| |
De Officis
Home
Libro II Traduzione
LIBRO II
I. PROEMIO AL FIGLIO MARCO
1. In qual modo i doveri derivino dall'onesto, o Marco figlio mio, e da ogni
genere di virtù, penso di averlo abbastanza spiegato nel libro precedente. Ne
consegue la trattazione di questi generi di doveri che riguardano il tenor di
vita e il possesso di quei mezzi di cui si servono gli uomini, la potenza e le
richezze; [a tal riguardo allora ho detto che ci si chiede che cosa è utile e
cosa inutile, e tra due cose utili quale sia la più utile o cosa sia
massimamente utile] . Inizierò a trattare di tali argomenti; dopo aver detto
poche cose sulle mie intenzioni e sul mio criterio. 2. Benché, infatti, i miei
libri abbiano stimolato parecchi non solo a leggerli ma anche a scrivere,
tuttavia temo talora che ad alcuni uomini dabbene il nome di filosofia sia
odioso e si meraviglino che io dedichi ad essa tanta applicazione e tanto tempo.
In verità io, per tutto il tempo in cui lo Stato era governato da coloro ai
quali da se stesso si era affidato, gli dedicavo ogni mia preoccupazione e
pensiero; ma quando tutto il potere fu accentrato nelle mani di un solo uomo e
non essendovi più posto per il consiglio e per l'autorità, avendo perso infine
quanti erano stati miei colleghi nel proteggere la repubblica, tutti ottimi
uomini, io non mi abbandonai al dolore, che mi avrebbe travolto, se non avessi
resistito, ma d'altra parte non mi diedi ai piaceri, che sono indegni di un uomo
dotto.
3. Ah, se fosse rimasta in piedi la repubblica nello stato in cui aveva
incominciato ad essere e non si fosse imbattuta in uomini desiderosi non tanto
di mutare la situazione quanto di sovvertìrla. In primo luogo mì sarei dedicato
più all'azione - come solevo fare quando vigeva ancora la repubblica - che non
allo scrivere, e poi avrei affidato agli scritti stessi non queste osservazioni,
ma le nostre azioni - come spesso ha fatto. Ma quando finì di esistere lo Stato,
nel quale solevo riporre ogni mia cura, pensiero e attività, tacque anche quella
mia forense e senatoria. 4. Ma poiché il mio spirito non poteva rímanere
inattivo ho ritenuto, poìché sono stato versato in questi studi sia dalla
fanciullezza, che avrei potuto alleviare nel modo più onorevole il mio affanno
se mi fossi rivolto alla filosofia. Da giovane le avevo dedicato molto tempo per
imparare, ma quando incominciai a dedicarmi alla carriera politica e mi diedi
tutto alla cura dello Stato, per la filosofia non c'era altro tempo se non
quanto avanzava dagli amici e dallo Stato; e questo lo trascorrevo tutto
leggendo, e non ne avevo un po' libero per scrivere.
II. ELOGIO DELLA FILOSOFIA
5. Dunque in queste sciagure così gravi, questo bene almeno mi sembra di aver
conseguito, di affidare agli scritti quelle teorie filosofiche che non erano
abbastanza note ai nostri concittadiní ed erano assai degne di conoscenza. Che
cosa c'è infatti - per gli dei - di più deciderabile della saggezza, che cosa di
più nobile e di più adatto all'uomo, che cosa di più degno di lui? Dunque coloro
che la ricercano sono chiamati filosofi, e la filosofìa altro non è, se tu vuoi
attenerti al significato etimologico, che amore della sapienza; ma la sapienza è
- secondo la definizione degli antichi filosofi - la scienza del divino e
dell'umano e dei nessi causali che li regolano; e se qualcuno biasima lo studio
di tale scienza, invero non riesco a comprendere quale sia cosa quella che egli
possa stimare degna di lode.
6. E se si ricerca il diletto dell'animo e la tranquillità degli affanni, quale
diletto e qua le tranquillìtà si possono paragonare con la co stante
applicazione di coloro che ricercano sempre qualche cosa che riguardi e valga
per vivere bene e felicemente? Se si ricerca la norma della coerenza e della
virtù, o è questa l'arte filosofica per mezzo della quale poterle perseguire o
non ve ne è affatto alcuna. Il sostenere che non esista alcuna scienza dei
massimi problemi, mentre dei minimi non ve ne è alcuno senza la sua specifica
regola, è considerazione degna di uomini che parlano senza riflettere e che
sbagliano proprio sui massimi problemi. Se esiste una disciplina della virtù,
dove la ricercheremmo, qualora ci allontanassimo da questo genere di studi? Ma
queste tesi di solito sono più accuratamente dibattute, quando esortiamo alla
filosofia; ciò che abbiamo fatto in un altro libro. Ma a questo punto volevo
soltanto dichiarare, perchè privato delle cariche dello Stato mi fossi rivolto
soprattutto a questo studio.
7. Mi si obietta invero, e la richiesta è da parte di uomini dotti e eruditi, se
mi sembra di agire con sufficiente coerenza, in quanto io, pur affermando che
niente può esser conosciuto con certezza, tuttavia sono solito discutere intorno
ad altre tesi, e proprio nello stesso momento miro a trattare i precetti del
dovere. Vorrei che costoro conoscessero bene il mio pensiero. Io non sono tale
che il mio animo se ne vada vagando nell'incertezza e non abbia mai una norma da
seguire. Quale sarebbe codesto intelletto o piuttosto quale la nostra vita, se
si eliminasse ogni regola non solo di discussione, ma anche di vita? Io, per
parte mia, come alcuni sostengono esservi alcune cose certe ed altre incerte,
esprimendo un'opinione diversa da questi, dico che alcune cose sono probabili,
altre improbabili.
8. Quale ragione mi potrebbe impedire di seguire quelle cose che mi paiono
probabili e rigettare ciò che mi sembra improbabile, e, coll'evitare le
affermazioni assolute, fuggire quella presunzione che è la più lontana dalla
vera sapienza? Invece la nostra scuola pone in discussione tutto, perché questo
stesso probabile non potrebbe esser palese se non si facesse un confronto delle
ragioni dall'una e dall'altra parte. Ma questi criteri di metodo sono stati
abbastanza diligentemente chiariti, come credo, nei miei 'Accademici'. E invero,
o mio Cicerone, benché tu, sotto la guida di Cratippo, dal pensiero assai affine
a coloro che elaborarono queste teorie famose, ti stia dedicando a questa
filosofia che è una delle più antiche e nobili, tuttavia non voglio che questa
mia dottrina così vicina alla tua ti sia sconosciuta. Ma proseguiamo nel nostro
proposito.
III. L'UTILE E' INSEPARABILE DALL'ONESTO
9. Sono cinque, dunque, i principi f issati per la ricerca del dovere, dei quali
due riguardano il conveniente e l'onesto, due i beni della vita, le ricchezze,
il potere, le risorse, il quinto il criterio di scelta, nel caso in cui quelle
norme sopra menzionate sembrino contrastare tra di loro; la parte riguardante
l'onestà è terminata; proprio essa desidero che ti sia notissima. Il tema del
quale ora trattiamo è quello stesso che si chiama utile; per questo termine
l'uso comune, scivolando, deviò dalla retta via e a poco a poco giunse a tal
punto che, dividendo nettamente l'onesto dall'utile, definì onesto ciò che non
era utile e utile ciò non era onesto; nessun danno maggiore di questo poteva mai
essere apportato alla vita umana.
10. Certo i filosofi, con la loro grandissima autorità, distinguono in astratto,
con rigore ed onestà, queste tre categorie confuse (nella realtà): qualsiasi
cosa, difatti, sia giusta, pensano che sia anche utile, e allo stesso modo ciò
che è onesto anche giusto; da ciò si deduce che qualsiasi cosa sia onesta è
anche utile. Coloro che comprendono poco le distinzioni filosofiche, grandi
ammiratori degli uomini astuti e furbi, giudicano la furberia come sapienza.
L'errore di costoro deve essere estirpato ed ogni opinione si deve rivolgere
alla speranza di far loro comprendere che essi possono conseguire ciò che
vogliono, con intenti onesti e con azioni giuste, non con l'inganno e la
malizia.
LE FONTI DELL'UTILE
11. Le cose che riguardano la conservazione della vita umana sono in parte
inanimate, come l'oro, l'argento, i prodotti della terra ed altre del medesimo
genere, in parte sono animate, ed hanno i propri istinti e appetiti. Tra queste,
parte è priva di ragione, parte, invece, ne è for nita. Privi di ragione sono i
cavalli. i buoi, gli altri animali domestici, [le api,] il cui lavoro produce
alcuni vantaggi per l'uomo e la sua vita. Due sono le classi di coloro che sono
forniti di ragione, una è quella degli dei, l'al tra è quella degli uomini. Il
sentimento di pietà e di reverenza ci renderà propizi gli dei; ma dopo gli dei e
seguendo subito dopo di essi gli uomini, possono essere soprattutto utili agli
uomini.
12. La stessa divisione si può applicare a quelle cose che ci nuocciono e
ostacolano. Ma poiché si crede che gli dei non facciano il male, si ritiene che
- messi da parte quelli - gli uomini costituiscano il più grande ostacolo per
gli uomini. Infatti quelle stesse cose che abbiamo detto inanimate, sono per la
maggior parte il prodotto del lavoro umano, che non avremmo se non ci fossero
state le mani e la mente, e non le potremmo nemmeno usare senza l'ausilio degli
uomini. Senza l'opera dell'uomo non sarebbero possibili la medicina, la
navigazione, l'agricoltura, il raccolto e la conservazione delle messi e di
tutti gli altri frutti. 13. Inoltre l'esportazione di quei prodotti dei quali
abbondiamo e l'importazione di quelli di cui scarseggiamo non sarebbero
possibili, se gli uomini non si dedicassero a questi compiti. Per lo stesso
motivo non si estrarrebbero dalla terra le pietre necessarie al nostro uso, né
il ferro, il bronzo, l'oro e l'argento nascosto nel profondo si estrarrebbero
senza la fatica e la mano dell'uomo.
