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Libro III Traduzione
I.
PROEMIO AL FIGLIO MARCO
1. Catone, che gli fu quasi coetaneo, scrisse che Publio Scipione, quello che
per primo fu soprannominato l'Africano, era solito dire di non essere mai meno
ozioso di quando era ozioso, e mai meno solo di quando era solo. Parole
veramente magnifiche e degne di un uomo grande e saggio; esse dimostrano che nei
periodi di riposo egli pensava agli affari e quando era solo era solito parlare
con se stesso, sicché non gli mancava mai un'occupazione e [talora] non aveva
bisogno di colloquiare con un altro. Cosi queste due situazioni, l'ozio e la
solitudine, che arrecano agli altri fiacchezza, gli erano di stimolo. Vorrei che
fosse lecito dire, con verità, lo stesso di me; ma se posso raggiungere in minor
grado una si grande elevatezza d'ingegno con l'imitazione, certamente con
l'intenzione mi ci avvicino molto di più. Infatti tenuto lontano dalla vita
politica e dagli affari forensi dalla violenza delle armi sacrileghe, sono
costretto a vivere in ozio e per questo motivo, lasciata la città, vagando per i
campi spesso sono solo.
2. Ma né quest'ozio si può paragonare con quello dell'Africano, né questa mia
solitudine con quella; egli, per ricrearsi dagli importantissimi affari dello
Stato, di quando in quando si prendeva un periodo di riposo e dalle assemblee e
dagli affollamenti cittadini si rifugiava talora nella solitudine come in un
porto; il mio ozio, invece, è causato non dal desiderio di riposo, ma dalla
mancanza di affari. Sparito, ormai, il senato e distrutti i tribunali, che cosa
c'è che io possa fare, degno di me, nella curia e nel foro? 3. Pertanto io, che
vissi un tempo assai frequentemente in pubblico e sotto gli occhi dei cittadini,
ora, fuggendo la vista degli sciagurati, dei quali è pieno ogni luogo, mi
nascondo quanto è possibile e spesso sono solo. Ma poiché ho imparato dai
filosofi non solo che tra i mali conviene scegliere i minori, ma anche trarre da
essi stessi ciò che possono contenere di buono, perciò mi avvalgo di questa
tranquillità - non quella, in verità, che dovrebbe avere un uomo che un tempo ha
procurato la tranquillità alla patria - e non mi lascio prostrare da quella
solitudine che mi è imposta dalla necessità, non dalla mia volontà.
4. Comunque l'Africano conseguì, a mio parere, una gloria maggiore. Non resta
alcuna testimonianza scritta del suo ingegno, nessuna opera elaborata nel
periodo di riposo, nessun frutto della sua solitudine. Da ciò si deve arguire
che egli, per il suo fervore intellettuale e per la ricerca di quelle (verità)
che raggiungeva col pensiero, non fu mai ozioso e mai solo; io, invece, che non
ho tanto vigore da astrarmi dalla solitudine con una silenziosa meditazione, ho
rivolto tutto il mio interesse e la mia attenzione a quest'attività dello
scrivere: perciò in poco tempo ho scritto più opere dopo la caduta della
repubblica, che in molti anni, quando essa era in piedi.
II.
LA DOTTRINA DEI DOVERI
5. Ma benché tutta la filosofia, o mio Cicerone, sia utile e fruttuosa, e
nessuna sua parte sia incolta e trascurata, tuttavia nessuna sezione è più
fertile e più ricca di quella che si occupa dei doveri, dalla quale sono dedotti
i precetti di una vita coerente ed onesta. Perciò, pur fiducioso che tu
assiduamente senta ed impari queste cose dal nostro Cratippo, il più insigne dei
filosofi di quest'epoca, tuttavia penso che sia utile che le tue orecchie
risuonino d'ogni parte di tali voci, e, se possibile, non odano alcun'altra
tesi.
6. Tutti coloro che pensano d'iniziare una vita onesta, debbono far questo, e
non so se qualcuno lo debba più di te; tu ti sei sobbarcata la non piccola
responsabilità dell'imitazione della mia attività, il grande impegno di imitare
la mia carriera e la non lieve incombenza di imitare, forse, la mia gloria.
Inoltre ti sei addossato un grave peso nei riguardi di Atene e di Cratippo; e
poiché sei partito alla loro volta come verso un mercato di buone arti, sarebbe
assai vergognoso ritornare a mani vuote, recando disonore al prestigio della
città e del maestro. Perciò con quanto impegno intellettuale puoi, con quanti
sforzi ti adoperi - anche se quella di apprendere è una fatica piuttosto che un
piacere - fa in modo di riuscire e non metterti nelle condizioni di sembrare
d'aver mancato a te stesso, dopo che io ti ho fornito ogni mezzo. Ma su ciò,
basta; infatti molto frequentemente ti ho scritto per esortarti; ora ritorno
all'ultima parte della divisione programmata.
UNA QUESTIONE PRELIMINARE
7. Panezio, dunque, che senza alcun dubbio ha disputato in modo molto preciso
intorno ai doveri, e che io ho seguito in linea di massima, pur avendo apportato
qualche correzione, fissa tre tipi di domande sulle quali gli uomini sono soliti
riflettere e quindi decidere intorno al dovere: la prima, quando si è incerti se
sia onesto o meno ciò di cui si tratta; la seconda se sia utile o no; la terza
concerne il modo in cui ciò che ha l'apparenza dell'onesto contrasti con ciò che
sembra utile. Panezio trattò in tre libri i primi due quesiti, del terzo
scrisse, invece, che ne avrebbe parlato in seguito, ma non mantenne ciò che
aveva promesso; 8. la qualcosa mi meraviglia tanto maggiormente, in quanto il
suo discepolo Posidonio ha scritto che Panezio visse altri trent'anni dopo la
pubblicazione di quei libri. Mi stupisce che la questione sia stata toccata di
sfuggita da Posidonio in certe sue memorie, specialmente perché scrive che in
tutta quanta la filosofia non c'è alcun argomento altrettanto fondamentale. 9.
In verità io non sono per niente d'accordo con quanti affermano che quel punto
non sia stato trascurato da Panezio, ma piuttosto abbandonato di proposito, e
che non lo si dovesse affatto svolgere, perché l'utile non può mai contrastare
con l'onesto; intorno a ciò può sorgere il dubbio, se si dovesse accogliere la
categoria, che nella divisione di Panezio occupa il terzo posto, o si dovesse
omettere del tutto; ma non si può dubitare che la questione sia stata sollevata
da Panezio, ma poi trascurata. 10. Infatti a chiunque abbia svolto due parti su
tre della materia che ha così suddiviso, necessariamente resta la terza parte;
inoltre alla fine del terzo libro egli promette di svolgere in seguito questa
parte. A ciò s'aggiunge come inoppugnabile testimone Posidonio, il quale scrive
anche in una lettera che Publio Rutilio Rufo, che era stato discepolo di Panezio,
soleva dire che, come non si era trovato alcun pittore capace di completare
quella parte nella Venere di Coo che Apelle aveva lasciato incompiuta (infatti
la bellezza del viso toglieva la speranza di imitarla nel resto del corpo), così
quelle parti che Panezio aveva trascurato [e non aveva compiuto] nessuno le
aveva completate a causa dell'eccellenza di quelle che aveva portato a termine.
III.
IL CONFLITTO TRA L'ONESTO E L'UTILE NELLE VARIE DOTTRINE
11. Per questo motivo non si può dubitare delle intenzioni di Panezio; si potrà
forse discutere se a giusta ragione oppure no abbia aggiunto questa terza parte
per trattare a fondo il dovere: infatti, vuoi che l'onesto sia il solo bene,
come ritengono gli Stoici, vuoi che, come sembra ai vostri Peripatetici, ciò che
è onesto sia il sommo bene - sicché tutti gli altri beni posti nell'altre piatto
della bilancia abbiano appena un piccolissimo peso -, non si deve mettere in
dubbio che l'utile non possa mai essere in conflitto con 1'onesto. Perciò
sappiamo che Socrate era solito contestare violentemente quelli che per la prima
volta avevano operato una distinzione teorica tra questi concetti, per natura
collegati tra di loro. In realtà gli Stoici furono talmente d'accordo con lui,
da ritenere che tutto ciò che è onesto è utile, e non è utile ciò che non è
onesto. 12. E se Panezio fosse un uomo tale da affermare che la virtù si deve
praticare proprio perché essa è produttrice di utilità, come quelli che misurano
le cose da desiderare o in base al piacere o in base alla assenza di dolore,
sarebbe possibile per lui affermare che l'utilità contrasta qualche volta con
l'onestà. Ma poiché egli è tale che giudica unico bene ciò che è onesto, e
ritiene che le cose in contrasto con l'onesto, pur con una certa apparenza di
utile, non rendano la vita migliore con il loro apporto, né la rendano peggiore
con la loro mancanza, perciò non sembra che egli avrebbe dovuto introdurre un
discorso di tal genere, nel quale ciò che sembra utile viene messo a paragone
con ciò che è onesto. 13. Infatti ciò che è chiamato dagli Stoici il sommo bene
- il vivere secondo natura - ha questo significato, secondo il mio parere, di
conformarsi sempre alla virtù e a tutte le altre cose che sono secondo natura,
di sceglierle in quanto non siano in contrasto con la virtù. Poiché la questione
sta in tali termini, alcuni ritengono che questa comparazione sia stata
introdotta senza una giusta ragione e che, quindi, non si dovrebbero dare
affatto insegnamenti.
ONESTA' IDEALE E ONESTA' PRATICA
Inoltre quella onestà (ideale), si afferma con giusta proprietà, si trova nei
soli sapienti e non può mai essere disgiunta dalla virtù. In coloro, invece, nei
quali la sapienza non è perfetta, non è in alcun modo perfetta neppure quella
stessa onestà, ma vi possono essere elementi ad essa somiglianti.
14. Questi doveri, appunto, di cui sto trattando in questi libri, gli Stoici li
chiamano mediani (relativi); sono doveri comuni e si estendono in ogni campo, e
molti giungono a conoscerli per mezzo della bontà della loro indole e per
progressiva educazione; invece quel dovere che chiamiamo retto è perfetto ed
assoluto e, come dicono essi stessi, ha tutti i pregi e non si può trovare in
alcun altro tranne che nel sapiente. 15. Quando però si compie qualche azione
nella quale si presentino i doveri di mezzo (relativi), essa sembra
assolutamente perfetta, proprio perché la gente comune in genere non comprende
quanto sia lontana dalla perfezione e, fino al punto in cui arriva la sua
intelligenza, non pensa di aver trascurato niente. L'identica cosa è divenuta
usuale in fatto di poesia, di dipinti e in molti altri campi, sicché i profani
traggono diletto e apprezzano quelle cose che non devono essere apprezzate, per
il motivo - credo - che è insito in esse un qualcosa di onesto, che affascina
gli inesperti, i quali d'altra parte non possono giudicare i difetti propri di
ciascuna opera; perciò, quando sono illuminati da esperti, facilmente cambiano
la loro opinione.
IV.
LA VIRTU' E LA SAPIENZA ROMANA
Questi doveri, dunque, dei quali sto discutendo in questi libri, sono - secondo
gli Stoici - cose oneste di secondo grado, non proprie solamente dei sapienti,
ma comuni a tutto il genere umano. 16. Perciò tutti coloro nei quali vi è una
naturale propensione alla virtù, ne sono attratti. Infatti, quando si ricordano
come uomini coraggiosi i due Deci o i due Scipioni, o quando si dà l'appellativo
di 'giusto' a Fabrizio o ad Aristide, non si richiede un esempio da quelli di
fortezza o da questi di giustizia come da un sapiente; giacché nessuno di questi
fu sapiente a tal punto da corrispondere al nostro modello di sapiente, né
quelli che furono ritenuti e chiamati sapienti, Marco Catone e Gaio Lelio,
furono veramente tali, e neppure i famosi sette, ma dall'applicazione assidua
dei doveri relativi avevano una certa somiglianza e apparenza di sapienti.
17. Per questo non è lecito paragonare con ciò che si oppone all'utile quanto è
veramente onesto, e neppure quanto chiamiamo comunemente onesto, che è praticato
da quelle persone che vogliano esser ritenute oneste, si deve mai paragonare coi
vantaggi materiali; si deve difendere e conservare da parte nostra tanto quell'onesto
che rientra nell'ambito della nostra intelligenza, quanto quello che è detto con
proprietà e verità, onesto da parte dei sapienti; altrimenti non è possibile
conservare gli eventuali progressi compiuti sulla via della virtù. Ma questi
suggerimenti riguardano coloro che sono stimati buoni per l'adempimento continuo
dei loro doveri.
