Ludovico Geymonat e il neopositivismo
Già nel 1945, con Studi per un nuovo razionalismo, Geymonat si differenziava sia dal razionalismo
dogmatico che da quello
definibile "scientista",
evitando proposizioni di
tipo assolutistico.
Il nuovo razionalismo -
scriveva Geymonat
- «deve essere ben
più agguerrito e
penetrante di quelli che
caratterizzarono
i secoli passati: esso
deve contemporaneamente
essere critico, ossia capace
di tenere nel
dovuto conto le obiezioni
mosse contro la
pura ragione delle filosofie
mistiche e decadenti,
fiorite negli ultimi anni;
costruttivo, cioè
in grado di soddisfare
le esigenze di ricostruzione
e di logicità caratteristiche
della nuova
epoca; aperto, cioè capace
di affrontare
i problemi sempre nuovi
che la scienza e
la prassi pongono innanzi
allo spirito umano.»
A tale considerazione -
che oggi potrebbe
sembrare ovvia, ma non lo era nell'Italia del '45 - aggiunse
un'osservazione straordinariamente
importante,
che apriva le porte al
nuovo razionalismo
proposto ai marxisti ed
ai filosofi comunisti
di ogni ordine e grado.
«Naturalmente
egli [ossia il marxista,
ndr] sa ciò che
i vecchi razionalisti non
sapevano, e cioè
che ogni ricerca razionale
ha inizio con
un atto di precisazione
e postulazione, di
carattere ineliminabilmente
convenzionale;
non si atterrisce però
di fronte a questo
carattere.»
Pensiero, questo, che non
ripiegava di fronte
alle nuove difficoltà poste
dalla ricerca
filosofica e scientifica.
«Alle Philosophie ist Sprachkritik», aveva scritto Wittgenstein nel Tractatus, critica del linguaggio e dei suoi limiti.
«Ed infatti - osservava
Geymonat -
secondo i sostenitori del
Wiener Kreis, il
compito fondamentale delle
ricerche filosofiche
consiste proprio nel liberare,
con un'esatta
analisi logica, i nostri
concetti dall'oscurità
e imprecisione che li avvolge
(classico esempio:
l'analisi della causalità,
compiuta dallo
Hume), mentre il compito
caratteristico delle
ricerche scientifiche consiste
nella scoperta
di nuove proposizioni (leggi
o teoremi) da
aggiugersi a quelle già
note. In altre parole:
la ricerca scientifica
si propone di decidere
della verità o falsità
di un asserto; la
ricerca filosofica è diretta
invece a qualcosa
di molto più fondamentale,
e cioè a decidere,
colla precisione dell'esatto
significato
dei termini di un problema,
se esso ha senso
o non ha senso (se è veramente
"sinnvoll"
o "sinnloss").»
Era evidente: il nuovo
concetto di razionalità
surclassava i vecchi modi
di interderla,
sia quello illuminista
- che considerava
l'organizzazione della
natura e del cosmo
come prova della sua intrinseca
razionalità,
ma non riusciva a spiegare
la "materia"
- sia quello idealistico,
che negava «l'esistenza
della materia quale presupposto
irrazionale
della legalità, mostrando
che il contenuto
delle leggi è prodotto
dalle leggi medesime,
e non da una legge oggettiva
e metafisica
estrinseca ad esse»,
sia di quello
materialistico-metafisico,
che «non
negava razionalità integrale
della natura,
ma si limita a spostarne
l'origine dallo
"spirito" alla
"materia".»
Tra questo materialismo
e l'idealismo era
dunque in atto una reciproca
alimentazione.
Spesso la polemica rafforza
gli avversari,
quando non è in grado di
spegnerli con argomenti
schiaccianti. Il materialismo-metafisico
interpretava la razionalità
come intrinseca
al reale, ovvero qualcosa
che esiste in sé,
indipendentemente dalla
capacità umana di
coglierla ed esprimerla
mediante le leggi
della scienza.