L'OPERA DELL'UOMO NEL CONSORZIO UMANO
Le case, invero, con le quali scacciare la violenza del freddo e temperare la
molestia del caldo, come avrebbero potuto essere fornite sin da principio al
genere umano o si sarebbero, poi, potute ricostruire se fossero cadute per la
violenza di una tempesta o di un terremoto o per la loro stessa vecchiaia, se la
vita associata non avesse appreso a chiedere aiuto agli uomini contro tali
calamità? 14. Aggiungi gli acquedotti, le deviazioni dei fiumi, le irrigazioni
dei campi, le dighe contro i flutti, i porti creati dall'uomo, tutte queste
opere come potremmo averle senza il lavoro dell'uomo? Da questi e da molti altri
esempi è evidente che quei frutti e quei vantaggi che si traggono dalle cose
inanimate, non li avremmo mai potuti ottenere senza il lavoro manuale dell'uomo.Infine,
qual frutto o qual vantaggio si sarebbe potuto ricavare dalle bestie, se gli
uomini non ci aiutassero? Infatti furono certamente uomini coloro che per primi
trovarono quale uso si potesse avere da ciascun animale, e ora senza l'opera
dell'uomo non potremmo farli pascolare o domarli o custodirli o prenderne il
frutto al momento opportuno; e sono gli uomini che uccidono gli animali dannosi
e che catturano quelli che ci possono essere utili. 15. A che enumerare il gran
numero delle arti, senza le quali la vita dell'uomo non potrebbe affatto
sussistere? Quale aiuto si darebbe ai malati, quale sollievo avrebbero i sani,
quali potrebbero essere il vitto e il tenore di vita, se tante arti non ci
fornissero quei mezzi dai quali la vita dell'uomo resa civile tanto lontana dal
vitto e dal modo di vivere delle bestie? Le città, poi, senza l'unione degli
uomini non avrebbero potuto essere né edificate né popolate: di lì furono
stabilite le leggi e i costumi, l'equa ripartizione dei diritti e dei doveri e
una regola
sicura di vita. Da ciò derivarono mitezza d'animo e pudore; ne risultarono anche
una maggiore sicurezza di vita e il non mancar di nulla, col dare e con l'avere,
con lo scambio e il prestito dei beni.
V. L'UOMO PUO' RECARE ALL'UOMO IL MAGGIOR BENE E IL MAGGIOR MALE
16. Ma noi ci siamo dilungati su questo argomento più a lungo di quanto non
fosse necessario. Chi è, infatti, colui al quale non siano evidenti quelle
considerazioni sulle quali Panezio si dilungava con tante parole, cioè che
nessun generale in guerra e nessun capo in pace abbia potuto mai compiere grandi
e salutari imprese senza l'aiuto degli altri uomìni? Egli ricorda Temistocle,
Pericle, Ciro, Agesilao, Alessandro, e dice che essi non avrebbero potuto
compiere imprese così grandi senza l'aiuto degli uomini. Ma egli fa ricorso, in
una tesi indubitabile, a testimoni non necessari. Come si ottengono grandi
vantaggi con la collaborazione degli uomini e il loro consenso, così non vi è
sciagura più funesta che non provenga all'uomo da un altro uomo. Sulla morte
degli uomini c'è un libro di Dícearco, peripatetico famoso ed eloquente, che,
dopo aver raccolto tutte le altre cause, come le alluvioni, pestilenze,
devastazioni. e anche gli improvvisi assalti delle belve (i cui assalti - egli
ricorda - distrussero alcune stirpi umane) mette, poi, a confronto il numero di
gran lunga maggiore degli uomini annientati dalla violenza degli altri uomini,
cioè in guerre e in rivolte, che non da ogni altra calamità.
LA VIRTU' CONCILIATRICE DEGLI UOMINI
17. Dal momento che questo punto non lascia sussistere alcun motivo di dubbio
che gli uomini aiutino, ma anche ostacolino moltissimo gli altri uomini, ritengo
proprietà della virtù conciliare gli animi degli uomini e trarli ai propri
vantaggi. Perciò quegli utili che si ricavano dalle cose inanimate e quelli che
si ricavano dall'uso e dall'utilizzazione degli animali per la vita dell'uomo
sono dispensati dalle arti manuali, mentre la saggezza e la virtù degli uomini
superiori stimolano l'interesse degli altri uomini, pronto e disposto ad
accrescere il benessere comune.
18. Infatti ogni virtù è riposta, genericamente, in tre aspetti: il primo
consiste nel vedere che cosa sia sincero e vero in qualsiasi azione, che cosa
sia conveniente a ciascuno, quanto sia conseguente e quanto derivi da ciascuna
cosa, quale ne sia la causa; il secondo consiste nel frenare le tumultuose
passioni dell'animo, che i Greci chiamano pa/qh, e rendere obbedienti alla
ragione gli istinti , o)rma/j , come essi dicono; il terzo consiste nel
comportarsi in maniera moderata e riflessiva verso coloro coi quali conviviamo,
a finché, col loro aiuto, possiamo ottenere in grande abbondanza quello che la
natura richiede, ma anche per respingere, per mezzo di quegli stessi, quanto
eventualmente ci rechi danno e per vendicarci di coloro che abbiano tentato di
nuocerci, e per infligger loro una pena in quella misura che lo consentano la
giustizia ed il senso d'umanità.
VI. IL POTERE DELLA FORTUNA ED IL POTERE DELL'UOMO
19. Diremo, poi, - e tra non molto - in quali modi possiamo conseguire la
capacità di conquistare e mantenere l'interesse degli uomini; ma prima devo dire
poche cose. Chi ignora la gran forza della fortuna in un senso e nell'altro,
così nelle avversità come nella prosperità? Infatti quan do godiamo del suo
soffio favorevole, perveniamo alle mete desiderate, e quando ci soffia contro
siamo sballottati. Gli altri casi della fortuna, dunque, sono più rari, in primo
luogo quelli dipendenti dalle cose inanimate, come procelle, tempeste, naufragi,
distruzioni, incendi, poi quelli causati dalle belve, colpi, morsi, assalti.
20. Ma tutti questi accidenti sono - come ho detto - piuttosto rari. Ma stragi
di eserciti - come recentemente di tre - frequenti uccisioni di generali, come
poco fa di quel sommo ed eccezionale uomo, inoltre l'odiosità della folla e a
causa di ciò le frequenti espulsioni di cittadini meritevoli, le disgrazie, le
fughe e, d'altra parte, gli avvenimenti favorevoli, le cariche civili, i comandi
militari, le vittorie, benche siano fortuite, tuttavia non possono accadere né
in un, caso né nell 'altro senza i mezzi e le intenzioni degli uomini. Assodato
questo si deve dire in qual modo possiamo risvegliare e attrarre gli interessi
degli uomini verso il nostro utile. Se il discorso sarà troppo lungo, lo si
confronti con la grandezza dell'utile; così, forse, parrà anche troppo breve.
I MOTIVI DELLE AZIONI UMANE
21. Qualsiasi servigio l'uomo presti all'uomo per aumentarne il prestigio e la
dignità, o è reso per benevolenza amandosi qualcuno per qualche motivo, o a fine
di onore, allorché si osserva il valore di qualcuno e lo si ritiene degno della
miglior fortuna possibile; oppure lo si fa a qualcuno in cui si ha fiducia, e
cosi si crede di ben provvedere ai propri interessi, o a qualcuno la cui potenza
incute timore, o, invece, a qualcuno da cui ci si aspetta qualche favore (come
quando i re e i demagoghi promettono qualche elargizione), o, da ultimo, 1'uomo
può essere attratto dal lucro e dalla mercede, motivo, invero, quanto mai
vergognoso ed abietto sia per chi si faccia prendere da esso, sia per chi tenti
di ricorrervi. 22. E' male, difatti. quando si ottiene col denaro quello che si
dovrebbe ottenere con la virtù. Ma poiché questo mezzo è talvolta necessario,
dirà in quale modo ci si debba servire di esso, dopo aver parlato di quelle
azioni che sono più vicine alla virtù. [Inoltre gli uomini si sottomettono al
volere e al potere di un altro uomo per più d'un motivo; sono spinti a ciò o
dalla benevolenza o dalla grandezza dei benefici, o dalla superiorità del rango
sociale o dalla speranza di ottenere qualche utile o per paura d'essere
costretti ad obbedire con la violenza o allettati dalla speranza d'un donativo e
da varie promesse o, infine, indotti dal denaro, come spesso abbiamo visto nel
nostro Stato.]
VII. LA SORTE DEI TIRANNI
23. Fra tutti questi mezzi nessuno è più adatto a difendere e a conservare il
potere dell'essere amati e nessuno è più contrario dell'essere temuti.
Benissimo, infatti, dice Ennio:
'odiano colui che temono, e colui che ciascuno odia desidera che perisca'.
Si è visto poco tempo fa, se prima non lo si sapeva, che nessun potere può
resistere all'odio di molti. E non solo di questo tiranno, che la città
sopportò, pur oppressa dalle sue armi, la morte dimostra quanto l'odio degli
uomini valga a far cadere in rovina, ma anche la fine si mile degli altri
tiranni, quasi nessuno dei quali riuscì a sfuggire ad una simile morte. La
paura, difatti, è una cattiva sorvegliante di un prolungato dominio, mentre la
benevolenza è fedele custode e lo fa durare addirittura in eterno.
24. Coloro che esercitano il comando opprimendo i cittadini con la forza,
impieghino pure la crudeltà, come i padroni nei confronti degli schiavi, se non
possono governarli in nessun altro modo. Ma quelli che, in una libera città, si
pre parano a farsi temere, raggiungono il massimo dele follia. Benché le leggi
siano conculcate dalla potenza di un uomo e la libertà sia intimidita, tuttavia
sia le une che l'altra emergono di quando in quando o in taciti giudizi o nelle
elezioni segrete per qualche carica. Più penetranti sono i morsi della libertà
perduta che non di quella costantemente mantenuta. Accogliamo questa
considerazione, che ha una vastissima applicazione e non vale solo per
l'incolumità dei cittadini, ma soprattutto per la ricchezza e la potenza, e cioè
di tener lontano il timore e conservare la benevolenza (dei cittadini). Così con
grandissima facilità otterremo ciò che vorremo sia negli affari privati che
nella vita pubblica. Giacché coloro che vogliono essere temuti, necessariamente
devono essi stessi, a loro volta, a temere quegli stessi dei quali dovrebbero
essere temuti.