IL VERO UTILE COINCIDE CON L'ONESTO
18. Coloro che, al contrario, misurano ogni cosa in base al guadagno o al
vantaggio personale e non vogliono che l'onestà abbia il sopravvento su ciò,
sono soliti, nel prendere una decisione, mettere a confronto l'onesto con ciò
che ritengono utile, mentre gli uomini onesti non sono soliti farlo. Perciò
ritengo che Panezio, quando ha detto che gli uomini sono soliti esitare in
questo confronto, abbia inteso proprio questo che ha detto, cioè che 'sono
soliti' solamente, e non anche 'debbono'. Infatti è oltremodo immorale non solo
stimare di più ciò che sembra utile di ciò che è onesto, ma anche paragonare
questi concetti tra di loro ed avere dei dubbi in proposito. Ma che cos'è,
dunque, ciò che talvolta ci suole far dubitare e ci sembra degno di
considerazione? Credo, se qualche volta sorge il dubbio, che esso riguardi la
natura delle cose su cui si riflette. 19. Spesso, infatti, accade che, mutate le
circostanze, ciò che siamo soliti stimare per lo più immorale, si trova che non
è tale. Per esempio, si ponga un caso che è suscettibile della più ampia
applicazione. Quale delitto può essere più grande dell'uccidere non solo un
uomo, ma anche un intimo amico? Forse qualcuno si rende colpevole di un delitto,
se uccide un tiranno, anche se suo intimo amico? Ciò non sembra al popolo
romano, che anzi considera quell'azione la più bella tra tutte le altre
illustri. L'utile, dunque, ha prevalso sull'onesto? No; anzi, l'utile ha seguito
l'onesto.
IL CRITERIO DELLA VERA UTILITA'
Perciò, per poter distinguere senza ombra di errore, quando talora ci sembra che
quanto chiamiamo utile contrasti con quanto riteniamo onesto, occorre stabilire
una norma tale da non allontanarci mai dall'onesto se noi l'applicheremo nel
mettere a confronto le azioni.
20. Questa norma sarà pienamente conforme alle teorie della dottrina Stoica: e
la seguiamo in questi libri per il fatto che, sebbene anche gli antichi
Accademici e i vostri Peripatetici, che una volta erano tutt'uno con gli
Accademici, antepongano ciò che è onesto a ciò che sembra utile, tuttavia questi
argomenti sono trattati in maniera molto più elevata da quelli che identificano
l'utile con l'onesto e negano che sia utile ciò che non è onesto, anziché da
quelli secondo i quali qualche cosa onesta non è utile e qualche cosa utile non
è onesta. Quanto a noi, la nostra Accademia ci dà ampie possibilità di
difendere, a pieno diritto, qualsiasi tesi ci si presenti in sommo grado
probabile. Ma ritorno alla norma.
V.
LA LEGGE NATURALE
21. Dunque, che un uomo sottragga qualcosa ad un altro e aumenti il proprio
vantaggio con lo svantaggio di un altro è contro natura più della morte, della
povertà, del dolore e di tutti gli altri mali che possono accadere al corpo o ai
beni esterni: ciò infatti mina alle basi la convivenza umana e la società: [se
infatti saremo così disposti da spogliare o violare un altro a causa del suo
guadagno, di necessità si disgrega quella che è soprattutto secondo natura, cioè
il legame tra gli uomini]. 22. Come se ciascun membro (umano) avesse una tale
sensibilità, da pensare di poter star bene, coll'aver tratto a sé la salute del
membro più vicino, sarebbe necessariamente indebolito e perirebbe l'intero
corpo, così, se ciascuno di noi si appropriasse dei profitti degli altri e
sottraesse quanto gli fosse possibile a ciascuno per il proprio guadagno, la
società umana e la comunità necessariamente sarebbero sovvertite. Infatti che
ciascuno preferisca acquistare per sé ciò che riguarda l'uso della vita anziché
per un altro, lo si è ammesso, poiché non si oppone la natura; ma la natura non
sopporta che con le spoglie degli altri aumentiamo le nostre sostanze, ricchezze
e potenza.
IL DIRITTO POSITIVO
23. E d'altra parte questo non è stato stabilito solamente dalla natura, cioè
dal diritto delle genti, ma anche dalle leggi dei popoli, sulle quali si fonda
lo Stato nelle singole città, perché non sia permesso nuocere ad altri per il
proprio vantaggio. A questo, infatti, mirano le leggi, questo è il loro scopo,
che sia salva ed integra l'unione dei cittadini, e puniscono coloro che la
rompono con la morte, l'esilio, la prigione e le multe. E questo principio è
molto più un prodotto della stessa razionalità naturale, che è legge divina ed
umana; colui che volesse obbedirgli (in verità dovranno obbedire tutti gli
uomini che vivono secondo natura) non si renderà mai colpevole di desiderare la
proprietà altrui e di prendere per sé ciò che abbia sottratto ad altri.
LE VIRTU' SOCIALI
24. Infatti sono molto di più secondo natura l'elevatezza d'animo e la
grandezza, ed ugualmente l'affabilità, la giustizia, la generosità, che non il
piacere, la vita e le ricchezze: è proprio di un animo grande ed elevato
disprezzare questi beni e ritenerli cose di nessun valore a confronto dell'utile
comune. [Sottrarre, invece, ad un altro a causa del proprio vantaggio è più
contro natura della stessa morte, del dolore e delle altre calamità simili.]
25. Allo stesso modo è più secondo natura, per conservare ed aiutare - se
possibile - tutte le genti, sobbarcarsi le più grandi fatiche e disagi, ed
imitare il famoso Ercole, che la fama degli uomini, memore dei benefici
ricevuti, collocò nel consesso degli dei; è molto meglio, dunque, tutto questo
che vivere in solitudine non solo senza alcun affanno, ma anche tra i più
raffinati piaceri, ricchi di ogni sorta di beni, sì da eccellere anche in
bellezza ed in forza. Perciò ogni persona fornita di un'indole assai nobile e
superiore, preferisce di gran lunga quella vita a questa; da ciò si deduce che
l'uomo che obbedisca alla natura non può nuocere ad un altro uomo.
26. Inoltre colui che fa del male ad un altro per conseguire qualche vantaggio,
o ritiene di non far niente contro natura o giudica che si debbano piuttosto
tenere a distanza la morte, la povertà, il dolore, la perdita anche dei figli,
dei parenti, degli amici, anziché recare offesa a qualcuno. Se crede di non
compiere niente contro natura col far violenza agli uomini, a che pro discutere
con una persona che sopprime completamente l'umanità nell'uomo? Se invece pensa
che si debba evitare ciò, ma che siano molto peggiori i mali, come la morte, la
povertà, il dolore, sbaglia in questo, che ritiene più gravi dei difetti
dell'animo quelli riguardanti il corpo o la fortuna.
VI.
LA LEGGE NATURALE ABBRACCIA TUTTO IL GENERE UMANO
Uno solo, dunque, deve essere lo scopo di tutti: che coincida l'utile
individuale con quello di tutti, in quanto se ciascuno se lo arrogherà, tutta la
società umana andrà in frantumi.
27. E anche se la natura prescrive che l'uomo provveda ad un altro uomo,
qualunque esso sia, per il fatto stesso che è uomo, ne consegue necessariamente,
secondo la stessa legge di natura, che l'utilità di ogni individuo coincide con
quella comune. E se le cose stanno così, noi tutti siamo regolati da un'unica e
medesima legge di natura, e se è proprio cosi, certamente la legge di natura ci
proibisce di far violenza ai nostri simili.
28. Vera la premessa, vera, dunque, la conseguenza. Infatti è certamente assurda
quella frase che dicono alcuni, che essi non sottrarrebbero nulla al padre,o al
fratello per il proprio vantaggio, ma che diverso è il criterio da seguire nei
riguardi degli altri cittadini. Costoro pensano di non avere alcun vincolo
giuridico o sociale, a causa dell'utile, con i propri concittadini, opinione,
questa, che disintegra ogni società umana. Coloro, poi, i quali affermano che si
deve avere considerazione per i concittadini, ma non per i forestieri, spezzano
il comune vincolo sociale del genere umano, soppresso il quale, la beneficenza,
la generosità, la bontà e la giustizia sono sradicate sin dalle fondamenta; e
coloro che distruggono queste virtù devono essere giudicati empi anche verso gli
dei immortali. Abbattono, infatti, proprio quella società stabilita dagli dei
tra gli uomini, società il cui vincolo più saldo consiste nel ritenere che sia
più contro natura che l'uomo sottragga all'uomo per il proprio vantaggio,
piuttosto che subisca ogni danno o esterno o fisico o anche morale * * * che
mancano di giustizia: infatti questa sola è la signora e la regina di tutte le
virtù.
29. Forse qualcuno potrebbe dire: un sapiente, nel caso che fosse oppresso dalla
fame, non potrebbe sottrarre del cibo ad un altro uomo, che non gli è di alcuna
utilità? [Nient'affatto, perché la mia vita non è per me più utile di una tale
disposizione dell'animo, e cioè di non far violenza ad alcuno per un mio
vantaggio personale.] E allora? Se un uomo onesto, per non morire di freddo,
potesse spogliare del vestito Falaride, tiranno crudele e disumano, forse che
non lo farebbe?
30. Per questi interrogativi è assai facile trovare una risposta: infatti se tu
avessi sottratto qualcosa ad un uomo che non è di alcuna utilità per il tuo
particolare vantaggio, avresti compiuto un'azione disumana e contraria alla
legge di natura; se invece tu fossi tale da poter apportare molto giovamento
allo Stato e alla società umana, rimanendo in vita, se sottraessi ad un altro
per quel motivo non saresti da biasimare; ma se invece la motivazione non è di
tal genere, ciascuno deve sopportare la propria situazione di svantaggio
piuttosto che sottrarre qualcosa dai vantaggi di un altro. Non sono, dunque,
contro natura la malattia, la povertà o altri mali simili, più che il sottrarre
o il desiderare le cose altrui, ma è contro natura il trascurare l'utilità
generale, perché è ingiusto. 31. Così sarà la stessa legge naturale, che
conserva e assicura il benessere generale, a stabilire senza dubbio che i beni
necessari alla vita siano passati dall'uomo incapace ed inutile all'uomo
sapiente, buono e coraggioso, che, morendo, sottrarrà molto all'utilità
generale, purché costui, avendo un alto concetto di sé ed amando troppo se
stesso, non tragga da ciò il pretesto per compiere un'ingiustizia. Si compirà
sempre il proprio dovere, provvedendo all'utilità degli uomini ed a quella
società umana, che io spesse volte ricordo.
32. Per ciò che riguarda, difatti, l'esempio di Falaride, la risposta è assai
facile; non sussiste per noi alcun rapporto sociale coi tiranni; piuttosto vi è
un estremo distacco; non è contro natura - se è possibile - spogliare dei suoi
beni colui che è addirittura onesto uccidere, e tutto questo genere pestifero ed
empio deve essere sterminato dalla comunità umana. Infatti come si amputano
certe membra, se esse cominciano a mancare di sangue e quasi di vita e nuocciono
alle altre parti del corpo, cosi questa belva feroce e selvaggia dall'aspetto
d'uomo deve essere allontanata, per cosi dire, dal corpo comune dell'umanità. Di
tal genere sono tutte quelle questioni, nelle quali si studia il dovere in
rapporto alle circostanze.
VII.
CONCLUSIONE E PREMESSA
33. Io credo, dunque, che Panezio avrebbe trattato simili questioni, se qualche
evento o qualche occupazione non gli avessero impedito l'esecuzione di questo
suo progetto. Per queste stesse questioni dai libri precedenti si deducono
numerosi consigli, in base ai quali si può distinguere quale azione sia da
evitare per la sua disonestà, e quale non si debba evitare proprio perché non è
del tutto vergognosa. Ma poiché all'opera incominciata e quasi portata a termine
sto per porre, per così dire, il tetto, come i geometri sono soliti non
dimostrare ogni affermazione, ma chiedere che alcune siano loro concesse perché
più facilmente possano spiegare il loro assunto, così io ti chiedo, o mio
Cicerone, di concedermi, se lo puoi, questo, che non si deve desiderare niente
di per se stesso tranne ciò che è onesto. Se invero ciò non ti è permesso,
perché contrasta con le teorie di Cratippo, mi concederai sicuramente questo,
che l'onesto si deve desiderare soprattutto per se stesso. A me basta o l'uno o
l'altro; ed ora questo ora quello mi pare più probabile, ed inoltre non mi pare
probabile alcun altro postulato.
34. In primo luogo a questo proposito bisogna appoggiare Panezio, perché egli
non ha affermato che l'utile possa contrastare talvolta con l'onesto - e non gli
era lecito dire ciò - ma che possono contrastare con l'onesto quelle cose che
hanno l'apparenza dell'utile. In verità spesso dichiara che non c'è niente di
utile che non sia pure onesto, e niente di onesto che non sia pure utile, e dice
che nessun male ha colpito maggiormente la vita degli uomini che la dottrina di
quanti hanno distinto questi concetti. Perciò non per anteporre talvolta l'utile
all'onesto, ma per giudicare, senza incorrere in errore, le cose utili - nel
caso che qualche volta ciò accadesse - introdusse nel suo discorso quel
contrasto apparente, ma non reale. Esporrò, dunque, quest'ultima parte, senza
alcun aiuto, ma, come si dice, con le mie sole armi: infatti, dopo Panezio, non
è stato formulato nulla, intorno a questa parte, che possa ottenere il mio
consenso tra gli scritti che sono capitati nelle mie mani.