«La razionalità del
reale non può,
ai nostri occhi, esprimere
altro se non questo:
tutto il reale è descrivibile in sistemi
logici precisi. E cioè: via via che a noi si presenta un
fatto reale, non vi è ostacolo
alcuno, che
ci impedisca - per principio
- di inserirlo
esso pure in un sistema
logicamente costruito
di proposizioni (si basi
questo sull'una
o sull'altra logica), che
spieghi tale fatto
unitamente a tutti i fatti
precedenti del
medesimo tipo [...]»
In una parola,
per Geymonat, non esisteva
una logica e una razionalità ma una pluralità di approcci razionali appropriati. Affermazioni
che andavano indirettamente
a criticare il
materialismo dialettico
ufficiale praticato
in Unione Sovietica con
Stalin e Lysenko,
ma che evitavano di appiattirsi
incondizionatamente
su quelle del neopositivismo
logico. «In
breve - scriveva ancora
Geymonat - la razionalità
risulta, in questa interpretazione,
una caratteristica
di certi sistemi linguistici,
non una proprietà
della "natura in sé".
Parlare,
come vorrebbe il metafisico,
di "una
natura in sé", cioè
di una natura pensata
come realtà esistente al
di sotto del linguaggio,
è -secondo noi - privo
di senso.»
Per Geymonat, insomma,
non si poteva pensare
una realtà inespressa in
attesa di qualcuno
in grado di esprimerla.
«La realtà
inespressa è un concetto
vuoto di senso.;
nessun uomo vive o è mai
vissuto in un mondo
inespresso.» Concludeva
così la propria
argomentazione: «la
così detta razionalità
della natura non può esser
altro che la razionalità
concreta determinata dalle
teorie scientifiche,
con le quali la natura
trovasi espressa.
E' la razionalità caratteristica
delle varie
teorie fisiche, chimiche,
biologiche, che
traducono in forma logica
precisa quanto
il linguaggio ordinario
esprime in forma
imprecisa. E' una razionalità
intrinseca
alla natura, in quanto
è intrinseca alla
lingua, fuori dalla quale
non ha senso parlare
di natura.»
Eppure, pur escludendo
che si potessero dare
valutazioni morali sugli
avvenimenti storici,
Geymonat non rinunciava
ad indicare una strada
di impegno morale: «L'individuo
deve
compiere la sua scelta
in base ad una considerazione
teoretica sulla modernità
degli organismi
di guerra, sulla maggiore
o minore efficacia
di essi ad apportare ordine
nella vita collettiva,
sulla maggiore o minore
loro idoneità a risolvere
problemi politici ed economici
del momento.
Per esempio combatterà
contro quel tipo di
organizzazione sociale
che suol denotarsi
col nome di capitalismo,
non perché ritenga
che esso risulti un male
in sé, ma perché
ritiene che, nell'attuale
situazione storica,
sia incapace di porre un
freno all'anarchia
della produzione, al caos
economico. Combatterà
contro la monarchia, non
perché l'istituzione
monarchica risulti un male
in sé, ma perché
ritiene che, nell'attuale
situazione storica,
essa costituisce un impedimento
al naturale
sviluppo dello stato moderno.»
Secondo Marcello Pera (1)
il punto cruciale
toccato negli Studi fu la riduzione neopositivistica della filosofia
a sola analisi logica dei
sistemi di conoscenze.
«Fatalmente, Geymonat
trovò che questa
riduzione costituiva una
limitazione arbitraria.
Nella prospettiva linguistica,
la conoscenza
è un sistema di proposizioni
con gli assiomi
da un lato, i protocolli
dall'altro e le
proposizioni vero-funzionali
in mezzo. I
neopositivisti si erano
limitati a questa
ricostruzione, insistendo
soprattutto sugli
aspetti sintattici e semantici.