25. E che? Possiamo noi comprendere da qual tormentoso timore veniva di solito
assalito il famoso Dionigi il Vecchio, che temendo il rasoio del barbiere si
bruciava da sé la barba con un tizzone ardente? E che? Con quale animo pensiamo
che sia vissuto Alessandro di Fere? Costui - come si legge - pur amando molto la
propria moglie, Tebe, tuttavia quando dal banchetto si recava nella sua stanza
ordinava ad un barbaro, addirittura tatuato - come è scritto al modo dei Traci,
di andare avanti con la spadà sguainata e si faceva precedere da alcuni sgherri,
incaricati di perquisire gli scrigni della donna e di accertarsi che non fosse
nascosta un' arma tra le vesti. 0 infelice, che riteneva più fedele un barbaro
tatuato che la propria moglie! E non si sbagliò: fu ucciso per mano della
moglie, per sospetto d'infedeltà. Non c'è, in verità, alcuna forza di potere
tanto grande che possa resistere a lungo sotto l'oppressione del timore. 26. Ne
è testimone Falaride, la cui crudeltà è rimasta famosa sopra tutti; costui non
morì a causa di un agguato - come l'Alessandro che ho or ora ricordato - non per
mano di pochi - come quel nostro tiranno; ma tutta la popolazione di Agrígento
si sollevò contro di lui. E che? I Macedoni non abbandonarono Demetrio e
passarono tutti insieme dalla parte di Pirro? E che? Forse che gli alleati non
si distaccarono subito dagli Spartani, che comandavano con maniere ingiuste, e
se ne stettero oziosi spettatori della disfatta di Leuttra?
VIII. SILLA E CESARE
In un tale argomento ricordo più volentieri gli esempi stranieri che i nostri.
Tuttavia per tutto il tempo che l'impero romano si resse sui benefici e non
sulle offese, si conducevano le guerre o in difesa degli alleati o per lo Stato,
e il loro esito era o mite o necessario; il senato era il porto e il rifugio dei
re, dei popoli e delle nazioni, e i nostri magistrati e generali si sforzavano
di ottenere la maggior gloria da questo solo, se avessero difeso le pro vince e
gli alleati con giustizia e lealtaà. 27. Perciò quello si poteva chiamare con
maggiore verità patrocinio del mondo che impero. A poco a poco già da tempo
avevamo attenuato questa consuetudine e questa condotta, ma dopo la vittoria di
Silla essa scomparve del tutto. Cessò, infatti, di apparire ingiusto ogni danno
contro gli alleati, dopo che erano state commesse crudeltà tanto grandi verso i
cittadini. Nel caso di Silla, dunque, una vittoria poco onesta tenne dietro ad
una causa onesta. Infatti egli osò dire, vendendo - dopo aver piantato l'asta -
nel foro i beni di onesti cittadini, ricchi e, pur sempre, cittadini, che egli
vendeva il suo bottino. Gli tenne dietro uno che, per un'empia causa, con una
vittoria ancor più turpe, non solo vendeva i beni dei singoli cittadini, ma
comprendeva sotto un unico diritto di sciagura tutte le provincie e le regioni.
28. Perciò, tormentate e devastate le nazioni straniere, abbiamo visto come
esempio del perduto impero, portare nel trionfo l'effigie di Marsiglia e
trionfare su quella città, senza la quale i nostri generali non avrebbero mai
potuto riportare il trionfo delle guerre transalpine. Potrei ricordare, inoltre,
molte scelleratezze commesse contro gli alleati, se il sole ne avesse visto
qualcuna più indegna di questa sola. A ragione, dunque, siamo colpiti. Se non
avessimo lasciate impunite le disoneste azioni di molti, non sarebbe mai toccata
ad uno solo una così grande sfrenatezza; ma da costui l'eredità del patrimonio
giunse a pochi, della cupidigia a molti disonesti.
29. Non mancheranno mai il germe e il motivo delle guerre civili. finché gli
uomini perversi ricorderanno quell'asta sanguinosa e spereranno in essa. L'aveva
vibrata Publio Silla mentre era dittatore un suo parente, e dopo trentasei anni
non si ritrasse da un'asta ancor più scellerata. Quell'altro Silla, che in
quella prima dittatura era stato scrivano, in questa fu questore urbano. Da ciò
si può comprendere che le guerre civili non mancheranno mai, allorché si
propongono tali premi. Perciò solamente le mura della città rimangono in piedi e
perdurano, ed esse pure, ormai, col timore di estremi crimini, ma la repubblica
l'abbiamo interamente perduta.
E se tali mali poterono accadere al popolo romano per un ingiusto esercizio del
potere, che cosa devono aspettarsi i singoli cittadini? Pur essendo evidente che
la forza della benevolenza sia grande, quella della paura debole, resta da
trattare con quali mezzi possiamo conseguire nel modo più facile quell'affetto
che noi vogliamo, insieme con l'onore e la lealtà. 30. Non tutti ne abbiamo
ugualmente bisogno: deve essere proporzionato al modo in cui ciascuno regola la
propria vita, se gli sia necessario l'esser amato da molti o da pochi. Si tenga
ben fermo questo suggerimento, che è il primo ed il più importante, e cioè di
avere la familiarità e la fedeltà degli amici che ci amano e ci ammirano. Questo
è sicuramente il solo aspetto in cui non ci sia molta differenza tra gli uomini
grandi e quelli mediocri: ambedue se lo devono procurare nella stessa misura.
31. Non tutti, forse, hanno bisogno allo stesso modo dell'onore, della gloria e
della benevolenza dei cittadini, ma tuttavia, se qualcuno è prov visto di queste
qualità, esse l'aiutano sensibilmente a procurarsi, oltre a tutto il resto, le
amicizie.
IX. DELLA GLORIA
Dell'amicizia si è parlato in un altro libro [che si intitola 'Lelio']; ora
parliamo della gloria, sebbene anche su questo argomento ci siano due miei
libri, ma ne accenniamo dal momento che giova moltissimo nell'occuparsi dei più
alti affari. La suprema e perfetta gloria consta di tre elementi: se la
moltitudine ci ama, se ha in noi fiducia, se, insieme con l'ammirazione, ci
stima degni di un qualche onore. Orbene - per dirla in breve e semplicemente -
suscitiamo nella moltitudine questi sentimenti quasi con quegli stessi mezzi coi
quali li facciamo nascere nelle singole persone, Ma vi è anche un altro accesso
alla simpatia della folla, per poter esercitare una certa influenza sull'animo
di tutti.
32. In primo luogo tra quei tre aspetti di cui ho parlato vediamo i consigli che
riguardano la benevolenza. Questa, invero, la si guadagna soprattutto coi
benefici, in secondo luogo essa è mossa dalla volontà di beneficare, anche se,
per caso, il risultato non corrisponda. L'amore della folla, invero, è suscitato
in maniera profonda dalla stessa fama e dall'opinione di generosità,
beneficenza, giustizia e lealtà e da tutte quelle virtù che riguardano la
mitezza di costumi e l'affabilità. Infatti, poiché quella stessa virtù, che
chiamiamo onesto e conveniente, ci piace per se stessa e commuove l'animo di
tutti con la sua natura ed il suo aspetto esteriore, e soprattutto quasi brilla
tra quelle virtù che ho ricordato, proprio per questa ragione la natura stessa
ci spinge ad amare coloro nei quali, secondo noi, esistono quelle virtù. Queste,
invero, sono le cause più importanti dell'affetto; possono esisterne, inoltre,
parecchie più lievi.
33. Due qualità possono far sì che si abbia fiducia: l'esser stimati in possesso
della saggezza congiunta con la giustizia. Infatti abbiamo fiducia in quelli che
riteniamo più perspicaci di noi e crediamo capaci di prevedere il futuro e di
risolvere una situazione, quando essa si verifichi e si sia giunti ad un momento
critico, e di poter prendere una decisione in base alle circostanze. Questa,
secondo gli uomini, è la vera ed utile saggezza. In verità negli uomini giusti
[e leali], cioè nei galantuomini, si ripone tanta fiducia da non nutrire nei
loro confronti nemmeno il sospetto di frode e di offesa. Perciò pensiamo di
poter affidare con tutta sicurezza a questi la nostra salvezza, i nostri beni ed
i nostri figli.
34. Di queste due qualità necessarie ad ispirare fiducia ha maggior valore la
giustizia, poiché anche senza saggezza essa ha sufficiente prestigio; invece la
saggezza senza giustizia non vale ad ispirar fiducia. Quanto più uno è astuto e
furbo, tanto più è inviso e sospetto perché gli manca la fama dell'onestà. Per
questo motivo la giustizia congiunta all'intelligenza potrà quanto vorrà
nell'ispirar fiducia; la giustizia senza la saggezza potrà molto, mentre la
saggezza senza la giustizia non varra niente.
X. UNA OBIEZIONE PREVISTA
35. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che, mentre tutti i filosofi
affermano - e d'altra parte anch'io ho sostenuto tale tesi - che chi ha una
virtù le possiede tutte, ora le separi così, come se qualcuno potesse esser
giusto, senza essere nello stesso tempo saggio; ma altro è quella sottigliezza
usata quando si definisce accuratamente in una discussione filosofica proprio la
verità, altro è quella adoperata quando tutto il discorso si modella in base
alle esigenze dell'opinione comune. Perciò noi ora parliamo, in questo passo,
come la gente comune, e alcuni li chiamiamo coraggiosi, altri onesti, altri
saggi. Si devono usare termini popolari e comuni nel parlare dell'opinione
comune; allo stesso modo si comportò Panezio. Ma ritorniamo al tema che ci
eravamo proposti.