VIII.
ONESTA' E UTILITA'
35. Quando, dunque, ci si presenta qualche cosa apparentemente utile,
inevitabilmente ne siamo impressionati; ma se, riflettendo, si vede la disonestà
intrinsecamente legata a ciò che aveva l'apparenza dell'utilità, allora non è
l'utile che si deve abbandonare, ma si deve comprendere che non vi può essere
utilità là dove c'è la disonestà. Se non vi è niente tanto contro natura quanto
la disonestà (la natura, infatti, richiede rettitudine, armonia, coerenza e
disprezza il contrario di queste qualità), e niente è tanto conforme a natura
quanto l'utile; ne consegue che dove c'è l'utile non può esserci la disonestà.
Allo stesso modo, se siamo nati per l'onestà e quella sola deve essere l'oggetto
delle nostre aspirazioni - come sembrò a Zenone o almeno deve esser ritenuta più
importante di ogni altra cosa - secondo il pensiero di Aristotele -,
necessariamente l'onesto o è il solo o è il sommo bene, e sicuramente ciò che è
onesto è utile, e così qualsiasi azione onesta è anche utile.
36. Perciò questo è l'errore degli uomini non onesti, che, quando si
impadroniscono di qualche cosa che abbia l'apparenza dell'utile, subito la
scindono dall'onesto. Di qui nascono i pugnali, i veleni, i falsi testamenti, di
qui i furti, i peculati, le spogliazioni e le depredazioni degli alleati e dei
concittadini, di qui sorge la cupidigia di eccessive ricchezze e di
intollerabile potere e, infine, anche la bramosia di regnare nelle libere città,
bramosia di cui niente si può immaginare di più infame e deprecabile. Essi
vedono, infatti, con il loro erroneo giudizio il guadagno, e non il castigo, non
dico quello delle leggi, che spesso riescono a spezzare, ma quello della stessa
disonestà, che è assai aspro. 37. Si tolgano, perciò, di mezzo tutte queste
persone - giacché sono tutte scellerate ed empie - che si pongono il problema se
seguire quello che vedono essere onesto o macchiarsi scientemente di un delitto;
nello stesso dubbio è insita la colpa, anche se essi non vi sono giunti. Non
bisogna, dunque, decidere nemmeno su argomenti il cui esame stesso è disonesto.
IX.
Ugualmente in ogni decisione bisogna tener lontana la speranza e la convinzione
di potersi nascondere e celarsi. Dovremmo essere abbastanza convinti, se pure
abbiamo fatto qualche progresso nello studio della filosofia, che, pur potendo
tenere all'oscuro tutti gli dei e gli uomini, ciò nonostante non dobbiamo
compiere niente per desiderio di guadagno, niente con ingiustizia, niente per
passione o smoderatezza.
38. Di qui trae l'origine il noto aneddoto di Gige introdotto da Platone:
essendosi la terra spaccata per certe grandi piogge, Gige scese in quella
voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, che aveva ai
fianchi delle porte; dopo averle aperte scorse il corpo di un uomo morto di
grandezza mai vista, con un anello d'oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi
si recò all'adunanza dei pastori (era, intatti, pastore del re); lì, ogni volta
che volgeva il castone dell'anello verso la palma della mano, diveniva
invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava
nuovamente visibile quando rimetteva l'anello al suo posto. E così, servendosi
dei poteri concessigli dall'anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto
uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e
nessuno potè scorgerlo mentre compiva questi delitti; così, tutto ad un tratto,
grazie all'anello divenne re della Lidia. Se, dunque, il sapiente avesse questo
stesso anello, penserebbe che non gli fosse lecito peccare più che se non
l'avesse; i galantuomini, difatti, cercano l'onestà, non la segretezza.
39. A questo proposito taluni filosofi, niente affatto mediocri, ma non
abbastanza acuti, affermano che Platone ha riferito un aneddoto falso ed
immaginario, quasi che egli sostenesse che ciò fosse avvenuto o potrebbe essere
avvenuto. Ecco il significato di questo anello e di questo esempio: se nessuno
dovesse venire a saperlo e non dovesse neppure sospettarlo, tu, compiendo
qualche azione per desiderio di ricchezza, di potenza, di dominio, di piacere,
lo faresti, se ciò fosse destinato a rimanere ignoto per sempre agli dei e agli
uomini? Negano questa possibilità. Non è assolutamente possibile, ma io domando
che cosa farebbero se fosse possibile ciò che essi dicono impossibile. Insistono
in una maniera veramente da zotici; dicono, infatti, che non è possibile,
rimangono su questa posizione e non scorgono il significato di queste mie
parole. Quando domandiamo, che cosa farebbero se lo potessero celare, non
domandiamo se possano celarlo, ma adoperiamo nei loro confronti - per così dire
- degli strumenti di tortura, perché, se rispondessero che, sotto assicurazione
d'impunità, farebbero quanto loro conviene, ammettano implicitamente d'essere
dei malfattori, se invece lo negassero, ammettano che tutte le azioni turpi
debbono essere evitate di per se stesse. Ma ritorniamo, ormai, all'argomento.
X.
CONFLITTO TRA L'UTILE E LA GIUSTIZIA
40. Si presentano spesso molte cause che turbano l'animo con l'apparenza
dell'utile, non quando ci si chiede se si debba abbandonare l'onestà per le
dimensioni dell'utilità - giacché questo è disonesto -, ma se si possa compiere
in modo non disonesto ciò che sembra utile. Quando Bruto destituiva dalla sua
carica il collega Collatino, poteva sembrare che, cosi facendo, si comportasse
ingiustamente, perché egli, al periodo della cacciata della monarchia, era stato
compagno di disegni e aiutante di Bruto. Ma poiché i capi presero la decisione
di eliminare i parenti del Superbo e persino il nome dei Tarquini insieme al
ricordo dei regno, quello che era utile, cioè il provvedere al bene della
patria, era anche onesto, sì che Collatino stesso doveva approvarlo. E così
l'utilità prevalse per la sua onestà, in assenza della quale non sarebbe stata
possibile l'esistenza della utilità stessa.
41. Ma nel caso del re fondatore della città la cosa andò diversamente; il suo
animo fu spinto dall'apparenza dell'utile: poiché gli era sembrato più utile
regnare da solo piuttosto che con un altro, uccise il fratello. Egli mise da
parte affetto ed umanità, per poter conseguire quanto sembrava utile e non lo
era, e tuttavia tirò in ballo il pretesto del muro, un'apparenza d'onestà né
approvabile né abbastanza idonea. Commise, dunque, una colpa, potrei dirlo con
buona pace di Quirino o di Romolo.
42. Non dobbiamo, tuttavia, trascurare i nostri interessi e affidarli agli
altri, quando noi stessi ne abbiamo bisogno, ma ciascuno deve preoccuparsi della
propria utilità, se ciò avviene senza recare ingiustizia ad altri. Dice bene
Erisippo, come al solito:
"Chi corre nello stadio, deve sforzarsi e lottare quanto più gli è possibile per
vincere, ma non deve assolutamente sgambettare o allontanare con la mano il suo
rivale: allo stesso modo nella vita non è ingiusto che ciascuno ricerchi ciò che
riguarda le sue necessità, ma non è consentito sottrarlo ad un altro".
LA REGOLA MORALE DELL'AMICIZIA
43. In modo particolare, poi, c'è confusione tra i doveri nelle amicizie, perché
è contrario al dovere non concedere agli amici quello che si potrebbe dare
giustamente e concedere loro quanto non sarebbe giusto. Ma per tutta questa
specie di casi c'è una regola breve e semplice: ciò che sembra utile, onori,
ricchezze, piaceri ed altre cose simili, non deve essere mai anteposto
all'amicizia. Ma un uomo onesto non compirà mai, per un amico, un'azione
contraria allo Stato o a un giuramento o alla parola data, neanche se dovrà
giudicare lo stesso amico, perché nell'indossare i panni di giudice deporrà
quelli di amico. Concederà solo all'amicizia di preferire che la causa
dell'amico sia giusta, di accordargli, entro i limiti della legge, il tempo
occorrente per difendere la sua causa.
44. Quando, però, dovrà pronunziare la propria sentenza sotto giuramento, si
ricordi che prende a testimone la divinità, cioè, come io penso, la sua
coscienza, della quale niente di più divino il dio stesso ha dato agli uomini.
Pertanto ci è stata tramandata dai nostri antenati una formula bellissima, se ad
essa ci attenessimo, per chiedere al giudice "quello che egli possa fare, senza
turbare la sua coscienza". Questa richiesta riguarda quello che, poco fa, ho
detto che poteva essere concesso onestamente da un giudice all'amico; giacché se
si dovesse fare tutto ciò che vogliono gli amici, non tali dovrebbero ritenersi
le amicizie, ma congiure. 45. Parlo delle amicizie comuni; tra gli uomini saggi
e perfetti non può esserci, nulla di simile. Si dice che i Pitagorici Damone e
Finzia furono talmente legati tra di loro che, avendo il tiranno Dionisio
fissato il giorno dell' esecuzione per uno di essi, e avendo il condannato a
morte chiesto pochi giorni per affidare i suoi alle cure di qualcuno, l'altro si
fece garante della comparizione dell'amico, con la condizione che, se questi non
fosse ritornato, egli sarebbe stato ucciso; l'amico tornò il giorno stabilito, e
Dionisio, pieno d'ammirazione per la loro lealtà, chiese d'essere ammesso nella
loro amicizia come terzo.
46. Quando, dunque, si mette a confronto nell'amicizia ciò che sembra utile con
ciò che è onesto, venga meno l'apparenza dell'utile e prevalga l'onestà; quando,
invece, nell'amicizia saranno richieste cose che non sono oneste, la coscienza e
la lealtà siano preposte all'amicizia. Così verrà fatta quella scelta dei
doveri, su cui si sta indagando.
XI.
LA POLITICA E L'ETICA
Ma spesso, nel governo dello Stato, si commettono errori sotto un'apparenza di
utilità, come fecero i nostri nella distruzione di Corinto; ancor più duramente
si comportarono gli Ateniesi, che decretarono il taglio del pollice per gli
Egineti, forti sul mare. Questo parve utile, perché Egina, per la sua vicinanza,
minacciava troppo il Pireo. Ma niente che sia crudele è utile; la crudeltà,
difatti, è in particolar modo nemica della natura umana, che noi dobbiamo
seguire.
47. Agiscono male anche coloro che vietano agli stranieri di godere dei vantaggi
della città e li bandiscono, come fece Panno presso i nostri antenati e Papio
recentemente. E' giusto, difatti, che non sia lecito che venga attribuito il
titolo di cittadino a chi non lo è, in base alla legge proposta da Crasso e
Scevola, saggissimi consoli ; ma è del tutto incivile proibire agli stranieri di
godere dei vantaggi della città. Belli sono quei casi in cui l'apparenza della
utilità pubblica non è tenuta in alcun conto di fronte all'onestà. Il nostro
Stato è pieno di frequenti esempi in molte occasioni e specialmente nella
seconda guerra punica: dopo la disfatta di Canne mostrò un coraggio maggiore di
quanto ne avesse dimostrato nei periodi favorevoli; nessun segno di timore,
nessuna parola di pace. La forza dell'onesto è tale da oscurare l'apparenza
dell'utilità.
48. Quando gli Ateniesi non erano in grado di sostenere l'assalto dei Persiani e
stabilirono di abbandonare la città, dopo aver lasciato le mogli e i figli a
Trezene, e di salire sulle navi per difendere con la flotta la libertà della
Grecia, lapidarono un certo Cirsilo, che li invitava a rimanere in città e ad
accogliere Serse. Sembrava che egli avesse come obiettivo l'utilità, ma essa era
inesistente, perché l'onestà le si opponeva.
49. Temistocle, dopo la vittoria nella guerra contro i Persiani, disse
nell'assemblea di avere un consiglio salutare per lo Stato, ma che non era
opportuno venisse conosciuto: chiese che il popolo gli desse qualcuno da rendere
partecipe di tale consiglio: venne designato Aristide. Egli gli disse che si
poteva incendiare di nascosto la flotta spartana, all'ancora a Giteo, cosa che
avrebbe inevitabilmente infranto le risorse degli Spartani. Dopo che Aristide
ebbe udito ciò, si recò nell'assemblea tra l'aspettazione generale e disse che
il consiglio di Temistocle era utilissimo ma per nulla onesto. Così gli Ateniesi
non ritennero neanche utile ciò che non era onesto e dietro consiglio di
Aristide rifiutarono un progetto che neppure conoscevano. Meglio essi di noi,
che lasciamo sani e salvi i pirati e riscuotiamo tributi dagli alleati.
XII.