Tuttavia,
era quasi spontaneo chiedersi:
"E' lecito limitarci ad una pura e semplice analisi
logica, escludendo per
principio ogni analisi
di altro tipo? Esaurisce essa, davvero, tutti i punti di vista, dai
quali possono venire studiati
i sistemi di
conoscenze? Non ci accadrà
mai di trovare
dei campi che sfuggono
al rigoroso formalismo
empirico?" (2)
Geymonat, - prosegue Pera
- che aveva robusta
preparazione filosofica,
sentiva che nella
limitazione posta dai neopositivisti
c'era
soltanto un "atto
di autorità".
E lo denunciò apertamente.
In quale lingua
- egli si chiese - si esprimeranno
le regole
secondo cui un gruppo di
proposizioni funge
da assiomi o secondo cui
un insieme di termini
è fornito di senso? Ci
son due possibilità:
o una lingua prima, ma
ciò viola il programma
dell'analisi logica, perché
tale lingua sarebbe
inanalizzabile; o un atto
inerziale extralinguistico,
ma ciò viola apertamente
l'impostazione linguistica;
nell'uno e nell'altro caso,
si avrebbe comunque
"un abbandono totale
dell'empirismo".»
Si delineò, insomma, una
vera e propria questione
del materiale linguistico.
Anche trascendendo
la lingua, non si poteva
negare al materiale
una sua esistenza. Sia
che si dica che i
segni linguistici sono
sensazioni, dato che
esse non esistono al di
fuori dei protocolli, sia che si dica che sono dati intuitivi,
si esce dai rigidi binari
dell'empirismo.
Così Geymonat comprese
che la detta riduzione
costituiva una limitazione
ingiustificata.
«Accettandola noi
veniamo ad ammettere
che sia necessario, per
penetrare il fondo
della logica empirica,
abbandonarsi dogmaticamente
ad essa, rinunciando a
priori a discutere
i suoi più elementari concetti.
Ora è bensì
vero che tutti gli altri
saranno preceduti
dalla critica più scrupolosa;
ma che importa
ciò se il primo passo è
dogmatico? Forse
che la stessa cosa non
accade per alcuni
sistemi metafisici?»
Sicché, riconoscendo che
"l'inizio della
lingua è qualcosa di irrimediabilmente
dogmatico"
e non di teoretico - mossa
tipicamente empirista
per liberarsi dalla morsa
asfissiante della
tradizione ontologica -
Geymonat vedeva una
debolezza filosofica ma non ancora uno svantaggio decisivo.
«Riflettiamo del
resto che, mentre
ben pochi uomini rivelano
un effettivo interesse
teoretico, la gran maggioranza
vive invece
completamente al di fuori
di ogni attività
conoscitiva. Non importa
nulla, a tale sterminato
numero di individui, che
l'inizio del sapere
sia dogmatico o non dogmatico:
la scienza
o la filosofia li interessa
solo, in quanto
credono di poterle applicare
a fini pratici.
E questa loro ateoreticità
non li umilia
e li intimorisce affatto.
Con che diritto
si potrebbe sostenere,
di fronte a questo
sterminato numero di individui,
che la vita
umana si esaurisce tutta
nel dominio della
lingua? Ciò che l'empirismo
può aver dimostrato,
è che tale dominio assorbe
l'intera nostra
vita. Se l'empirismo ha
ragione, la lingua
costituisce davvero il
presupposto di qualunque
atto conoscitivo, e di
qualunque formazione
scientifica; esso non è
però il presupposto
della vita umana, neanche
di quella dello
scienziato e del filosofo.»
A questo punto, venne chiaro
a Geymonat che
era possibile attribuire
una dignità filosofica
ad una serie di questioni
al di là della
lingua. Si trattava di
correggere i limiti
dell'empirismo facendo
ricorso ad un pensiero
non soggettivistico ed
emozionale. Come scriveva
ancora Marcello Pera: «Il
convenzionalismo
- la tesi che che gli elementi
primitivi
della lingua, anzi, carnapianamente,
delle
lingue, sono frutto di
stipulazione - eludeva
il problema del rapporto
tra pensiero ed
esperienza, come ebbe a
rimproverare Preti
(3), ma apriva un altro
problema, non meno
spinoso, quello della relazione
tra le lingue.»