ANCORA SULLA GLORIA
36. Dei tre aspetti riguardanti la gloria, il terzo era costituito dal fatto che
noi siamo giudicati dagli uomini degni di onore e, nello stesso tempo, di
ammirazione. Gli uomini, dunque, ammirano in generale quelle qualità che ritengo
grandi e superiori ad ogni loro pensiero; in particolare, poi, se osservano nei
singoli individui delle qualità inattese. Perciò essi guardano con ammirazione,
e innalzano con grandissime lodi, quegli uomini nei quali pensano di individuare
eccellenti e singolari virtù, mentre guardano con commiserazione e disprezzano
quelli che, secondo il loro giudizio, non hanno alcuna virtù, alcun coraggio ed
alcuna energia. Ma non disprezzano tutti coloro dei quali non hanno stima;
infatti non disprezzano affatto quelli che ritengono disonesti, calunniatori,
ingannatori e pronti a far offese, ma ne hanno una cattiva opinione. Perciò,
come ho detto prima, vengono disprezzati quelli che non sono - come si dice - "
ne per sé nè per altri ", i quali non lavorano, non sono operosi, non
s'interessano di nulla.
37. Sono invece ammirati quelli che, secondo l'opinione comune, superano gli
altri in virtù e sono scevri d'ogni macchia morale e da quei vizi, ai quali gli
altri non possono opporre una facile resistenza. Infatti i piaceri, dolcissimi
tiranni, allontanano dalla virtù l'animo della maggior parte degli uomini e,
avvicinandosi le fiaccole dei dolori, i più si atterriscono fuor di misura; la
vita, la morte, le ricchezze, la povertà sconvolgono profondamente tutti gli
uomini. che disprezzano con animo nobile e superiore queste cose, in un senso e
nell'altro, e quando si presenta loro un'impresa nobile ed onesta, e li attira a
sé e quasi li rapisce interamente, allora chi non ammira lo splendore e la
bellezza della virtù?
XI. LA GIUSTIZIA E' DI PER SE' FONTE DI GLORIA
38. Il disprezzo di queste cose suscita grande ammirazione; soprattutto la
giustizia, l'unica virtù in base alla quale gli uomini sono chiamati onesti,
appare straordinaria alla folla: e non a torto. Infatti non può essere giusto
chi teme la morte, il dolore, l'esilio o chi antepone alla giustizia il
contrario di queste cose. Ammirano soprattutto colui che rimane imperturbabile
di fronte al denaro, e ritengono che l'uomo, in cui questa virtù sia stata
accertata, abbia superato la prova del fuoco. Perciò la giustizia riunisce tutti
e tre gli aspetti che ho sopra esposti per il conseguimento della gloria, ed
anche la benevolenza - perché vuol giovare a moltissimi - e per il medesimo
motivo la fiducia e l'ammirazione, perché disprezza e trascura quei beni verso i
quali i più, eccitati da un desiderio sfrenato, sono trasportati.
39. Secondo il mio parere, ogni maniera e ordine di vita ha bisogno dell'aiuto
degli uomini, in primo luogo perché si abbia con chi poter parlare
familiarmente; il che è difficile, se tu non hai l'aspetto di un uomo onesto.
Dunque anche all'uomo solitario e che trascorre la vita in campagna è necessaria
la fama di uomo giusto, e tanto più per il fatto che, se non l'avrà, [verrà
considerato ingiusto] non essendo protetto da alcun aiuto sarà offeso molte
volte.
40. Ma anche a coloro che vendono, comprano, prendono e danno in affitto e sono
occupati in trattative commerciali, la giustizia è necessaria per trattare gli
affari, ed è così grande la sua potenza, che neppure quanti si pascono di
scelleratezze e misfatti possono vivere senza una sua porzione, sia pur minima.
Chi, infatti, ruba o strappa qualcosa ad un membro della banda di ladri cui
appartiene, deve abbandonare il suo posto in quella banda; ma colui che è detto
capo dei pirati, qualora non distribuisse il bottino in parti uguali, o sarebbe
ucciso dai suoi compagni o verrebbe abbandonato. Che anzi si dice che esistano
delle leggi proprie dei briganti, alle quali essi obbediscono ed ottemperano.
Così per la sua giusta divisione del bottino il brigante illirico Barduli - di
cui parla Teopompo - ebbe grande potenza, e di gran lunga superiore fu quella
del lusitano Viriato, di fronte al quale cedettero anche i nostri eserciti ed i
nostri generali. Ne fiaccò la potenza Gaio Lelio, detto il Sapiente, da pretore,
e ne diminuì la ferocia, reprimendola tanto da lasciare ai suoi successori una
facile guerra. Dunque, dal momento che è tanto grande la forza della giustizia
che anche rafforza ed aumenta la potenza dei briganti, quanto grande penseremo
che sia la sua forza nell'applicazione delle leggi, dei tribunali, in uno Stato
ordinato?
XII. LA GIUSTIZIA, TUTELA DEI POPOLI
41. Secondo me, non solo presso i Medi, come dice Erodoto, ma anche presso i
nostri antenati sembra che, per godere della giustizia, si creassero re uomini
di onesti costumi. Ma poiché la moltitudine in miseria era oppressa da quelli
che avevano maggiori ricchezze, essa cercava aiuto presso qualcuno superiore per
valore, il quale, proteggendo dalle offese i più deboli, ristabilita l'equità,
reggeva con uguale legge i cittadini più potenti ed i più umili. E lo stesso
motivo per cui si crearono i re determinò la costituzione delle leggi. 42. Si è
sempre ricercato un diritto equo, che altrimenti non sarebbe un diritto. Se il
popolo lo conseguiva da un solo uomo, giusto ed onesto, se ne stava tranquillo.
Ma poiché questo accadeva raramente, si elaboravano leggi che parlassero sempre
con una sola e medesima voce a tutti.
E' chiaro che di solito si sceglievano per il governo uomini la cui fama di
giustizia fosse ben grande presso la moltitudine; se vi si aggiungeva il fatto
che essi godevano anche fama di uomini prudenti, non vi era niente che gli
uomini non pensassero di poter conseguire sotto la loro guida. La giustizia è da
conservare e da rispettare con ogni mezzo, sia per essa stessa - altrimenti non
sarebbe giustizia - che per la grandezza del nostro onore e della nostra gloria.
Ma come c'è un mezzo non.solo per cercar denaro, ma anche per investirlo in modo
da coprire le spese continue (non solo quelle necessarie, ma anche quelle di
lusso), così la gloria si deve ricercare e sfruttare in modo ragionevole.
43. E' vero che Socrate diceva, con parole assai famose, che la via più breve e
quasi la scorciatoia per la gloria è quella di comportarsi in modo da essere
tali, quali si voglia esser stimati; ma sbagliano in maniera molto grave quanti
credono di poter ottenere una gloria duratura con la simulazione e con un vano
ostentare, non solo con discorsi falsi, ma anche con l'aspetto esteriore. La
vera gloria pone salde radici ed anche si accresce; ogni finzione cade
rapidamente come i fiori delicati e non vi può essere alcuna simulazione
duratura. Vi sono moltissimi esempi nell'uno e nell'altro caso, ma per brevità
ci accontenteremo di quello di una sola famiglia. Si loderà Tiberio Gracco,
figlio di Publio, fino a quando durerà il ricordo della romanità. Ma i suoi
figli da vivi non riscuotevano l'approvazione dei buoni e da morti sono nel
novero degli uccisi a giusta ragione. Colui che, dunque, vorrà ottenere.la vera
gloria [di giustizia] adempia i doveri della giustizia. E nel libro precedente
si è detto quali siano.
XIII. LA VIA DELLA GLORIA
44. Ma per sembrare tali quali siamo con la maggior facilità, benché in ciò
stesso sia l'efficacia piu grande, e cioè nell'essere quelli che vorremmo
apparire agli occhi degli altri, tuttavia si devono dare alcuni consigli. Se
qualcuno sin dalla giovinezza ha un qualche titolo di celebrità e di rinomanza o
ricevuto dal padre (e questo è il tuo caso credo o mio Cicerone) o per qualche
fortunata circostanza, ha f issi su di sé gli occhi di tutti; s'indaga nei suoi
riguardi, che cosa faccia, come viva e, come se si trovasse nella luce più
piena, così non vi può essere alcuna sua parola o fatto oscuro.
45. Quelli, invece, la cui prima età, per gli umili e oscuri natali, trascorre
totalmente ignorata da parte degli uomini, non appena incominciano ad esser
giovani dovranno prefiggersi grandi scopi e perseguirli con onesto zelo: e ciò
faranno con animo tanto più fermo, poiché quella età non solo non suscita
invidia, ma anzi li favorisce. La prima raccomandazione per un giovane che
aspira alla gloria consiste, dunque, nel potersi segnalare nelle imprese di
guerra: e cosi molti emersero al tempo dei nostri antenati. Quasi sempre,
infatti, si conducevano guerre. Ma la tua giovinezza incappò in quella guerra,
in cui una fazione ebbe troppa scelleratezza, ma l'altra poca fortuna. Tuttavia
in quella guerra, poiché Pompeo ti aveva posto a capo di un'ala dell'esercito,
ti procurasti lodi da parte di quel sommo uomo e dell'esercito combattendo a
cavallo, tirando giavellotti e sopportando ogni fatica militare. E, invero, la
tua gloria cadde insieme con la repubblica. Ma io non ho intrapreso questa mia
trattazione proprio per te, ma per tutti, in generale. Ritorniamo, perciò, al
nostro argomento.
46. Come in ogni altra atttività le opere dello spirito sono molto superiori a
quelle del corpo, così quelle imprese che ci prefiggiamo con l'ingegno e la
ragione, sono più gradite di, quelle compiute con la forza fisica. Il primo
passo, dunque, verso la gloria parte dalla moderazione, unita al sentimento di
pietà verso i genitori e alla benevolenza verso i propri familiari. Assai
facilmente si fanno riconoscere, e nel modo migliore, quei giovani che si sono
affidati ad uomini famosi e sapienti e che hanno buona cura dello Stato. Se li
frequentano, suscitano l'opinione nel popolo, che diventeranno simili a quelli
che proprio essi si sono scelti come modelli.