CASI TIPICI DI CONFLITTO TRA ONESTA' E UTILITA'
Sia ben chiaro, dunque, che quanto è immorale non può mai essere utile, neppure
quando si consegue ciò che si crede utile; è, difatti, dannoso persino lo
stimare utile ciò che è immorale. 50. Ma, come ho detto sopra, vi sono dei casi
in cui l'utilità sembra in conflitto con l'onestà, cosicchè occorre considerare
se sia veramente in contrasto o possa venire identificata con l'onestà. Ecco i
problemi di questo tipo: se, per esempio, un uomo onesto avesse importato da
Alessandria a Rodi una grande quantità di frumento in un periodo di miseria e di
carestia dei Rodiesi e di prezzi altissimi, e venisse a sapere che parecchi
mercanti sono salpati da Alessandria e, lungo la rotta, avesse visto navi
cariche di frumento dirigersi verso Rodi, dovrebbe dirlo ai Rodiesi o, tacendo,
dovrebbe vendere al prezzo più alto il suo frumento? Immaginiamo un uomo saggio
e onesto e ci poniamo il problema delle decisioni e delle considerazioni di lui,
che non vorrebbe lasciare all'oscuro i Rodiesi, se ritenesse ciò un'azione
vergognosa, ma potrebbe essere in dubbio se la cosa sia deprecabile o no.
51. In casi simili diversa è l'opinione di Diogene di Babilonia, stoico
importante e serio, e di Antipatro, suo discepolo, uomo di straordinaria
acutezza: secondo Antipatro bisogna dichiarare tutto, perché il compratore non
ignori nulla che sia noto al venditore; secondo Diogene occorre che il venditore
riveli i difetti, limitatamente alle prescrizioni del diritto civile, tratti il
resto senza frode e, dal momento che vende, cerchi di vendere al prezzo più
vantaggioso. "Ho importato la merce, l'ho esposta, la vendo a un prezzo non
maggiore degli altri, forse anche minore, poiché ne ho una quantità più grande.
A chi faccio torto? " Insorge dall'altra parte il ragionamento di Antipatro: 52.
"Che dici? Tu, che dovresti preoccuparti degli uomini e dedicarti alla società
umana, tu che sei nato sotto questa legge ed hai questi principi naturali, ai
quali devi obbedire e conf ormarti, e cioè che il tuo utile sia l'utile comune e
per converso l'utile comune sia il tuo, tu nasconderai agli uomini il vantaggio
e l'abbondanza che si presentano loro?" Diogene risponderà, forse, così: "Una
cosa è nascondere e un'altra tacere; e io non ti nascondo, adesso, se non te lo
dico, quale sia la natura degli dei, quale il sommo bene, cose che, una volta
conosciute, ti gioverebbero di più del sapere il basso prezzo dei grano. Ma non
è necessario che io ti dica tutto ciò che a te è utile ascoltare". 53. "Anzi, [ríbatterà
quello], è necessario, se pure ti ricordi che tra gli uomini c'è, per natura, un
vincolo sociale". "Me ne ricordo", dirà l'altro, "ma questa società è forse tale
che nulla appartenga più privatamente a ciascuno? Se cosi fosse, non
bisognerebbe neppure vender nulla, ma donare".
XIII.
LA RETICENZA
Puoi constatare che in tutta questa discussione non si dice. "Benché ciò sia
vergognoso, pure, dal momento che è utile, lo farò" ma (da parte dell'uno) che è
utile così da non essere vergognoso, da parte dell'altro che non si deve fare
perché è immorale.
54. Un galantuomo vende una casa per dei difetti a lui noti e ignoti agli altri;
la casa è malsana ma la si ritiene salubre, si ignora che in tutte le stanze
saltano fuori dei serpenti, è costruita con materiale cattivo ed è in sfacelo,
ma tutto questo non lo sa nessuno, tranne il padrone; io chiedo: se il venditore
non dicesse questo ai compratori e vendesse la casa ad un prezzo molto più alto
di quanto si sarebbe aspettato, compirebbe un'azione ingiusta e disonesta?
"Certo" dice Antipatro. "Che altro è il non indicare la via a chi sta vagando -
cosa punita in Atene con la pubblica esecrazione - se non questo, lasciare che
il compratore agisca sconsideratamente e per questo errore cada in una
gravissima frode? E', anzi, di più che il non mostrare la strada, perché è
indurre consapevolmente un altro in errore ". 55. E Diogene di rimando: "Ti ha
costretto forse a comprare, chi non ti ha neanche esortato a farlo? Quello l'ha
messa in vendita, perché non gli piaceva, tu l'hai comprata, perché ti piaceva.
Se quanti mettono in vendita una villa come bella e ben costruita non vengono
ritenuti frodatori, anche se la villa non è né bella né ben costruita, molto
meno dovrebbero esserlo considerati coloro che non hanno decantato i pregi della
casa. Quando, difatti, la decisione è lasciata al compratore, quale potrebbe
essere la frode del venditore? Se, poi, non bisogna mantenere tutto quello che è
stato detto espressamente, pensi che si debba mantenere ciò che non è stato
detto espressamente? E che c'è, poi, di più sciocco del fatto che il venditore
elenchi i difetti della sua merce, e che cosa di più assurdo, se il banditore,
per ordine del padrone, andasse gridando: vendo una casa malsana"? 56. Così,
dunque, in taluni casi dubbi da una parte si difende l'onestà, dall'altra si
parla dell'utile in modo tale che non solo è onesto fare, ma anzi è vergognoso
non fare quanto sembra utile. E' questo il conflitto che sembra sorgere
frequentemente tra l'utile e l'onesto. Bisogna risolvere questi casi, che
abbiamo esposti non per porre domande, ma per poterli spiegare.
57. Non sembra che né quel mercante di grano ai Rodiesi né questo venditore
della casa agli acquirenti avrebbero dovuto nascondere nulla. Nascondere non
significa, difatti, tacere tutto ciò che sai, ma volere che ignorino quello che
tu sai, per tuo guadagno, quanti avrebbero interesse a saperlo. Chi non vede
quale sia e caratteristico di quale uomo questo modo di celare? Certo non è
proprio di un uomo leale, schietto, nobile, giusto, buono, ma piuttosto di un
uomo scaltro, dissimulatore, astuto, ingannatore, malizioso, sagace,
furbacchione ed abile. Che utilità c'è a tirarsi addosso tanti ed altri ancor
più numerosi appellativi di difetti?
XIV.
LA MENZOGNA E IL RAGGIRO
58. E se è da biasimare chi tace, come devono esser giudicati quanti sono soliti
servirsi di discorsi ingannevoli? Gaio Genio, cavaliere romano, uomo non privo
di spirito e abbastanza colto, essendosi recato a Siracusa per trascorrervi un
periodo di vacanza, come lui stesso era solito dire, e non per e oncludere af
fari, andava dicendo di voler comprare una villetta dove potesse invitare gli
amici e divertirsi senza essere disturbato da importuni. Essendosi diffusa la
notizia, un certo Pizio, banchiere a Siracusa, gli disse che non aveva ville da
vendere, ma che Canio poteva servirsi della sua, se voleva, come se gli
appartenesse, e contemporaneamente lo invitò a cena in villa per il giorno dopo.
Avendogli Canio promesso di venire, Pizio che, in qualità di banchiere, godeva
credito presso tutte le categorie di persone, chiamò a sé dei pescatori, chiese
loro di pescare il giorno dopo di fronte alla sua villa, e disse quanto
desiderava che essi facessero. Canio venne puntualmente per la cena; il
banchetto era stato imbandito puntualmente da Pizio, davanti agli occhi si
presentava una moltitudine di barche e ogni pescatore portava, a turno, ciò che
aveva preso; i pesci venivano gettati ai piedi di Pizio. Allora Canio: "Di
grazia" disse "?" 59. E quello, disse "Tutti i pesci di Siracusa stanno qui, qui
vengono a rifornirsi d'acqua, non possono fare a meno di questa villa". Canio,
preso dal desiderio, chiese insistentemente a Pizio che gli vendesse la villa.
Sulle prime quello faceva il difficile. Che motivo c'è di dilungarsi? Ottiene il
suo scopo: quell'uomo bramoso e ricco compra la villa al prezzo richiesto da
Pizio e la compra con tutto l'arredamento, registra la vendita e l'affare è
concluso. Canio invita il giorno dopo i suoi amici; arriva per tempo, ma non
vede neanche una barca. Chiese al vicino più prossimo se ci fossero festività
dei pescatori, dato che non ne vedeva nessuno. "A quanto ne so io, no" risponde
quello "ma qui, di solito, non viene a pescare nessuno; perciò ieri mi stupivo
di quanto fosse accaduto". 60. Canio montò in bestia, ma che avrebbe potuto
fare? A quel tempo Gaio Aquilio, mio amico e collega, non aveva ancora proposto
le norme relative alla frode, in cui, essendogli chiesto che cosa fosse la
frode, rispondeva che essa si verifica quando si finge una cosa e se ne fa
un'altra. Una definizione magnifica, com'è naturale in un uomo esperto in
definizioni. Così sia Pizio che tutti coloro, i quali fanno una cosa e ne
simulano un'altra, sono perfidi, malvagi, maligni. Nessuna loro azione può
risultare utile dal momento che è viziata da tanti difetti.
XV.
LA FRODE E' PUNITA DALLA LEGGE
61. Se è vera la definizione di Aquilio, bisogna bandire dalla vita intera la
simulazione e la dissimulazione; di conseguenza il galantuomo non simulerà o
dissimulerà nulla né per comprare né per vendere meglio. Ma questa frode cadeva
anche sotto le sanzioni delle leggi (ad esempio la tutela incorreva nelle
sanzioni delle dodici tavole, la circonvenzione dei minorenni in quelle della
legge Pletoria) e dei processi su reati non menzionati dalle leggi, in cui si
aggiunge la formula "secondo coscienza". Degli altri processi sono notevoli, in
modo particolare, queste formule: in questioni relative alla dote della moglie
"più buono più equo", in materia concernente la cessione fiduciaria "come si
dave agire tra uomini onesti". E che, dunque? Forse nella formula "ciò che più
buono più equo" può esserci frode? Oppure quando si dice "come si deve agire tra
uomini onesti", si può, compiere qualche cosa con l'inganno o la malizia? La
frode, come dice Aquilio, consiste nella simulazione; bisogna, quindi, eliminare
ogni menzogna nel contrarre impegni; il venditore non farà intervenire un finto
offerente che giuochi al rialzo. né il compratore uno che giuochi al ribasso.
Entrambi, se si giungerà alla dichiarazione del prezzo, non lo dovranno
dichiarare più d'una volta.
62. Quinto Scevola, figlio di Publio, avendo chiesto che di un fondo, che voleva
acquistare, gli fosse indicato il prezzo definitivo e avendo ciò fatto il
venditore, affermò di valutarlo di più ed aggiunse centomila sesterzi. Non c'è
nessuno che dica che questo comportamento non sia stato proprio d'un galantuomo;
negano, però, che sia stato proprio d'un uomo saggio, come se avesse venduto a
meno di quanto avrebbe potuto.
CONFLITTO TRA UTILITA' E PRUDENZA
La rovina è proprio questa, il fatto che si fa distinzione tra i buoni e i
saggi. Donde Ennio:
"Invano è saggio quel saggio incapace di giovare a se stesso".
Questo sarebbe pure vero, se fossi d'accordo con Ennio sul significato del
giovare.
63. Vedo che Ecatone di Rodi, discepolo di Panezio, nei libri scritti 'Sul
dovere' e da lui dedicati a Quinto Tuberone, dice:
"è proprio del sapiente curare il proprio patrimonio senza far nulla contro la
morale, le leggi e le istituzioni. Non vogliamo, difatti essere ricchi solo per
noi, ma per i figli, i parenti, gli amici e soprattutto per lo Stato. I beni e
gli averi dei singoli costituiscono, infatti, le ricchezze della città".
A costui non può assolutamente piacere il gesto di Scevola, che ho citato poco
fa; difatti egli dice che non farebbe per suo profitto soltanto quello che non è
permesso. A costui non bisogna concedere né lode né riconoscenza.
64. Comunque, sia che la simulazione e la dissimulazione costituiscano frode,
pochissime sono le azioni in cui non entri la frode; sia che uomo onesto sia
colui che giova a chi può e non nuoce a nessuno, è certo che non possiamo
trovare facilmente questo uomo onesto. Non è mai utile, dunque, cadere in fallo,
perché è sempre disonesto, e, poiché è sempre onesto essere probi, è sempre
utile.
XVI.
