostenibilità di una popolazione anziana non dipende solo dall'età, dal sesso e dallo stato civile, ma anche dalla presenza o meno di figli disponibili a fornire il loro aiuto, e dallo status socio economico: condizione, questa, sensibilmente legata al livello di istruzione.
Infatti, una migliore educazione in gioventù è spesso associata con una migliore salute in età avanzata. Di conseguenza, una strategia ovvia per rendere sostenibile l'ondata di anziani in arrivo è investire già da oggi nell'educazione dei giovani, compresa l'educazione a comportamenti utili per il mantenimento di un buono stato di salute e della stabilità matrimoniale. Un'altra ovvia strategia è investire nelle istituzioni economiche e sociali che facilitano la produttività economica e l'impegno sociale tra le persone più anziane.

Nessuno sa la giusta via per la sostenibilità, perché nessuno conosce la destinazione (ammesso che ce ne sia una). Ma tutti sappiamo cosa si deve fare oggi per migliorare il domani, per renderlo più accettabile in base alle conoscenze di cui disponiamo. Come ha detto l'econoniista Robert Cassen: "Quasi tutto ciò che è necessario dal punto di vista della popolazione va fatto comunque"

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Ultimo aggiornamento: 25-11-05