47. L'essere stato nella famiglia di Publio Mucio servì come raccomandazione al
giovane Publio Rutilio nel crearsi fama di onestà morale e sapienza giuridica.
Invero Lucio Crasso, ancora adolescente, non mutuò la sua grandissima gloria da
qualche parte, ma se la procurò da solo con quella sua requisitoria nobile e
gloriosa; e, proprio in quell'età, in cui coloro che si esercitano sogliono
ottenere lodi - come sappiamo di Demostene - in quell'età, dunque, Lucio Crasso
dimostrò nel foro di esser già ottimamente capace di ciò che poteva realizzare
anche allora in privato con lode.
XIV. L'ELOQUENZA
48. Essendo due le specie di discorsi, di cui l'uno è familiare, l'altro
oratorio, non vi è dubbio che il discorso oratorio abbia maggiore efficacia nel
procurar la gloria (è quello che chiamo eloquenza); ma è difficile a dirsi
quanto la cordialità e l'affabilità del parlare concilino gli animi. Esistono
delle lettere di Filippo ad Alessandro, di Antipatro a Cassandro e di Antigono
al figlio Filippo, tutti e tre uomini assai avveduti (tale, infatti, è la
tradizione); in esse consigliano di guadagnare alla benevolenza gli animi della
folla con un parlare affabile e di ammansire i soldati con un parlare
lusinghiero. Quei discorsi solenni che si pronunziano davanti al popolo
suscitano spesso la gloria di tutti. E' grande, infatti, l'ammirazione per chi
parla con facondia e sapienza, e coloro che l'ascoltano lo credono più
intelligente e sapiente degli altri. Se vi è nell'orazione una certa gravità
mista a moderazione, non vi può esser nulla di più ammirevole,,e tanto più se
quelle qualità si riscontrano in un giovane. 49. Ma poiché vi sono più generi di
cause, che richiedono l'eloquenza, e molti giovani nel nostro Stato hanno
conseguito la gloria parlando davanti ai giudici, al popolo e al senato, la più
grande ammirazione è rivolta all'eloquenza giudiziaria. Due sono le sue specie,
d'accusa e di difesa, delle quali, benché sia più degna di lode la difesa,
tuttavia molto spesso suscita l'approvazione anche l'accusa. Ho parlato poco fa
di Crasso; lo stesso fece Marco Antonio da giovane. Anche l'eloquenza di Publio
Sulpicio trasse lustro da un'accusa, quando chiamò in giudizio quel sedizioso e
pericoloso cittadino Gaio Norbano.
50. Tuttavia questo non si deve fare spesso, né mai se non in difesa dello
Stato. come nel caso di quelli di cui ho parlato prima, o per vendicarsi, come
nel caso dei due Luculli, o per difendere altri, come nella mia causa in difesa
dei Siciliani e come fece Giulio in difesa dei Sardi, nel caso di Albucio. Anche
nell'accusa contro Manio Aquilio apparve chiara l'operosità di Lucio Fufio. Si
accusi, dunque, una sola volta o, almeno, non spesso. Se invece, c'è qualcuno
che debba ricorrere più spesso all'accusa, lo faccia come servizio per la
patria; non si deve riprendere, difatti, il punire di frequente i suoi nemici:
tuttavia ci vuole misura, perché ci si fa la fama di uomo crudele o piuttosto
nemmeno di uomo, nel mettere molti in pericolo mortale. E' pericoloso per se
stessi ed anche infamante procurarsi la nomea di accusatore. Ciò toccò a Marco
Bruto, nato da nobilissima famiglia e figlio di quello che fu tra i migliori
esperti di diritto civile.
51. Si deve anche diligentemente osservare questo precetto morale, di non
chiamar mai in giudizio capitale un innocente: questa azione non può mai esser
compiuta senza un'intenzione colpevole. Che cos'è tanto inumano quanto il
rivolgere l'eloquenza, data dalla natura per la salvezza degli uomini e per la
loro protezione, alla rovina e al danno delle persone oneste? E, come si deve
evitare una tale macchia, ugualmente non dobbiamo farci scrupolo di difendere
qualche volta un colpevole, purché non sia uno scellerato ed un empio: lo vuole
il popolo, lo ammette la consuetudine e lo sollecita anche il sentimento
d'umanità. Il giudice deve seguire sempre il vero nelle cause, 1'avvocato
talvolta difendere anche il verosimile, pur se è meno vero. Non l'avrei osato
scrivere, soprattutto trattando di argomenti filosofici, se non fosse identica
l'opinione di Panezio, il più serio degli Stoici. Ma soprattutto le difese
procurano gloria e gratitudine, e tanto maggiore, se talora accada di venire in
aiuto di qualcuno, che sembra essere assediato ed oppresso dalle ricchezze di un
potente, come feci io e molte altre volte e ancora adolescente contro la potenza
di Lucio Silla in difesa di Sesto Roscio Amerino; questa orazione, come sai,
resta tutt'ora.
XV. LA BENEFICENZA
52. Ma, esposti i doveri dei giovani che servono a conseguire la gloria, si deve
poi parlare della beneficenza e della generosità. Ne esistono due tipi: o si
reca sollievo ai bisognosi con qualche azione o col denaro. E' più facile quest'ultima
cosa, soprattutto per un uomo ricco, ma la prima è più nobile, più splendida,
più degna di un uomo forte ed illustre. Benché in entrambe vi sia la volontà
generosa di far del bene, tuttavia l'una azione scaturisce da uno scrigno,
l'altra dalla virtù; inoltre l'elargire mettendo mano al patrimonio familiare
esaurisce la fonte stessa della beneficenza. Cosi la beneficenza sopprime la
beneficenza stessa: quanto più tu ne fai, tanto meno te ne puoi servire nei
confronti di molte persone.
53. Coloro che, invece, saranno generosi con l'opera, cioè con la virtù e lo
zelo, quante più persone avranno beneficato, tanto più troveranno collaboratori
nel far del bene; inoltre per l'abitudine di beneficare saranno più preparati e
quasi più esercitati a legare a sé molti coi benefici. Con parole assai elette
Filippo, in una lettera, accusa il figlio Alessandro di volersi procurare la
benevolenza dei Macedoni con i donativi: "Quale calcolo, diamine, ti indusse a
tale speranza, sì da farti credere che ti saranno fedeli quelli che tu hai
corrotto col denaro? Oppure agisci in modo che i Macedoni sperino di avere in te
non il loro re, ma il loro dispensiere e fornitore? " Disse bene " dispensiere e
fornitore ", perché è vergognoso per un re; meglio ancora il fatto di aver
definito corruzione il donativo: infatti colui che lo accetta diventa peggiore
ed anche più pronto ad aspettarsela sempre. 54. Questo dice Filippo al figlio,
ma noi dobbiamo giudicarlo un consiglio valido per tutti. Perciò non c'è dubbio
che quella beneficenza che consta dell'opera e dello zelo è più onesta e si
estende più ampiamente e può giovare a più persone. Tuttavia talvolta si devono
fare delle elargizioni e questo genere di beneficenza non si deve del tutto
evitare, e spesso bisogna far parte delle proprie sostanze a persone bisognose e
meritevoli, pur con diligenza e moderazione. Molti hanno dilapidato i loro
patrimoni col donare sconsideratamente. Che cosa c'è di più stolto del fare di
tutto per non poter compiere più a lungo ciò che si farebbe volentieri? E le
estorsioni tengono dietro alle elargizíoni; quando a forza di dare si incomincia
ad aver bisogno, si è costretti a porre mano ai beni altrui. Così, pur volendo
esser benefici per procacciarsi la benevolenza, non si ottiene tanto l'affetto
di quelli ai quali si è elargito, quanto l'odio di quelli ai quali si è tolto.
55. Perciò non bisogna, certo, chiudere a chiave il proprio patrimonio, si che
non lo possa aprire la beneficenza, né deve essere tanto dischiuso da divenire
accessibile a tutti; si adotti una misura, che sia proporzionata alle proprie
possibilità economiche. Dobbiamo senza dubbio ricordarci di ciò che, ripetuto
assai spesso dai nostri uomini, è en trato ormai nell'uso proverbiale: " il
donare non ha fondo ". Infatti quale misura potrebbe esserci, quando quelli che
vi sono abituati ed altri ancora desiderano la stessa cosa?
XVI. PRODIGHI E GENEROSI
Vi sono, in genere, due classi di donatori, i prodighi ed i generosi. I prodighi
elargiscono il loro denaro in banchetti, distribuzioni di carne e giuochi di
gladiatori, nell'allestimento di spettacoli di caccia, in tutti quei
divertimenti che lasceranno un breve ricordo o addirittura nessun ricordo;
invece i generosi riscattano coi loro mezzi finanziari i prigionieri dai
briganti o si accollano i debiti degli amici o li aiutano nel sistemare le
figlie o danno loro delle sovvenzioni per acquistare un patrimonio o aumentarlo.
56. Perciò mi meraviglio di quel pensiero che è venuto in mente a Teofrasto nel
suo libro sulle ricchezze, in cui ha detto molte cose egregiamente, ma è assurdo
questo: è largo, infatti, di lodi per la magnificenza e lo sfarzo delle feste
popolari e ritiene frutto delle ricchezze la possibilità di tali allestimenti. A
me, invece, quel frutto della generosità di cui ho fornito pochi esempi sembra
molto più grande e sicuro. Con quale maggiore serietà e verità Aristotele ci
mette in guardia perché non ammiriamo questi sperperi di denaro, che non hanno
altro scopo che adescare il popolo. Dice infatti che " se degli assediati dal
nemico fossero costretti a comprare un quartino d'acqua al prezzo d'una mina,
sulle prime questo ci sembrerebbe incredibile e tutti si meraviglierebbero, ma,
ripensandoci, farebbero una concessione alla necessità; noi, invece, non ci
meravigliamo affatto di questi eccessivi sprechi e infinite spese, tanto più che
così non veniamo incontro ad alcune necessità, e non si accresce la nostra
dignità, e quel gran divertimento della moltitudine per breve ed esiguo tempo,
ed è goduto dalla gente di rango più basso, in cui, insieme con la sazietà, si
spegne anche il ricordo del piacere ". 57. E conclude anche giustamente: "
Questo fa piacere ai fanciulli. alle donnicciole, agli schiavi e a quegli uomini
liberi assai simili agli schiavi; ma dall'uomo serio, che riflette con fermo
giudizio su ciò che accade, non possono essere in alcun modo approvate ".