LA RETICENZA NEI CONTRATTI DI VENDITA
65. Per quel che riguarda la regolamentazione dei beni immobili, il nostro
diritto civile sancisce che all'atto della vendita si dichiarino i difetti noti
al venditore. Difatti, mentre per le XII tavole era sufficiente rispondere delle
cose esplicitamente dichiarate, e chi rinnegava la parola data era condannato a
pagare una multa del doppio, i giureconsulti stabilirono una pena anche per la
reticenza. Stabilirono, infatti, che il venditore deve rispondere di qualsiasi
difetto si trovi in un bene immobile, se a lui è noto e non è stato
espressamente dichiarato. 66. Ad esempio, poiché gli àuguri dovevano trarre gli
auspici sulla rocca ed avevano ordinato a Tiberio Claudio Centumalo, che aveva
una casa sul Celio, di abbattere quelle parti che, con la loro altezza, erano di
ostacolo agli auspici, Claudio mise in vendita il caseggiato, che fu acquistato
da Publio Calpurnio Lanario. Gli àuguri fecero a costui la stessa intimazione.
Calpurnio la demolì e venne a sapere che Claudio aveva messo in vendita la casa
dopo che gli àuguri gli avevano intimato di abbatterla; lo costrinse, pertanto,
a presentarsi davanti ad un arbitro che decidesse "che cosa in buona coscienza
gli si dovesse pagare o fare". Pronunziò la sentenza Marco Catone, padre del
nostro Catone (come gli altri dai padri, così questi, che generò quell'insigne
personaggio, deve essere designato dal nome del figlio). Quel giudice, dunque,
emise questa sentenza: poiché nel vendere conosceva i difetti e li aveva celati,
doveva rispondere del danno presso il compratore. 67. Ritenne, pertanto, che
appartenesse alla "buona coscienza" la conoscenza, da parte dell'acquirente, dei
difetti noti al venditore. Se il suo giudizio è stato giusto, hanno avuto torto
a tacere sia il mercante di grano che il venditore di quella casa malsana. Ma
reticenze di tale specie non possono essere abbracciate dal diritto civile;
quante lo possono, sono perseguite rigorosamente. Marco Mario Gratidiano, nostro
parente, aveva venduto a Gaio Sergio Orata la stessa casa che aveva acquistato
da lui pochi anni prima. Essa era gravata di una servitù, ma nel contratto Mario
non l'aveva dichiarato. La questione fu portata in tribunale: Crasso difendeva
Orata, Gratidiano era difeso da Antonio. Crasso invocava la legge, secondo cui "
il venditore deve rispondere di quei difetti che, pur essendo a lui noti, non
sono stati da lui dichiarati", Antonio l'equità, "poiché quel difetto non era
ignoto a Sergio, che aveva già venduto quella casa, non era necessaria una
dichiarazione, né era stato ingannato chi ben conosceva la situazione giuridica
di ciò che comprava". A quale scopo ti dico questo? Perché tu capisca che ai
nostri padri non piacevano i furbi.
XVII.
LA LEGGE NATURALE, FONTE DEL DIRITTO CIVILE
68. Ma le leggi reprimono i raggiri in un modo, in un altro i filosofi: le
leggi, nei limiti in cui possono perseguirle legalmente, i filosofi, nei limiti
in cui possono farlo con la ragione e l'intelligenza. Orbene, la ragione esige
che non si faccia nulla con tranelli, nulla con simulazione, nulla con inganno.
Costituisce allora un'insidia tendere le reti, anche se non hai intenzione di
metterti a scovare la selvaggina o a spingerla verso di esse? Che le fiere vanno
a cadervi spesso da sole, senza che nessuno le insegua. Così tu potresti mettere
in vendita una casa, esporre un cartello, come se fosse una rete, [vendere la
casa per i suoi difetti], e qualcuno potrebbe incapparvi inavvertitamente?
69. Sebbene io veda che questo modo d'agire a causa della decadenza dei costumi
non è considerato immorale né è proibito dalla legge o dal diritto civile,
tuttavia esso è stato vietato dalla legge di natura. Difatti la società più
ampia (anche se lo abbiamo detto spesso, lo si deve, tuttavia, ripetere ancor
più spesso) è quella che unisce tutti gli uomini fra loro, più ristretta quella
tra uomini della stessa nazione, ancor più limitata quella tra uomini della
stessa città. Perciò gli antichi vollero che il diritto delle genti e quello
civile fossero differenti; il diritto civile non s'identifica senz'altro con
quello delle genti, ma quello delle genti deve essere anche civile. Noi non
possediamo, però, alcuna immagine concretamente scolpita del vero diritto e
della giustizia, sua sorella germana; usufriamo di un'ombra e di una parvenza;
volesse il cielo che almeno queste seguissimo! Provengono, infatti, dai migliori
esempi della natura e della verità.
70. Quanto valgono quelle parole "che io non sia preso e ingannato per causa tua
e della fiducia in te riposta"! Quanto quell'aureo detto "come tra persone
dabbene conviene agire bene e senza inganno"! Ma è grossa questione definire
quali siano i buoni e che cosa significhi agire bene. Quinto Scevola, pontefice
massimo, diceva che hanno grandissima importanza tutti quei giudizi arbitrali,
in cui s'aggiunge la clausola "in buona coscienza", e credeva che il significato
della 'buona coscienza' avesse una grandissima estensione, e riguardasse le
tutele, le associazioni, le procure, i mandati, le compravendita, gli appalti,
le locazioni, in cui consiste la vita sociale. In essi riteneva che fosse
compito di un giudice valente stabilire di che cosa ciascuno deve rispondere
verso ciascuno, specialmente perché in parecchi casi vi sono delle
controquerele.
71. Bisogna, perciò, eliminare le furberie e quella malizia che vorrebbe
sembrare prudenza, ma lontana da essa in modo enorme: la prudenza è, difatti,
fondata sulla scelta dei beni e dei mali; la malizia antepone il male al bene,
se è vero che è male tutto ciò che è immorale. E non solo nel caso dei beni
immobili il diritto civile, che deriva dalla natura, punisce la malafede e la
frode, ma anche nella vendita degli schiavi è esclusa ogni frode da parte del
venditore. Chi, infatti, dovesse essere al corrente della salute, di una fuga,
di ruberie, ne risponde in base all'editto degli edili.
72. Diverso è il caso degli schiavi ottenuti per eredità. Da questo si capisce
che, essendo la natura fonte del diritto, è secondo natura che nessuno si
comporti in modo da ricavare un bottino dall'ignoranza altrui. Non si può
trovare alcun danno per la vita maggiore della simulazione della malizia; da ciò
derivano i casi innumerevoli, in cui l'utile sembra essere in conflitto con
l'onesto. Quanti, infatti, se ne troveranno capaci di astenersi dal commettere
un'ingiustizia, una volta che sia stata loro assicurata 1' impunità e
l'ignoranza di tutti?
XVIII.
DEBOLEZZE DI UOMINI ILLUSTRI
73. Facciamo la prova, se non hai nulla in contrario, e proprio basandoci su
quegli esempi, in cui gli uomini in generale non credono, forse, di essere in
fallo. Non si deve trattare, qui dei sicari, degli avvelenatori, dei
falsificatori di testamenti, dei ladri, dei rei di peculato, che non devono
essere domati con le parole e le discussioni dei filosofi, ma con le catene e il
carcere; consideriamo, invece, le azioni di coloro che godono la fama di uomini
dabbene. Taluni portarono dalla Grecia in Roma un falso testamento di Lucio
Minuoio Basilo, uomo ricco; per poter raggiungere con maggior facilità il loro
scopo, vi misero come eredi, insieme a loro, Marco Crasso e Quinto Ortensio, due
uomini tra i più importanti in quel periodo; costoro, pur avendo sospettato che
il testamento fosse falso, ma non essendo complici di alcuna colpa, non
rifiutarono il piccolo regalo che veniva loro dalla colpa altrui. Dunque, è
sufficiente questo perchè non sembrino colpevoli? In verità non mi pare, sebbene
abbia amato l'uno, quando era in vita, e non nutra odio nei confronti
dell'altro, ora che è morto. 74. Ma avendo voluto Basilo dare il suo nome a
Marco Satrio, f iglio di sua sorella, e avendolo fatto erede (parlo di colui che
fu patrono dell'agro piceno e sabino), o vergogna dei tempi, [il nome di
quelli,] non era giusto che due tra i principali cittadini avessero il
patrimonio e a Satrio non toccasse nulla, ad eccezione del nome! Se, come ho
spiegato nel primo libro, colui che non si oppone all'ingiustizia e non la tiene
lontana dai suoi, pur potendolo, si comporta ingiustamente, che giudizio bisogna
dare di colui che non solo non allontana l'ingiustizia, ma anzi l'appoggia? A
me, sinceramente, non sembrano oneste neanche le vere eredità, se sono ottenute
per mezzo di lusinghe piene di malizia, con devozione non sincera, ma simulata.
Eppure in tali argomenti una cosa suole sembrare l'utile, un'altra l'onesto. A
torto, perché la norma dell'utile è la stessa dell'onesto. 75. Se uno non si
renderà conto di ciò, sarà capace di ogni frode, di ogni delitto; ragionando,
infatti, così: "Questo, in verità, è onesto, ma quest'altro è utile" arriverà al
punto di scindere due cose che la natura ha strettamente unito, con un errore
che origina frodi, misfatti ed ogni genere di delitti.
XIX.
IL PERFETTO GALANTUOMO
Perciò se un galantuomo avesse una tale potenza da essere in grado di far
inserire il suo nome nei testamenti con un semplice schiocco delle dita, non se
ne servirebbe, neppure se avesse la sicurezza che nessuno mai nutrirebbe
sospetti; ma se tu dessi questo potere a Marco Crasso, d'essere cioè, con un
semplice schiocco delle dita, registrato come erede senza essere realmente
erede, credi a me, si metterebbe a danzare nel Foro. Invece l'uomo giusto e
quello che intendiamo per uomo onesto, non sottrarrebbe niente a nessuno per
prenderselo per sé. Chi si meraviglia di ciò, ammette di non sapere che cosa sia
un uomo onesto.
76. Ma se qualcuno vorrà sviluppare il concetto involuto nel proprio animo, si
convincerà che è uomo onesto colui che giova a chi può e non nuoce ad alcuno, a
meno che non sia stato provocato da un'offesa. Dunque, non nuoce chi, con una
specie di sortilegio, fa in modo d'allontanare i veri eredi per mettersi al
posto loro? "Non dovrà fare, dunque," dirà qualcuno "ciò che è utile, che gli
giova?" Anzi capisca che nulla giova né è utile, se è ingiusto. Chi non capirà
ciò, non potrà essere un uomo onesto.
77. Quand'ero ragazzo sentivo raccontare da mio padre che l'ex-console Fimbria
fu giudice in un processo riguardante Marco Lutazio Pinzia, onestissimo
cavaliere romano, che si era impegnato a pagare una somma se una sentenza da lui
provocata non l'avesse dichiarato galantuomo; Fimbria gli disse che non avrebbe
mai fatto da giudice in quella questione, per non togliere la reputazione ad un
uomo stimato, in caso di un giudizio negativo, o per non sembrare di aver
decretato che un uomo è onesto, dal momento che tale qualità presuppone
innumerevoli doveri e virtù. A quest'uomo buono, di cui aveva un'idea ben
precisa non solo Socrate, ma anche Fimbria, in nessun modo può sembrare utile
una cosa che non sia onesta; di conseguenza un tale uomo non solo non oserà
fare, ma neppure pensare alcunché che non oserebbe dire pubblicamente. Non è
vergognoso che i filosofi siano indecisi su ciò che non suscita dubbi neanche
nei contadini? Da essi derivò quel proverbio ormai logoro per l'uso: quando
vogliono lodare la lealtà e la bontà di qualcuno, dicono che è degno che si
giuochi alla morra con lui al buio. Che significa questo, se non che nulla è
conveniente se non è lecito moralmente, anche se noi lo possiamo ottenere senza
che alcuno ci smentisca? 78. Non vedi che in base a questo proverbio non si può
giustificare né quel famoso Gige né costui che poco fa ho immaginato capace di
accaparrarsi tutte le eredità con un semplice schiocco delle dita? Come,
difatti, ciò che è turpe non può in alcun modo diventare onesto, benché lo si
nasconda, così ciò che onesto non è, non può esser mutato in utile, se la natura
vi si oppone e vi fa resistenza.
XX.
ONESTA' E UMANITA'
79. Ma quando si prevedono grandi vantaggi, vi sarebbe un motivo per cadere in
fallo. Gaio Mario era molto lontano dalla speranza di divenir console e ormai da
sette anni dopo la pretura era abbandonato da tutti né dava l'impressione che
avrebbe mai presentato la propria candidatura al consolato; inviato a Roma dal
suo comandante Quinto Metallo, di cui era luogotenente, uomo e cittadino di
altissime qualità, lo accusò presso il popolo romano di tirare alle lunghe la
guerra: se lo avessero fatto console, avrebbe consegnato in poco tempo Giugurta,
vivo o morto, in potere del popolo romano. E così egli fu eletto console, ma si
allontanò dalla lealtà e dalla giustizia, poiché con una falsa accusa suscitò
odiosità nei confronti di un cittadino ottimo e rispettabilissimo, del quale era
luogotenente e dal quale era stato inviato.