Capisco, comunque, che nella nostra città ormai radicato, sin da tempo antico,
l'esercizio in maniera assai splendida della carica di edile da parte degli
uomini più illustri. Perciò Publio Crasso, ricco di nome e di sostanze, adempi
al suo compito di edile con il massimo splendore, e poco dopo, con grandissima
magnificenza, Lucio Crasso insieme a Qiunto Muoio, il più moderato di tutti gli
uomini; poi Gaio Claudio, figlio di Appio, e in seguito molti, i Luculli,
Ortensio e Silano; ma Publio Lentulo, durante il suo consolato, superò tutti i
predecessori. Lo imitò Scauro; ma con la maggiore magnificenza svolse il suo
compito il nostro Pompeo, durante il suo secondo consolato; ma in tutte queste
cose tu vedi quale sia il mio pensiero.
XVII. LE ELARGIZIONI
58. Tuttavia bisogna anche evitare il sospetto di avarizia. Al ricchissimo
Mamerco il rifiuto dell'edilità procurò la sconfitta nelle elezioni per il
consolato. Perciò se il popolo richiede un'elargizione, anche se gli uomini
onesti non la desiderano, e tuttavia l'approvano, si deve concedere solamente in
base alle proprie possibilità economiche, come ho fatto io stesso, specie ogni
qualvolta con un donativo popolare si mira a raggiungere uno scopo più
importante e più utile, come, or non è molto, i banchetti imbanditi lungo le
vie, a titolo di donativo, recarono grande onore ad Oreste. E neppure si imputò
a biasimo di Marco Seio il fatto che vendette al popolo, durante una carestia,
un moggio di grano per un asse: così si liberò d'una grande e antica odiosità
popolare e con una spesa onesta, dal momento che era edile, e nemmeno eccessiva.
Ma poco tempo fa ebbe grandissimo onore il nostro Milone, che rintuzzò gli
assalti e i furori di Publio Clodio con gladiatori assoldati per conto dello
Stato, la cui salvezza dipendenva dalla mia.
59. Il motivo dell'elargizione è la necessità o l'utilità. Anche nei riguardi di
esse la regola migliore è quella del giusto mezzo. Lucio Filippo, figlio di
Quinto, uomo di grande ingegno e famoso sopra tutti, soleva vantarsi di aver
conseguito tutte quelle cariche che sono ritenute le più importanti senza alcuna
elargizione; lo stesso affermava Cotta e cosi Curione. Anch'io potrei vantarmi
in qualche modo di questo; infatti in rapporti all'importanza delle cariche che
ottenni con pieno suffragio, proprio nell'anno consentito dalla legge per me (il
che non toccò a nessuno di quelli che ho or ora citato), fu abbastanza esigua la
spesa per l'edìlità.
60. Anche più giuste sono quelle spese di pubblica utilità, come le mura, gli
arsenali, i porti, gli acquedotti; benché sia più piacevole quel denaro che si
dà quasi in mano, tuttavia queste opere saranno più gradite in futuro. Nel
biasimare i teatri, i portici, i nuovi templi, agisco con più ritegno a causa di
Pompeo, ma gli uomini saggi non approvano, come lo stesso Panezio, che io ho
molto seguito in questi libri, senza però tradurlo, e Demetrio Falereo, che
biasima Pericle, il primo dei Greci, per il fatto che profuse tante denaro in
quei famosissimi propilei. Ma di tutto questo argomento si è trattato a lungo in
quei libri che ho scritto 'Sulla repubblica'. L'intero sistema di tali
elargizioni è, dunque, in se stesso dannoso, ma necessario a seconda delle
circostanze, ed anche allora deve essere commisurato alle capacità economiche e
regolato in base al giusto mezzo.
XVIII. LA GENEROSITA'
61. Invece in quell'altro genere di elargizione che parte dalla generosità non
dobbiam adottare un'unica regola nelle diverse occasioni. Altra è la condizione
di colui che è schiacciato da una sciagura, altra è quella di colui che cerca di
migliorare senza trovarsi in alcuna avversità. 62. La beneficenza dovrà essere
più sollecita verso i disgraziati, a meno che non saranno degni per caso della
loro disgrazia. Tuttavia verso quelli che vogliono essere aiutati, non per
evitare la rovina, ma per ascendere ad un grado superiore, non dobbiamo essere
in alcun modo avari, ma dobbiamo usare un oculato giudizio nella scelta degli
uomini capaci. Assai saggiamente dice Ennio:
'Giudico malefici i benefici mal collocati'.
63. Dal beneficio, dato ad un uomo onesto e grato si ricava doppio frutto e
dall'individuo stesso e anche dagli altri. Se si tiene lontana l'avventatezza,
la generosità è qualità graditissima, ed i più la lodano con tanto maggior zelo,
per il fatto che la bontà dei cittadini più ragguardevoli diventa il rifugio
comune di tutti. Ci si deve adoperare sì da concedere al maggior numero di
persone possibili i benefici, il cui ricordo si trasmetta ai figli ed ai
posteri, perché non sia loro lecito essere ingrati. Tutti odiano colui che è
immemore del beneficio, pensano che quell'offesa nell'abbandonare la generosità
sia rivolta anche contro loro stessi, e che l'ingrato sia il nemico comune degli
umili. Inoltre questa generosità è utile anche allo Stato, il riscattare i
prigionieri dalla schiavitù, l'arricchire i poveri; che appunto questo fu, di
solito, il comportamento del nostro ordine, lo vediamo scritto, con abbondanza
di esempi, nell'orazione di Crasso. Preferisco, dunque, di gran lunga questa
consuetudine di generosità alla concessione di donativi; il primo tipo è proprio
degli uomini seri e grandi, il secondo quasi di adulatori del popolo che, per
cosi dire, solleticano col piacere la frivolezza della massa.
64. Converrà esser munifici nel dare e nell'esigere evitare la rigidezza e così
esser giusti ed accomodanti nel trattare ogni tipo d'affare, nel vendere e nel
coprare, nel dare e nel prendere in affitto, negli affari di vicinato e di
confine, cedendo a molti molte cose dei proprio di ritto e tenendosi lontani
dalle liti per quanto sia lecito e non so se un po' di più di quanto sia lecito.
Infatti non solo, è generoso, ma talvolta anche fruttuoso rinunziare un po',
talora, al proprio diritto. Si deve aver cura dei patrimonio familiare, in
quanto è scandaloso lasciarlo cadere in rovina, ma (lo si deve curare) in modo
da tener lontano ogni sospetto d'ingenerosità e di avarizia: il poter essere
generosi senza spogliarsi del proprio patrimonio è, certamente, il frutto più
grande del denaro. Teofrasto loda, a giusta ragione, l'ospitalità; è assai
decoroso, pure secondo il mio parere, che le case degli uomini insigni siano
aperte ad ospiti insigni, ed è anche motivo di lustro per lo Stato che gli
stranieri non manchino in Roma di questo genere di liberalità.
E' peraltro anche assai utile per coloro che vogliono onestamente acquistare un
gran nome, avere molto credito e favore presso i popoli stranieri per mezzo
degli ospiti. Teofrasto scrive che Cimone in Atene era ospitale anche verso i
suoi compaesani Laciadi; infatti aveva impartito istruzioni ed ordini ai suoi
fattori che qualunque Laciade capitasse nella sua tenuta fosse rifornito di ognì
cosa.
XIX. GIOVARE COL CONSIGLIO E CON LA PAROLA
65. Quei benefici che si fanno non con donazioni, ma con la nostra opera,
tornano a vantaggio di tutto lo Stato e dei singoli cittadini. Infatti
l'assistere nei processi, il consigliare e giovare a quanti più è possibile con
questo tipo di scienza riguarda molto l'aumento delle ricchezze e della
popolarità. Perciò molte sono le insigni applicazioni dei nostri antenati, e tra
queste il fatto che furono sempre in grandissimo onore la conoscenza e
l'interpretazione del diritto civile, cosi ben ordinato. I principali cittadini,
prima di questo sconvolgimento dei tempi, ne conservarono sempre il privilegio;
ora come le cariche, come tutti i gradi della dignità, cosi è stato soffocato lo
splendore di questa scienza, e questo con infamia tanto maggiore, per il fatto
che ciò è avvenuto proprio nel tempo in cui era in vita una persona che avrebbe
vinto facilmente, colla sua conoscenza giuridica, tutti i predecessori, ai quali
era già pari in onore. Questo aiuto torna gradito a molti e adatto a legare gli
uomini coi benefici.
66. A tale scienza è assai affine, ma più grave più gradita e più elegante, la
capacità di parlare. Infatti che cosa supera l'eloquenza o nell'ammirazione
degli uditori o nella speranza che fa nascere nei bisognosi, o nella gratitudine
di coloro che sono stati difesi? Giustamente [anche], dunque, i nostri antenati
assegnarono a questa attività il primo posto in dignità tra le occupazioni
civili. Ampie possibilità di beneficare e di difendere si aprono all'uomo
facondo, che facilmente si addossa la fatica e che, secondo il patrio costume,
difende le cause di molti di buon grado e gratuitamente.
67. L'occasione mi spingerebbe a deplorare in questo passo l'interruzione, per
non dire la morte, dell'eloquenza, ma temo che sembri che io mi lamenti di
qualcosa che mi riguarda di persona. Ma tuttavia possiamo osservare quali
oratori siano ormai morti, come siano pochi quelli promettenti, ancor meno
quelli dotati delle capacità necessarie, e quanti, invece, posseggano solo la
presunzione. Poiché non tutti possono - e neppure molti - essere giuristi o
oratori, è giusto, tuttavia, giovare a molti con la propria opera, chiedendo
benefici raccomandandoli ai giudici, ai magistrati, vigilando sui loro
interessi, sollecitando quelli stessi che sono consultati o che difendono.
Quanti fanno ciò conseguono grandissima riconoscenza e la loro attività ha un
campo vastissimo.
68. Non si deve ammonire - ché la cosa è evidente - di star attenti a non
offendere alcuni, quando vogliono aiutare altri. Spesso danneggiano chi non
devono o chi non conviene danneggiare; se sono imprudenti, si tratta di
trascuratezza, se sono consapevoli, allora si tratta di sconsideratezza. Ci si
deve scusare presso le persone offese senza volerlo, in qualsiasi modo è
possibile, dicendo loro che si è stati costretti a compiere ciò che si è fatto e
non si sarebbe potuto agire in modo diverso; e con ogni altro aiuto e servigio
bisognerà ricompensare queltorto, che sembrerà essersi commesso.
XX. IL BENEFICIO GUARDI AL CARATTERE, NON ALLA FORTUNA DEGLI UOMINI
69. Ma poiché nell'aiutare gli uomini si soliti guardare o ai costumi o alla
fortuna, facile a dirsi - e così si dice generalmente che nel collocare un
beneficio si consideran o i costumi degli uomini, non la loro fortuna. E' un
parlare onesto; ma chi è, in fin dei conti, che non anteponga, nel dare il suo
aiuto, alla causa di un uomo eccellente ma povero la gratitudine di un uomo
fortunato e potente? Verso colui dal quale, a parer nostro, ci potrà derivare
una più pronta e rapida ricompensa, la nostra volontà è, in genere, più
propensa. Ma si deve riflettere più attentamente sulla natura dei casi.
Certamente quel povero, se è un uomo onesto, anche se non può restituire il
beneficio può, senza dubbio, avere gratitudine. Opportunamente disse, chiunque
sia stato:
"Chi ha denaro non l'ha restituito, colui che l'ha restituito non l'ha più;
invece la gratitudine, chi l'ha contraccambiata la prova e chi la prova l'ha
contraccambiata ".
Invece coloro che si ritengono ricchi, onorati, felici non vogliono neppure
sentirsi obbligati da un beneficio; che anzi pensano di a ver dato un beneficio,
pur avendone essi stessi ricevuto uno grandissimo. E anche sospettano che si
chieda loro o da loro si attenda qualche cosa e giudicano alla stessa stregua
della morte l'esser ricorsi ad un patrocinio o l'essere chiamati col nome di
clienti. 70. Ma quel povero, qualunque beneficio gli sia stato fatto, ritiene
che si sia considerata la sua persona, non la sua fortuna, e si sforza di
sembrare riconoscente non solo verso colui che l'ha beneficato, ma anche verso
quelli da cui s'attende benefici - che ha bisogno di molti -, e non accresce a
parole la sua opera, se per caso ne compie qualcuna, ma anzi la sminuisce.
Bisogna considerare anche questo, che se tu hai difeso un uomo ricco e
fortunato, la riconoscenza resta in lui solo o. al massimo, nei suoi figli; se,
invece, hai difeso una persona povera ma tuttavia onesta e modesta, tutti gli
uomini non disonesti, e ve ne sono molti fra il popolo, vedono in te una difesa
preparata per loro.
71. Perciò ritengo che sia meglio collocare un beneficio presso i buoni che
presso i dotati di fortuna. Bisogna, in genere, adoperarsi per soddisfare
persone di ogni classe sociale, ma se si dovrà scegliere, certamente bisognerà
seguire l'esempio di Temistocle; avendogli chiesto un tale se dovesse dare la
figlia in isposa ad un uomo onesto ma povero o ad un uomo ricco ma meno onesto,
rispose:
"Preferisco, in verità, un uomo che manchi di denaro, anziché il denaro che
manchi di un uomo ".
Ma a causa dell'ammirazione per le ricchezze si corrompono e depravano i
costumi; ma la grandezza di esse in che riguarda ciascuno di noi? Forse giova a
colui che le possiede, e neppure sempre; ma ammettiamo che giovi: sia pure, ma
in qual modo potrà essere più onesto? Che se sarà anche un galantuomo, le sue
ricchezze non dovranno impedire che gli si faccia del bene, purché non ne siano
la ragione. Ogni giudizio riguardi non quanto ciascuno sia ricco, ma quali siano
le sue qualità morali. L'ultimo consiglio nel dare benefici e nel rendere
servigi è di non fare nulla contro l'equità e nulla a favore dell'ingiustizia;
il fondamento di un continuo favore e di una fama perpetua è la giustizia, senza
la quale non può esistere nulla degno di lode.
XXI. L'UOMO DI STATO, BENEFATTORE NON DEL SINGOLO
72. E poiché si è trattato di quel genere di benefici che riguardano le singole
persone, si deve, poi, discutere di quelli che riguardano tutto l'insieme dei
cittadini e lo Stato. Di questi stessi alcuni riguardano tutti i cittadini,
altri i singoli, e questi sono anche più graditi. In genere ci si deve
adoperare, per quanto possibile, per l'una e l'altra categoria, e, se non è
possibile, perché si provveda anche alle singole persone, ma in modo tale che
ciò o giovi o almeno non sia d'ostacolo allo Stato. Grande fu la distribuzione
di grano di Gaio Gracco: vuotava, perciò, l'erario; moderata quella di Marco
Ottavio, tollerabile per lo Stato e necessaria alla plebe, salutare, dunque, per
i cittadini e per lo Stato.
73. In primo luogo chi governa uno Stato dovrà badare a che ciascuno conservi il
proprio patrimonio e non sia adoperata una decurtazione dei beni privati per
opera dello Stato. Si comportò in modo pericoloso Filippo durante il suo
tribunato, proponendo la legge agraria, che, tuttavia, egli permise facilmente
che fosse abrogata, dimostrandosi in questo molto moderato; ma come nella sua
attività disse molte cose in modo gradito al popolo, così fu dannosa quella sua
affermazione: "Non ci sono nelle città duemila persone che abbiano una proprietà
". E' un discorso criminale, che porta al livellamento dei beni; quale peste può
esser più rovinosa di questa? Soprattutto per questo motivo, cioè per conservare
le proprietà, si sono costituiti gli Stati e le città. Infatti gli uomini si
fossero riuniti in società per l'impulso della natura, tuttavia cercavano la
protezione delle città nella speranza di difendere i propri averi.
74. Si deve fare in modo che non si applichino tasse. il che presso i nostri
antenati accadeva spesso per la scarsezza dell'erario e la frequenza delle
guerre, e perché ciò non accada bisognerà prendere provvedimenti molto tempo
prima. Se invece una qualche necessità di un tale contributo si presenterà ad
uno Stato (preferisco fare questa supposizione per un altro Stato piuttosto che
per il nostro, e, del resto, non parlo solo del nostro, ma di ogni Stato), ci si
dovrà adoperàre a che tutti capiscano che si devono sottomettere alla necessità,
se vogliono essere salvi. Anche tutti quelli che governeranno uno Stato dovranno
provvedere a che ci sia abbondanza dei generi necessari per il sostentamento.
Non è necessario trattare come si soglia e si debba provvedere a procurarseli: è
stato sufficiente l'avervi accennato.
75. Il punto principale nella cura d'ognì affare e nell'amministrazione d'ogni
pubblico ufficio è l'evitare anche il minimo sospetto di avidità. "Oh, se la
sorte - disse il Sannita Gaio Ponzio - mi avesse riservato per quei tempi, e
fossi nato allora, quando i Romani cominciarono ad accettare doni! Non avrei
tollerato più a lungo che essi mantenessero il dominio ". E non si sarebbero
dovuti attendere neppure molti secoli, perché ora anche questo male è entrato
nel nostro Stato. E perciò sono ben lieto che Ponzio sia vissuto piuttosto
allora, se veramente egli ebbe una così grande energia morale. Non sono ancora
trascorsi centodieci anni da quando Lucio Pisone propose la legge contro i
delitti dì concussione, mentre prima non ce n'era stata alcuna; ma dopo, in
verità, tante furono le leggi e le più recenti anche più severe, tanti i
colpevoli, tanti i condannati, tanto grave la guerra italica scoppiata per la
paura dei processi, e tante le spoliazioni e le estorsioni degli alleati,
essendo state abrogate le leggi ed i tribunali, che siamo salvi per la debolezza
degli altri, non per il nostro valore.
XXII. TUTTO ALLO STATO, TUTTO PER LO STATO
76. Panezio loda l'Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai?
In lui ci furono altre doti maggiori. La lode di integrità non è solo propria di
quell'uomo, ma anche di quei tempi. Paolo s'impadronì di tutto il tesoro dei
Macedoni, che era enorme, e versò nell'erario tanto denaro che il bottino di un
solo generale permise di mettere fine alle tasse; ma egli non portò niente a
casa sua, tranne il ricordo eterno del nome. L'Africano imitò il padre, e,
abbattuta Cartagine, non fu per niente piu ricco. E che? Colui che fu suo
collega nella pretura, Lucio Mummio, forse che diventò più ricco dopo aver
distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima? Preferì abbellire l'Italia
piuttosto che la sua casa; benché, abbellita l'Italia, la sua stessa casa mi
sembra più ornata.
77. Nessun vizio, dunque, è più vergognoso (per riportare il discorso là donde
si è allontanato), dell'avidità, soprattutto nei capi e negli amministratori di
uno Stato. Considerare, difatti, lo Stato come fonte di guadagno non solo è
vergognoso, ma anche scellerato ed empio. Perciò quell'oracolo proferito da
Apollo Pizio, e cioè che Sparta non sarebbe perita per nessun'altra causa se non
per l'avidità, mi sembra che sia stato predetto non solo per gli Spartani, ma
anche per ogni popolo ricco. Coloro che sono a capo di uno Stato non possono con
alcun altro mezzo procacciarsi più facilmente la benevolenza della moltitudine
che con l'integrità morale e la moderazione.