80. Neppure il nostro parente Gratidiano adempì al dovere di un uomo onesto,
allorché egli era pretore e i tribuni della plebe avevano convocato il collegio
dei pretori per regolare di comune accordo la situazione monetaria; in quel
periodo, difatti, il valore del nummo oscillava in modo tale che nessuno era in
grado di sapere quanto possedesse. Stesero di comune accordo un editto, in cui
era indicata la pena e la relativa procedura giudiziaria, e decisero di
presentarsi tutti insieme sui Rostri il pomeriggio. Tutti gli altri andarono chi
da una parte, chi da un'altra; Mario si recò direttamente dagli scanni dei
tribuni ai Rostri e da solo pubblicò quell'editto che era stato redatto in
comune. E questa cosa, se vuoi saperlo, gli tornò di grande onore; gli furono
innalzate statue in tutti i rioni, e dinanzi ad esse incenso e fiaccole di cera.
A che serve dilungarsi? Nessuno fu mai più caro alla folla.
81. Sono questi i casi che spesso, quando dobbiamo decidere, ci rendono
dubbiosi, allorché la violazione dell'equità non sembra rilevante, ma appare
grandissimo il vantaggio che da essa deriva: così, ad esempio, a Mario non
sembrava tanto riprovevole carpire il favore popolare ai colleghi e ai tribuni
della plebe, ma molto utile diventar console con quel mezzo, ciò che egli si era
proposto. Ma in tutti questi casi esiste una sola regola, che desidero ti sia
notissima: o che non sia turpe quello che sembra utile o, se è turpe, che non
sembri essere utile. E che, dunque? Possiamo giudicare probo il primo o il
secondo Mario? Dispiega e fà funzionare la tua intelligenza, per vedere quale
sia in essa il concetto e la nozione di uomo dabbene. Si addice, dunque, ad un
uomo onesto mentire per proprio vantaggio, accusare, sottrarre, ingannare? 82.
Niente gli si addice di meno, questo è certo. Vi è, dunque, una cosa tanto
importante o un vantaggio tanto desiderabile, da far si che tu perda l'aureola e
il nome di uomo probo? Che cosa ti potrebbe dare di tanto grande questa
cosiddetta utilità, quanto piuttosto togliere, se si sottrae il nome di uomo
probo, se ti porta via la lealtà e la giustizia? Che differenza c'è, difatti,
tra il mutarsi da uomo in bestia o il portare, sotto l'aspetto di uomo, l'indole
crudele d'una belva?
XXI.
LA POLEMICA ANTITIRANNICA
ETEOCLE E CESARE
E che? Quanti trascurano ogni rettitudine e onestà, pur di raggiungere la
potenza, non si comportano proprio come colui che volle avere per suocero un
uomo, la cui audacia giovasse alla propria potenza? Gli sembrava utile
raggiungere la massima potenza a spese dell'impopolarità altrui, ma non si
rendeva conto di quanto ciò fosse ingiusto e vergognoso nei confronti della
patria. E quel suocero aveva continuamente sulle labbra i versi greci delle
Fenicie, che dirò come potrò, forse rozzamente, ma tuttavia in modo che si possa
capire il contenuto: 'Se si deve violare il diritto, bisogna violarlo per il
potere assoluto; per il resto coltiva la pietà'. Degno d'essere messo a morte è
Eteocle, o piuttosto Euripide, che eccettuava quest'unico caso, che è il più
scellerato di tutti. 83. Ma perché andiamo raccogliendo queste minuzie, eredità,
commerci, vendite fraudolente? Eccoti chi desiderò essere re del popolo romano e
signore di tutte le genti, e ci riusci. Se qualcuno dicesse che questa bramosia
è onesta, sarebbe un pazzo; così facendo egli approva la morte delle leggi e
della libertà e ritiene gloriosa la loro infame e detestabile soppressione. Se
uno, invece, ammette che non è onesto regnare in una città che è stata e
dovrebbe essere libera, ma è utile a chi è capace di farlo, con quali rimproveri
o, piuttosto, con quali grida potresti tentare dì allontanarlo da un simile
errore? Può, per gli dei immortali, essere utile a qualcuno il più turpe e
abominevole parricidio della patria, anche se colui che se n'è macchiato viene
chiamato "padre" dai cittadini oppressi? L'utilità, dunque, deve essere guidata
dall'onestà, e precisamente in modo che questi due concetti a parole sembrino
diversi, ma nella sostanza suonino la stessa cosa.
84. Non so quale utilità possa esistere, a giudizio del volgo, maggiore del
regnare; ma quando comincio ad accostare il giudizio alla luce della verità, non
trovo nulla di più inutile per colui che abbia conseguito il regno
ingiustamente. Possono, difatti, essere utili per qualcuno le angosce, le
preoccupazioni, i timori diurni e notturni, la vita piena zeppa di insidie e di
pericoli?
'Molti gli iniqui ed infedelí al regno, pochi i benevoli'.
Così dice Accio. Ma a quale regno? Quello che, trasmesso legittimamente, avevano
Tantalo e Pelope. E quanti di più ne avrebbe, secondo te, quel re che con
l'esercito del popolo romano oppresse proprio il popolo romano e costrinse ad
essergli schiava quella città non solo libera, ma anche signora delle genti? 85.
Quale macchia della coscienza pensi che costui abbia avuto nell'animo, quali
ferite? E a quale uomo può essere utile la propria vita, se la condizione di
essa è tale che chi gliela sottraesse si procurerebbe grandissima gloria e
riconoscenza? E se non sono utili queste cose, che sembrano esserlo
massimamente, perché sono piene di ignominia e di turpitudine, bisogna essere
abbastanza convinti che nulla è utile, se non è onesto.
XXII.
LA POLITICA SI ISPIRI ALL'ETICA
86. Questo è stato riconosciuto spesso in altre occasioni e specialmente da Gaio
Fabrizio, console per la seconda volta durante la guerra contro Pirro, e dal
nostro senato. Avendo, il re Pirro dichiarato di sua iniziativa guerra al popolo
romano, e svolgendosi la lotta per la supremazia con un re nobile e potente,
giunse un disertore negli accampamenti di Fabrizio e gli promise, in cambio di
una ricompensa, di ritornare negli accampamenti di Pirro di nascosto cem'era
venuto e di ucciderlo col veleno. Fabrizio lo fece ricondurre da Pirro e il suo
comportamento fu lodato dal senato. Eppure se noi ricerchiamo l'apparenza e il
concetto comune dell'utilità, un unico disertore avrebbe eliminato quella guerra
ed un pericoloso rivale della nostra supremazia, ma sarebbe stato per noi un
grande disonore e una grande colpa l'aver vinto non col valore, ma con il
delitto un avversario con cui si lottava per la gloria.
87. Sarebbe stato più utile, dunque, sia per Fabrizio, che in questa città fu
come Aristide in Atene, sia per il nostro senato, che non disgiunse mai
l'utilità della dignità, combattere il nemico con le armi o col veleno? Se si
deve mirare alla supremazia per la gloria, si bandisca il delitto, in cui non
può esistere gloria; se si mira alla potenza in qualunque modo, non potrà
giovare, se sarà unita all'infamia. Non fu, dunque, utile il provvedimento di
Lucio Filippo, figlio di Quinto, in base al quale le città che Lucio Silla, per
decreto del senato, aveva esentato dal tributo dietro pagamento di una somma di
denaro, diventavano di nuovo tributarie, senza che venisse restituito loro il
denaro versato per l'esenzione. Il senato diede il suo consenso: vergogna per il
nostro governo! Vale più la parola dei pirati di quella del senato. "Ma si
aumentarono le entrate; quindi il provvedimento fu utile". Fino a quando
oseranno dire che qualche cosa è utile, senza essere onesta? 88. E' possibile
che ad un impero, che deve fondarsi sulla gloria e sulla simpatia degli alleati,
siano utili l'odio e l'infamia? Io mi sono trovato spesso in disaccordo anche
col mio amico Catone; mi sembrava che sostenesse con troppa intrasigenza gli
interessi dell'erario e del bilancio, e che negasse tutto ai pubblicani, molto
agli alleati, mentre verso questi dovevano essere benefici, verso quelli
comportarci come eravamo soliti fare con i nostri coloni, tanto più perché
quella concordia di classi interessava la salute dello Stato. Si comportava male
anche Curione, quando diceva che la causa dei Transpadani era giusta, ma
aggiungeva sempre: "Vinca l'utilità". Piuttosto egli avrebbe dovuto dimostrare
che non era giusta, perché non era utile allo Stato, anziché riconoscere che era
giusta, mentre diceva che non era utile.
XXIII.
RASSEGNA DI ESEMPI
89. Il sesto libro 'Sui doveri' di Ecatone è pieno di questioni simili: se sia
proprio di un uomo onesto non nutrire i propri schiavi in un periodo di estrema
carestia. Egli discute il pro e il contro, tuttavia alla f ine regola il dovere
più in base all'utilità che all'umanità. Si domanda se, nel caso che si dovesse
gettare in mare (parte del carico), si debba gettare un cavallo di valore o uno
schiavo di poco prezzo. In questo caso divergono le vie del patrimonio e
dell'umanità. "Se uno sciocco avesse afferrato una tavola in un naufragio, un
saggio gliela dovrebbe sottrarre, se potesse?" Risponde di no, perché si
tratterebbe di un'ingiustizia. "Allora il padrone della nave potrebbe
portargliela via, perché è sua?" Per niente affatto, come non potrebbe in alto
mare gettar giù dalla nave un passeggero, perché la nave è sua. Difatti sin
quando non si è giunti alla destinazione, per cui la nave è stata noleggiata,
essa non è dei proprietario, ma dei passeggeri. 90. "Dunque, se ci fosse
un'unica tavola e due naufraghi, tutti e due sapienti, entrambi dovrebbero
afferrarla o uno dovrebbe cedere all 'altro? " Bisogna cederla, ma a colui la
cui vita è di maggiore importanza per sé o per lo Stato. "E se in entrambi
queste caratteristiche fossero uguali?" Non vi sarà alcuna lotta, ma l'uno
dovrebbe cedere all'altro quasi per sorteggio o giocando alla morra. "E se un
padre depredasse templi o scavasse gallerie verso l'erario, il figlio dovrebbe
denunziare il fatto ai magistrati?" Ciò sarebbe, in verità, un delitto, ché anzi
dovrebbe difendere il padre, se accusato. "La patria, dunque, non è superiore a
tutti i doveri?" Si, ma è nell'interesse della patria stessa avere i cittadini
affezionati ai propri genitori. "E se un padre cercasse di divenir tiranno, di
tradire la patria, il figlio dovrebbe tacere?" No, piuttosto scongiurerà il
padre a non farlo; se non riuscirà in niente, lo accuserà, lo minaccerà pure:
alla fine, se l'affare metterà in pericolo l'esistenza della patria, anteporrà
la salvezza della patria a quella del padre. 91. Si chiede anche questo: se un
saggio ha ricevuto senza accorgersene monete false per buone, quando verrà a
saperlo potrà darle in pagamento come buone, a qualche debitore? Diogene dice di
sì, Antipatro di no, ed io sono d'accordo piuttosto con quest'ultimo. "Se uno
vendesse, sapendolo, vino che sta per inacidire, dovrebbe dirlo?" Diogene non lo
reputa necessario, Antipatro lo ritiene compito di un galantuomo. Queste sono,
per così dire, questioni giuridiche controverse per gli Stoici. "Nella vendita
di uno schiavo è necessario dichiararne i difetti, non quelli che, taciuti,
provocherebbero, secondo il codice civile, la restituzione dello schiavo, ma
questi altri, l'essere menzognero, giuocatore, facile ai furti, ubriacone?"
Alcuni ritengono che sia necessario dichiararli, altri no. 92. "Se uno vendendo
oro, credesse di vendere ottone, il galantuomo dovrebbe avvertirlo che si tratta
di oro o dovrebbe acquistare per un denaro ciò che ne vale mille?" E' chiaro,
ormai, quale sia la mia opinione e quale la controversia tra i suddetti
filosofi.
XXIV.
NON OGNI PROMESSA E' DEBITO
Ci si chiede se debbano essere sempre mantenuti i patti e le promesse che,
secondo la formula dei pretori, "non siano stati fatti né con la violenza né con
la frode". Se qualcuno avesse dato ad un altro una farmaco per l'idropisia, ed
avesse pattuito che costui, guarendo per mezzo di quel farmaco, non ne avrebbe
più fatto uso in seguito, nel caso che fosse sopravvenuta la guarigione per
merito di quel farmaco, e a distanza di qualche anno fosse nuovamente ricaduto
nella stessa malattia, senza poter ottenere da colui, col quale aveva stipulato
il patto, il permesso d'usare nuovamente la stessa medicina, che si dovrebbe
fare? Poiché è inumano colui che non lo concede e non subisce alcuna
ingiustizia, bisogna che si provveda alla vita e alla salute.
93. E che? Se un sapiente fosse richiesto da uno che volesse nominarlo erede,
lasciandogli per testamento cento milioni di sesterzi, di danzare pubblicamente
nel foro in pieno giorno, prima di prendere possesso dell'eredità, e il sapiente
avesse promesso di farlo perché, in caso contrario, quel tale non lo nominerebbe
erede nel testamento, dovrebbe mantenere la sua promessa o no? Preferirei che
non avesse fatto una simile promessa e penso che ciò sarebbe stato indizio di
serietà; ma dal momento che ha promesso, se riterrà vergognoso danzare, sarà più
onesta la menzogna non prendendo niente dall'eredità che prendendola, a meno che
non voglia destinare quel denaro a qualche grave necessità dello Stato, di modo
che non sia turpe neppure danzare, per venire in aiuto della patria.
XXV.
ESEMPI PRESI DALLA MITOLOGIA
94. Ma non devono esser mantenute neppure quelle promesse che non sono di
utilità a coloro ai quali sono state fatte. Per ritornare ai miti, il Sole disse
al figlio Fetonte che avrebbe esaudito qualunque suo desiderio; egli volle
salire sul cocchio del padre; vi fu fatto salire. Ma prima di mettersi a sedere
fu colpito e bruciato da un fulmine. Quanto sarebbe stato meglio che in questo
caso non fosse stata mantenuta la promessa paterna! E che dire della promessa
che Teseo pretese da Nettuno? Avendogli Nettuno concesso tre desideri, chiese la
morte del figlio Ippolito, poiché questi era stato sospettato dal padre di
illecita relazione con la matrigna; ottenuto l'adempimento di questo desiderio,
Teseo piombò nel maggiore dei lutti. 95. E che dire di Agamennone? Avendo
offerto in voto a Diana quello che di più bello fosse nato nel suo regno in
quell'anno, immolò Ifigenia, della quale, almeno in quell'anno, niente era nato
di più bello; avrebbe dovuto fare a meno dì promettere, anziché commettere un
delitto così infame. Non sempre, dunque, bisogna promettere e non sempre bisogna
restituire ciò che si è avuto in deposito. Se uno sano di mente avesse
depositato presso di te una spada e, divenuto folle, te la richiedesse, sarebbe
una colpa il restituirla, dovere il non restituirla. E che? Se uno, che avesse
depositato del denaro presso dì te, muovesse guerra alla patria, dovresti
restituirgli la somma depositata? Credo di no, perché agiresti contro lo Stato,
che deve starti a cuore più d'ogni cosa. Così molte azioni, che sembrerebbero
oneste per natura, diventano in particolari circostanze disoneste: mantenere le
promesse, attenersi ai patti, restituire i depositi, cambiate le utilità
diventano azioni disoneste. Ed anche di quelle azioni che, per una finzione di
prudenza, sembrano essere utili, pur contrastando la giustizia, credo di aver
parlato a sufficienza.
96. Ma poiché nel primo libro abbiamo derivato i doveri dalle quattro fonti
dell'onesto, dobbiamo attenerci ad essi nel dimostrare quanto siano nemiche
della virtù quelle azioni che sembrano utili ma non lo sono. Si è parlato pure
della prudenza, che la malizia vorrebbe imitare, e ugualmente della giustizia,
che è sempre utile. Restano due specie di onestà, delle quali la prima si
manifesta nella grandezza e nella nobiltà di un animo sommo, la seconda nella
disposizione giusta e moderata della continenza e della temperanza.
XXVI.
CONFLITTO TRA UTILITA' E FORTEZZA: ULISSE
97. Ulisse parve attaccato all'utile, almeno secondo i poeti tragici; difatti in
Omero, autore degno della massima fede, non esiste alcun sospetto simile: ma le
tragedie lo accusano di aver voluto evitare la milizia fingendosi pazzo.
Decisione non onesta, ma utile, potrà forse dire qualcuno, regnare e vivere ad
Itaca in pace coi genitori, la moglie e il figlio. E tu credi che la gloria che
ci si procura nei travagli e nei pericoli d'ogni giorno possa essere messa a
confronto con questa tranquillità? Io, in verità, ritengo che sia da disprezzare
e da gettar via, perché penso che una cosa disonesta non sia neppure utile. 98.
Che parole, secondo te, si sarebbe sentito dire Ulisse, se avesse perseverato in
quella sua finzione? Egli che, pur avendo compiuto grandissime imprese in
guerra, tuttavia si sente dire da Aiace:
'Del giuramento, di cui egli fu promotore, come tutti sapete, solo tradi la
fede. Si diede a fingersi pazzo, per non unirsi a noi. E se la prudenza acuta di
Palamede non ne avesse afferrato la maliziosa audacia, egli avrebbe violato per
sempre il vincolo del giuramento' .
99. Sarebbe stato meglio per lui combattere non solo con i nemici, ma anche coi
flutti, come fece, anziché abbandonare la Grecia concorde nel portar guerra ai
barbari. Ma lasciamo da parte i miti e i fatti stranieri e veniamo a un fatto
realmente accaduto e presso di noi.
L'ESEMPIO DI M. A. REGOLO
Marco Attilio Regolo, console per la seconda volta, catturato per mezzo di
un'imboscata in Africa, quando era a capo dell'esercito nemico Santippo,
generale spartano, e comandante supremo Amileare, padre di Annibale, fu inviato
al senato sotto giuramento che sarebbe tornato a Cartagine, se non fossero stati
restituiti ai Cartaginesi alcuni nobili prigionieri. Venuto a Roma, egli vedeva
l'apparenza dell'utilità, ma, come dichiarano i fatti, la giudicò falsa: e si
trattava di restare in patria, in casa propria con la moglie e i figli,
conservere il grado della dignità consolare, giudicando la disgrazia patita in
guerra come una cosa normale nella fortuna militare. Chi potrebbe affermare che
non si tratta di cose utili? Chi pensi che potrebbe farlo? Lo negano la
grandezza e la fortezza d'animo. Vai forse in cerca di prove più autorevoli?
XXVII.
L'UTILE DELLA PATRIA E' L'UTILE DEL CITTADINO
100. Caratteristica di queste virtù è il non aver timore di nulla, disprezzare
tutte le cose umane, non considerare insopportabile alcuna cosa che possa
accadere ad un uomo. Che fece egli, allora? Venne in senato, espose il suo
mandato, si rifiutò di esprimere il proprio parere, perché non era senatore,
finché era vincolato dal giuramento fatto ai nemici. E affermò persino che non
era utile restituire i prigionieri (qualcuno potrebbe dire: "O sciocco, nemico
del suo utile!"); infatti quelli - affermava - erano giovani e buoni comandanti,
egli era ormai sfinito dalla vecchiaia. Essendo prevalso il suo parere
autorevole, i prigionieri furono trattenuti, egli tornò a Cartagine e non lo
trattenne né l'amore per la patria né quello per i suoi cari. Eppure egli non
ignorava, allora, di andare incontro a un nemico crudelissimo ed a supplizi
raffinati, ma pensava che si dovesse mantenere il giuramento. E cosi allora, io
dico, quando le veglie lo uccidevano, si trovava in una situazione migliore che
se fosse rimastò a casa, vecchio prigioniero e consolare spergiuro. 101. "Ma fu
stolto, perché non solo non propose la restituzione dei prigionieri, ma anche
dissuase dal farlo". E come stolto? Anche se recava giovamento allo Stato? E'
possibile che quanto è inutile allo Stato possa essere utile a qualche
cittadino?
XXVIII.
L'UTILITA' INSEPARABILE DALL'ONESTA'
Gli uomini sovvertono i fondamenti della natura nel separare l'utilità
dall'onestà. Tutti, infatti, desideriamo ciò che è utile e siamo trascinati
verso di esso, senza poter fare in alcun modo diversamente. Chi c'è che si
terrebbe lontano dall'utile? 0 chi, piuttosto, che non lo ricercherebbe con il
massimo impegno? Ma poiché possiamo trovarlo soltanto nella gloria, nella
dignità, nell'onestà, per tale motivo riteniamo questi come i primi e maggiori
beni, mentre consideriamo il termine 'utilità, non tanto magnifico quanto
necessario.
102. Che cosa c'è, dunque, potrebbe dire qualcuno, in un giuramento? Forse
temiamo l'ira di Giove? Ma è opinione comune di tutti i filosofi (non solo di
quelli che affermano che il dio non si cura di nulla e non procura alcuna
preoccupazione ad altri, ma anche di coloro che sostengono che la divinità
compie e prepara sempre qualche cosa), che il dio non si adira mai e non reca
nocumento. In che cosa, poi, Giova irato avrebbe potuto nuocere a Regolo, più di
quanto egli nocque a se stesso? Non c'era, dunque, alcuna forza della religione
che potesse mandare in a una tanto grande utilità. Forse per non agire
indegnamente? In primo luogo, tra due mali bisogna scegliere il minore: questa
vergogna recava forse con sé tanto male, quanto ne recavano quelle torture? In
secondo luogo anche presso Accio si legge:
'Hai violato la parola data? Non l'ho mai data né la do ad alcuno sleale.'
E' vero che ciò è detto da un re empio, ma detto, tuttavia, splendidamente. 103.
Aggiungono anche che, come noi diciamo che ci sembrano utili alcune cose che non
lo sono, così essi dicono che sembrano oneste alcune cose che non lo sono; ad
esempio può apparire onesto proprio l'esser tornato al supplizio per mantenere
un giuramento, ma finisce coi divenire non onesto, perché quanto si fa costretti
dai nemici non avrebbe dovuto esser mantenuto. Aggiungono anche che tutto ciò
che è molto utile diventa onesto, anche se in precedenza non sembrava tale.
Queste, all'incirca, sono le obiezioni rivolte a Regolo. Ma esaminiamo la prima.
XXIX.
CONFUTAZIONE
104. Non bisogna temere che Giove, adirato, nuocesse, perché non è solito
adirarsi né fare del male. Questo argomento non è valido tanto contro il
giuramento di Regolo, quanto contro ogni giuramento. Ma nel giuramento bisogna
considerare non il timore (in caso di violazione), ma il suo significato; il
giuramento è, difatti, un'affermazione religiosa: quello che uno ha promesso
solennemente, come se il dio ne fosse testimone, deve esser mantenuto. Non si
tratta, difatti, dell'ira divina, che non esiste, ma della giustizia e della
fede; dice benissimo Ennio:
'O alma Fede, fornita d'ali, e giuramento di Giove'
Chi, dunque, viola un giuramento, viola la Fede, che i nostri antenati vollero
stesse sul Campidoglio accanto a Giove Ottimo Massimo, come si dice in
un'orazione di Catone. 105. Ma neppure Giove adirato avrebbe potuto nuocere a
Regolo, più di quanto proprio Regolo nocque a se stesso. Certo, se non esistesse
altro male al di fuori del dolore fisico; ma i filosofi più autorevoli affermano
che non solo non è il male maggiore, ma non è neppure un male. Non biasimate, di
grazia, Regolo, testimone non mediocre, anzi forse importantissimo (della
fondatezza delle loro asserzioni). Difatti quale testimone più autorevole
andiamo cercando di uno dei più insigni cittadini romani, che affrontò
volontariamente il supplizio per mantenersi fedele al dovere? Si dice, poi, 'il
minore tra i mali' - scegliere, cioè, la vergogna piuttosto che la sventura -,
ma esiste un male più grande della vergogna? Se essa nella deformità fisica ha
qualche cosa di repellente, quanto ci deve apparire grande la deformità e la
bruttezza di un animo corrotto? 106. Quelli che trattano questo argomento con
maggior vigore, hanno il coraggio di dire che è unico male ciò che è vergognoso,
mentre quanti ne discutono con maggiore accondiscendenza non esitano, tuttavia,
a chiamarlo sommo male. Per quel che riguarda le parole 'Non l'ho data né la do
ad alcuno sleale' esse sono state scritte giustamente dal poeta, perché,
rappresentandosi il personaggio di Atreo, bisognava tenersi strettamente legati
ad esso. Ma se vorranno prenderle nel senso che non esiste fede data ad un uomo
sleale, badino a non cercare un mezzo per occultare lo spergiuro.
107. [Anche il diritto di guerra e la fede nel giuramento debbono spesso essere
osservati nei confronti dei nemico.] Tutto ciò che, difatti, è stato giurato con
la piena consapevolezza della sua opportunità, deve esser mantenuto; quello che
è stato giurato in maniera diversa, se non viene mantenuto non costituisce
spergiuro. Per esempio, se non portassi ai predoni il prezzo pattuito per la tua
vita, non c'è frode, neppure se non lo facessi dopo averlo giurato; il predone,
difatti, non è compreso nel numero dei nemici di guerra, ma è nemico comune di
tutti; con lui non deve esserci in comune alcuna fede né alcun giuramento. 108.
Spergiurare, difatti, non significa giurare il falso, ma costituisce spergiuro
il non mantenere quello che hai giurato 'secondo la tua coscienza', come dice
un'espressione in uso presso di noi. Dice bene Euripide:
'Ho giurato con la lingua, ma la mia mente è libera da giuramenti.'