78. Quelli, invero che vogliono essere popolari e sollevano, perciò, o la
questione agraria, per scacciare i proprietari dai loro possessi, o pensano che
si debbano condonare i debiti dì denaro ai debitori, sconvolgono le fondamenta
dello Stato, in primo luogo la concordia, che non può sussistere quando si
strappa agli uni e si condona denaro agli altri; in secondo luogo l'equità, che
è eliminata completamente se non è lecito a ciascuno avere il suo. Ciò, infatti,
cosituisce la caratteristica specifica - come ho già detto prima - di una città
e di uno Stato, che ciascuno abbia libero e tranquillo possesso dei propri
averi.
79. In questa rovina dello Stato essi non conseguono neppure quella popolarità
che si aspettano. Infatti è loro nemico colui al quale i beni sono stati
strappati; colui al quale è stato elargito, finge anche di non aver mai voluto
accettare, e soprattutto nel caso del condono dei debiti nasconde la sua gioia,
perché non sembri che egli non era stato in grado di pagarli. Ma colui che ha
ricevuto l'ingiustizia, la ricorda e porta ben manifesto il suo risentimento, e,
se sono più quelli ai quali è stato dato ingiustamente di quelli ai quali si è
tolto ingiustamente, non per questo hanno più forza: queste cose non si
giudicano dal numero, ma dalla gravità. E poi quale giustizia c'è nel fatto che
un campo posseduto per molti anni o anche per secoli lo abbia chi non ne ha mai
avuto uno e lo perda chi l'ha sempre avuto?
XXIII. ESEMPII DI INGIUSTIZIA
80. A causa di un'ingiustizia di tal genere gli Spartani cacciarono l'eforo
Lisandro e uccisero il loro re Agide (un tal fatto non era mai accaduto prima
presso di loro) e da quel tempo si susseguirono così grandi discordie che
sorsero i tiranni, gli ottimati furono cacciati e quello Stato così saggiamente
ordinato andò in rovina. E non soltanto esso cadde, ma sconvolse anche tutta la
Grecia con il contagio di quei mali che, partiti dagli Spartani, si diffusero in
più ampio spazio. E che? Forse che le lotte agrarie non furono la rovina dei
nostri Gracchi, figli di quel grande Tiberio Gracco e nipoti dell'Africano?
81. Si loda a buon diritto Arato di Sicione, il quale, poiché la sua città era
soggetta alla tirannide da cinquanta anni, partì da Argo e, introdottosi
clandestinamente in Sicione, s'impadronì della città, e avendo ucciso il tiranno
Nicocle con un colpo di mano improvviso, richiamò i seicento esuli, che erano
stati gli uomini più ricchi della sua città, e ridiede la libertà alla sua
patria col suo intervento. Ma considerando che nel possesso dei beni si
riscontrava una grave difficoltà, perché riteneva assai ingiusto che versassero
in miseria quelli che egli stesso aveva richiamato - ed i cui beni erano
posseduti da altri - e, d'altra parte, non riteneva troppo giusto sovvertire i
possessi di cinquant'anni (per il fatto che in un periodo di tempo così lungo
molti erano occupati con legittimo diritto per eredità o compere o doti),
giudicò che non bisognava togliere i beni a quelli, e che si doveva anche dare
soddisfazione agli antichi proprietari.
82. Avendo, dunque, stabilito che occorreva denaro per sistemare la faccenda,
disse di voler partire per Alessandria, e ordinò che la situazione rimanesse
inalterata sino al suo ritorno. In gran fretta si recò da Tolomeo, che l'aveva
ospitato, e che era allora il secondo re dalla fondazione di Alessandria;
avendogli esposto che voleva liberare la patria ed avendolo informato del
motivo, quell'uomo eccezionale ottenne facilmente dal ricco re che l'aiutasse
con una grande somma di denaro. Portatala a Sicione, chiamò a consiglio intorno
a sé i primi quindici cittadini, coi quali esami no la situazione di coloro che
occupavano i possedimenti degli altri e di coloro che avevano perduto i propri,
e dopo la stima dei possedimenti riuscì a persuadere gli uni che erà preferibile
accettare il denaro e cedere i possedimenti, e gli altri che ritenessero più
vantaggioso essere compensati con una somma ingente in contanti anziché
recuperare la proprietà. Ne conseguì che, ristabilita la concordia, tutti si
allontanarono senza lamentarsi. 83. 0 uomo grande e degno di esser nato nel
nostro Stato! Questo è il modo equo di agire coi cittadini, non, come abbiamo
già visto per due volte, piantare l'asta nel foro e mettere all'incanto i beni
dei cittadini. Ma quel Greco ritenne che si dovesse provvedere a tutti, e questa
fu una decisione degna di un uomo saggio e superiore; in questo consiste la
massima avvedutezza e saggezza di un buon cittadino, nel non eliminare i
vantaggi dei cittadini e nel trattare tutti con la stessa equità. Abitino gratis
nella proprietà altrui. E perche questo? Dopo che - io ho comprato, edificato,
curato e speso, tu godrai del mio senza che io lo voglia? Che altro è se non
strappare agli uni i propri averi e dare agli altri quelli altrui? 84. Queste
nuove tavole che altra funzione hanno se non che tu possa comprare un podere con
i miei soldi, che tu te lo tenga ed io non abbia denaro?
XXIV. LA FIDUCIA, FONDAMENTO DELLO STATO
Perciò bisogna stare attenti a non far debiti che possano nuocere allo Stato;
questo rischio può essere evitato in molti modi, e non già col lasciare che i
ricchi perdano le loro sostanze ed i debitori si arricchiscano col denaro
altrui. E invero nessuna cosa tiene più saldo lo Stato che la fiducia, la quale
non può sussistere se non sarà necessario il pagamento dei debiti. Mai con
maggior decisione si cercò di non pagarli, come sotto il mio consolato; si fece
ogni tentativo con le armi e con gli eserciti, da parte di uomini di ogni genere
e di ogni classe, ai quali io ho resistito si da eliminare tutto il male dello
Stato. Non ci fu mai un debito maggiore e non fu mai pagato meglio e più
facilmente; tolta la speranza di frodare, ne consegui la necessità di frodare.
Ma costui poi vincitore, allora, invero, vinto, fini per realizzare i suoi piani
quando non gli interessavano più per nulla: tanto grande fu in lui il desiderio
di peccare, che lo dilettava il peccare in se stesso, anche se non ve n'era
motivo.
85. Dunque da questo genere di elargizioni, tale che agli uni si dà e si toglie
agli altri, si dovranno astenere coloro che custodiranno lo Stato, e per prima
cosa si impegneranno a che ciascuno abbia il suo, in base alla giustizia del
diritto e dei tribunali, e che i più deboli non siano sopraffatti a causa della
loro umile condizione e che l'invidia non frapponga ostacoli ai ricchi nel
conservare i propri averi o nel recuperarli; inoltre con tutti i mezzi possibili
in guerra e in pace ingrandiscano lo Stato in potere militare, in territorio ed
in entrate. Queste sono azioni di uomini grandi, questi sono i fatti consueti
presso i nostri antenati; coloro che perseguono questi generi di doveri, insieme
ad una grandissima autorità per lo Stato conseguiranno la gratitudine di tutti e
la gloria.
86. Riguardo a questi precetti sull'utile, lo Stoico Antipatro di Tiro, che da
poco è morto in Atene, pensa che Panezio abbia trascurato due temi: la cura
della propria salute e quella del patrimonio. Penso che quel sommo filosofo li
abbia tralasciati per la loro facilità; sono certamente utili. Ma la salute si
mantiene con la conoscenza del proprio corpo, con l'osservazio ne di ciò che
solitamente ci giova o ci nuoce, con la morigeratezza nel vitto e nel
mantenimento del corpo, per conservarlo sano, tralasciati i piaceri, ed infine
con l'attività. professionale di quelli, la cui scienza riguarda queste cose.
87. Il patrimonio familiare si deve ricercare con mezzi dai quali sia lontana la
disonestà, conservare con diligenza e parsimonia e accrescere con gli stessi
mezzi. Senofonte, discepolo di Socrate, trattò tutti questi temi in modo assai
adeguato in quel libro che s' intitola 'Economico', che io tradussi dal Greco in
Latino quando avevo press'a poco la tua età. Ma dell'intera questione relativa
al modo di procurarsi il denaro e di investirlo (e vorrei anche sul modo di
usarlo bene), si discute con maggiore opportunità da parte di certe brave
persone che risiedono presso il Giano di mezzo, che non da parte di alcun
filosofo in una scuola. Tuttavia si devono conoscere; riguardano, difatti,
l'utile, del quale si è trattato in questo libro.
XXV. CONFRONTO TRA DUE COSE UTILI
88. Ma il paragone tra due cose utili - poiché questo era il quarto punto,
tralasciato da Panezio e spesso necessario: infatti si è soliti paragonare i
vantaggi del corpo con quelli esterni [e gli esterni con quelli del corpo] e
quelli stessi del corpo tra di loro, e gli esterni con gli esterni. Si
paragonano i vantaggi fisici con quelli esterni, quando ci si chiede se si
preferisce la salute alla ricchezza, [si paragonano quelli esterni coi corporali
in questo modo, per vedere se è possibile esser ricchi piuttosto che avere una
forza fisica grandissima] e quelli stessi fisici sì da anteporre la buona salute
al piacere, la forza alla rapidità; ed infine il confronto degli esterni, così
da anteporre la gloria alle ricchezze, le imposte delle città a quelle delle
campagne. 89. A questo genere di raffronto appartiene quel detto di Catone il
vecchio: essendogli stato chiesto che cosa giovasse massimamente al patrimonio,
rispose: "Allevare bene il bestiame"; e che cosa, in secondo luogo: "Allevarlo
sufficientemente bene"; e che cosa, in terzo luogo: "Allevarlo male"; che cosa,
in quarto luogo: "Arare". E avendogli detto l'interrogante: "E che, del dare ad
usura?" allora Catone rispose: "E che dell'uccidere un uomo?". Da questo e da
molti altri esempi si deve capire che i paragoni tra le cose utili si fanno
comunemente, e che opportunamente è stato aggiunto questo quarto tipo di
indagine sui doveri. Passeremo, quindi, al resto.
Torna all'inizio
|