Regolo, invero, non doveva sconvolgere con un falso giuramento le condizioni e i
patti di guerra stipulati col nemico; si aveva a che fare, difatti, con un
nemico giusto e legittimo, nei confronti del quale sono in vigore il diritto
feziale e molte altre norme comuni. Se non fosse cosi, il senato non avrebbe mai
consegnato in catene al nemico illustri cittadini.
XXX.
L A GLORIA PIU' BELLA
109. Ma Tito Veturio e Spurio Postumio, consoli per la seconda volta, poiché,
dopo l'infelice battaglia di Caudio e dopo che le nostre legioni furono mandate
sotto il giogo, avevano stipulato la pace con i Sanniti, furono consegnati ad
essi per aver agito senza l'approvazione del popolo e del senato.
Contemporaneamente Tiberio Numicio e Quinto Melio, allora tribuni della plebe,
siccome la pace era stata stipulata con la loro autorizzazione, furono
consegnati affinché fosse annullata la pace coi Sanniti; lo stesso Postumio, che
doveva venir consegnato, fu sostenitore e promotore di questa procedura. Lo
stesso fece, molti anni dopo, Gaio Mancino, che, avendo stipulato un trattato
coi Numantini senza l'autorizzazione del senato, sostenne la proposta
presentata, per decreto del senato, da Lucio Furio e Sesto Attilio; approvata la
proposta, egli fu consegnato ai nemici. Si comportò più onorevolmente lui di
Quinto Pompeo che, trovandosi nella medesima situazione, supplicò in modo tale
che la legge non fu accettata. In questo caso quella che sembrava utilità valse
più dell'onestà, in quelli precedenti una falsa apparenza d'utilità fu superata
dall'autorevolezza dell'onestà.
110. Ma non si doveva mantenere ciò che era stato estorto con la forza. Come se
a un uomo forte si potesse fare violenza! Perché, dunque, partiva per il senato,
tenuto conto, soprattutto, del fatto che aveva intenzione di sconsigliare la
restituzione dei prigionieri? Voi biasimate proprio il suo merito maggiore: egli
non si accontentò del suo giudizio, ma accettò l'incarico perché fosse il senato
a decidere, e se non fosse stato lui a consigliare, certamente i prigio nieri
sarebbero stati restituiti ai Cartaginesi. In tal caso Regolo restato incolume
in patria; ma poiché non lo ritenne utile per la patria, proprio per questo
giudicò onesto per sé esprimere il proprio parere e patirne le conseguenze.
Riguardo, poi, all'affermazione che quanto molto utile diviene anche onesto, (si
dovrebbe dire) anzi che lo è, non lo diventa: nulla, difatti, è utile se non è
onesto, e non è onesto perché utile, ma utile perché onesto. Di conseguenza tra
molti ammirevoli esempi difficilmente qualcuno potrebbe citarne uno più lodevole
ed efficace di questo.
XXXI.
IL GIURAMENTO E' SACRO
111. Ma in tutto questo glorioso comportamento di Regolo un atto è specialmente
degno di ammirazione, il fatto che egli propose di trattenere i prigionieri.
L'esser tornato, difatti, sembra a noi straordinario adesso, ma in quei tempi
non avrebbe potuto comportarsi diversamente; di conseguenza questa è una lode
che va rivolta non all'uomo, ma ai tempi: i nostri antenati vollero che nessun
vincolo fosse più saldo del giuramento per impegnare a rispettare la parola
data. Lo indicano le leggi delle dodici tavole, le leggi esecratoríe, lo
indicano i trattati, con i quali s'impegna la parola anche con i nemici, lo
indicano le ammonizioni e i rimproveri dei censori, che non giudicavano con
maggiore scrupolo alcuna colpa come quelle riguardanti il giuramento.
112. Il tribuno della plebe Marco Pomponio citò in giudizio Lucio Manlio, figlio
di Aulo, che era dittatore, perché aveva prolungato di pochi giorni il periodo
della sua dittatura; lo si accusava anche di aver allontanato dal consorzio
umano ed aver costretto a vivere in campagna il figlio Tito, quello che in
seguito fu soprannominato Torquato. Quando il giovane figlio apprese che il
padre aveva delle noie, si dice che accorresse a Roma e sul far del giorno si
recasse in casa di Pomponio. Essendogli stata annunziata la sua visita,
Pomponio, pensando che Tito adirato venisse a riferirgli qualche cosa contro il
padre, si alzò dal letto e, allontanati i testimoni. ordinò che venisse fatto
entrare il giovane. Ma questi, appena entrato, sguainò la spada e giurò che lo
avrebbe ucciso immediatamente se non gli avesse giurato di liberare da ogni
accusa il padre. Pomponio giurò, costretto dal terrore; portò la questione
dinanzi al popolo, lo informò del motivo che lo costringeva a desistere
dall'accusa e lasciò libero Manlio. Tanto grande era il valore del giuramento in
quei tempi. [E questo Tito Manlio è lo stesso che prese il cognome dall'aver
strappato, nella battaglia dell'Aniene, il monile a un Gallo che l'aveva
sfidato; durante il suo terzo consolato i Latini furono sbaragliati e messi in
fuga presso Veseri, eroe, tra i più grandi, che, indulgentissimo nei confronti
del padre, fu severissimo nei confronti del figlio.]
XXXII.
LA FRODE E LO SPERGIURO
113. Ma, come è degno di lode Regolo per aver rispettato il giuramento, così
sono degni di biasimo, se non ritornarono, quei dieci che, dopo la battaglia di
Canne, Annibale inviò al senato, dietro giuramento che sarebbero tornati
nell'accampamento, di cui s'erano impadroniti i Cartaginesi, se non avessero
ottenuto il riscatto dei prigionieri. Sul loro comportamento non tutti sono
d'accordo. Difatti Polibio, storico tra i più autorevoli, dice che dei dieci più
nobili allora inviati, ne ritornarono nove per non avere ottenuto il consenso
del senato; uno dei dieci, che aveva fatto ritorno negli accampamenti poco dopo
esserne uscito, quasi avesse dimenticato qualche cosa, rimase a Roma, perché
giudicava, e a torto, d'essersi liberato dal giuramento con quel suo ritorno
nell'accampamento. La frode, difatti, aggrava e non elimina lo spergiuro. Si
trattò, dunque, d'una sciocca astuzia, che imitò malamente la prudenza. Il
senato decise, quindi, che quel furbo imbroglione fosse ricondotto in catene ad
Annibale.
114. Ma questo è il lato più importante. Annibale teneva prigionieri ottomila
uomini, che non erano stati catturati in battaglia né erano fuggiti di fronte al
pericolo di morte, ma erano stati lasciati nell'accampamento dai consoli Paolo e
Varrone. Il senato stabilì che non si doveva pagare il riscatto, benché lo si
potesse fare con un'esigua somma di denaro, perché fosse ben radicato nell'animo
dei nostri soldati il concetto che bisognava vincere o morire. Lo stesso storico
scrive che, udito il fatto, l'animo di Annibale ne restò molto turbato, perché
il senato e il popolo romano avevano dimostrato una tale grandezza d'animo nelle
avversità. Così, al paragone con l'onestà, le azioni che sembrano utili
finiscono con l'essere superate.
115. [Gaio Acilio, invece, che scrisse una storia di Roma in greco, dice che
furono molti a ritornare negli accampamenti con lo stesso inganno, per esser
liberati dal giuramento, e furono bollati dai censori con ogni nota d'infamia.]
Mettiamo fine, oramai, a questo argomento. E' chiaro, infatti, che tutto ciò che
viene fatto con animo pavido, umile, depresso ed avvilito (come sarebbe stata
l'azione di Regolo, se avesse proposto, riguardo ai prigionieri, quello che gli
sembrava opportuno per sé, non per lo Stato, o avesse voluto restare in patria)
non è utile, perché è dannoso, disonorevole, ripugnante.
XXXIII.
CONFLITTO TRA UTILITA' E TEMPERANZA
116. Resta la quarta parte, che consiste nella convenienza, nella moderazione,
nella modestia, nella continenza, nella temperanza. Può, dunque, qualche cosa
essere utile, che sia contraria a questo coro di virtù? Eppure i Cirenaici,
seguaci di Aristippo, e quelli che sono chiamati Annicerii, hanno posto ogni
bene nel piacere ed hanno ritenuto che la virtù sia degna di lode perché
produttrice di piacere; passati di moda questi fiorisce Epicuro, sostenitore e
fautore quasi della stessa dottrina. Con questi filosofi bisogna combattere con
guerrieri e cavalli, come si dice, se si vuole mantenere e salvaguardare
l'onestà.
117. Se, difatti, non solo l'utilità, ma l'intera felicità della vita consiste,
come ha scritto Metrodoro, nella salda costituzione fisica e nella certa
speranza della sua durata, certamente questa utilità, che è pure la più grande,
sarà in conflitto con l'onestà. Infatti, in primo luogo, quale ruolo si
assegnerà alla prudenza? Quello, forse, di cercare piaceri in ogni dove? Quale
infelice schiavitù, quella della virtù assoggettata al piacere! E quale sarebbe
il compito della prudenza? Forse lo scegliere con intelligenza i piaceri?
Ammetti pure che non esista niente di più piacevole, ma che cosa si può
immaginare di più turpe? Inoltre, presso chi dice che il dolore è il sommo male,
quale posto può tenere la fortezza d'animo, che è spregio dei dolori e delle
fatiche? Sebbene, difatti, in molti luoghi Epicuro parli, come egli dice, con
sufficiente forza d'animo del dolore, non bisogna, tuttavia, considerare quello
che dice, ma quello che sarebbe logico dicesse chi ha limitato il bene al
piacere e il male al dolore; ad esempio, se volessi ascoltarlo mentre parla
della continenza e della temperanza, è vero che ne parla a lungo in molti
luoghi, ma "l'acqua ristagna" come si dice; difatti, come potrebbe lodare la
temperanza chi ripone il sommo bene nel piacere? La temperanza è nemica delle
passioni sensuali, mentre esse sono seguaci convinte dei piacere.
118. Eppure in questi tre tipi di virtù essi si destreggiano con una certa
abilità, in qualunque modo possibile: introducono (nel loro sistema) la prudenza
come la scienza che somministra i piaceri e allontana i dolori. Concedono un
posto in qualche modo anche alla fortezza d'animo, nell'insegnare il mezzo per
disprezzare la morte e tollerare il dolore. Tirano in ballo anche la temperanza,
invero non nel modo più facile, ma tuttavia in qualunque modo possono; dicono,
infatti, che la grandezza del piacere trova il suo limite nell'assenza del
dolore. Vacilla o piuttosto è a terra la giustizia, e cosi tutte le virtù che si
distinguono nella comunanza e nella società del genere umano. Non può esistere,
difatti, né bontà, né generosità, né affabilità e tanto meno l'amicizia, se esse
non sono ricercate di per sé stesse, ma commisurate al piacere e all'utilità.
119. Riassumiamo, dunque, in breve. Come abbiamo provato che non esiste utilità
contraria all'onestà, cosi diciamo che ogni piacere dei sensi è contrario
all'onestà. Tanto più ritengo che debbano essere biasimati Callifonte e Dinomaco,
che credettero di eliminare la controversia, unendo il piacere con l'onestà, il
che significa, all'incirca, accoppiare gli animali con l'uomo; l'onestà non
ammette questo connubio, lo spregia e lo respinge. Né, in verità, il fine del
bene e del male, che deve essere semplice, può essere costituito dalla
mescolanza e dal contemperamento di cose molto dissimili. Ma di questo -
trattandosi di una questione importante - parleremo a lungo in un'altra
occasione; ora torniamo all'assunto.
120. In qual modo, dunque, vada risolta la questione nei casi in cui l'utilità
apparente è in contrasto con l'onestà, è stato sufficientemente trattato sopra.
Se, poi, si dirà che anche il piacere ha un'apparenza di utilità, esso non può
avere alcun punto di contatto con l'onestà. Per concedere, difatti, qualche cosa
al piacere, forse esso avrà un qualche carattere di condimento, ma niente di
utile.
CONCLUSIONE
121. Tu ricevi da parte di tuo padre, o figlio Marco, un dono grande, a parer
mio, ma il cui valore dipenderà dalla maniera con cui tu l'accetterai. E' vero
che dovrai accogliere questi tre libri come ospiti tra i trattati di Cratippo;
ma, come avresti potuto udire anche me qualche volta, se fossi venuto ad Atene -
e l'avrei fatto, se la patria non mi avesse richiamato con chiara voce mentre mi
trovavo a metà viaggio - cosi, dal momento che questi volumi ti portano la mia
voce, dedicherai ad essi il tempo che potrai, ma ne potrai quanto ne vorrai.
Quando mi accorgerò che tu trai godimento da questo tipo di dottrina, allora con
te discorrerà in tua presenza tra poco, come spero, e di lontano finché sarai
assente. Stammi bene, mio Cicerone, e convinciti che mi stai moltissimo a cuore,
e lo sarai ancora di più, se trarrai godimento da questi ammonimenti e precetti.
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