Geymonat dovette fronteggiare
questo problema
in due occasioni. Prima,
quando affrontò
le conseguenze ultime,
ma coerenti, del "suo"
convenzionalismo per rispondere
alle critiche
di Eugenio Frola; poi,
quando egli stesso
si trovò ad applicare in
sede storiografica
il concetto di "tecniche
della ragione",
introdotto nel frattempo
da Nicola Abbagnano.
In entrambe le occasioni,
riuscì a superare
le difficoltà, oltrepassando
la gabbia della
sintassi logica con il
ricorso all'intuizione
e alla storia.
Scriveva ancora Pera: «Fu
per questa
via, che già a partire
dai Saggi di filosofia neorazionalistica del 1953, Geymonat cominciò ad allontanarsi
dal neopositivismo.
Frola aveva fatto da detonatore. Applicando
coerentemente i canoni del convenzionalismo,
era arrivato a scoprire quella che oggi è
nota, per altra via, come la tesi dell'incommensurabilità.
Nella forma più radicale, questa tesi fu
esposta da Frola in una conferenza tenuta
al Centro torinese col titolo "la matematica
come lingua chiusa e la conoscenza del mondo
fisico".»
Frola concepiva la matematica
come «una
rete pluridimensionale,
a maglie bizzarramente
intrecciate, di proposizioni
elementari dedotte
le une dalle altre con
precise norme. Ai
capi della rete. a renderne
impossibile lo
smagliarsi, stanno delle
proposizioni orginarie
che costituiscono i postulati,
che chiameremo
le proposizioni antecedenti,
o, più semplicemente,
gli "antecedenti della
matematica".»
(4)
Frola sosteneva che «i
vocaboli matematici
hanno unicamente significato
funzionale,
non possono riattaccarsi
ad altri che a se
stessi, sono definiti dalla
funzione che
essi compono nella costruzione
matematica.»
La sua tesi era che «la
matematica
si presenta come una lingua
chiusa in se
stessa che non si riattacca
a nulla di di
estraneo, a nessuna verità
esteriore sia
essa assoluta o relativa.»
Pera osservava in proposito
che se la matematica
fosse una lingua chiusa
e convenzionale,
e se fuori di essa non
esistesse un'altra
lingua capace di tradurne
almeno qualche
aspetto, e i risultati,
due teorie matematiche
sarebbero tra loro "incomparibili".
Conseguenza necessaria,
che il convenzionalismo
aveva già sperimentato
ai tempi della polemica
Le Roy-Poincaré.
Sembra che Frola fosse pressoché all'oscuro
di questo importante dibattito. L'elemento
cruciale era che pretendeva di estendere
questa impostazione anche alla fisica. Al
punto da sentirsi legittimato a scrivere:
«Se si volesse fare un confronto tra
la fisica aristotelica e la nostra fisica
e affermare che la prima è falsa e la seconda
è vera, si commetterebbe un gravissimo errore;
esse sono assolutamente imparagonabili, né
esiste una pietra di paragone su cui giudicarle
entrambe. I protocolli, le leggi della nostra
fisica non hanno alcun senso nella lingua
usata dall'altra fisica e viceversa. Esse
sono la descrizione di due mondi diversi,
non due descrizioni diverse di uno stesso
mondo.» Col che, qualsiasi individuo
di buon senso convinto che 2+2 faccia 4 anche
su Marte o su Andromeda resta basito in compagnia
di onde notturne di perplessità.
Geymonat, pur muovendo
a sua volta dal convenzionalismo,
si sentì in dovere di uscire
dall'angolo
di una situazione che rischiava
di precipitatare
in un relativismo irrazionale
e nel dramma
dell'incomunicabiità.
Nel 1953, con Saggi di filosofia neorazionalistica, il distacco dal relativo dogmatismo dei
convenzionalisti si fece
più nitido e solido.
«Il nuovo razionalista
non va alla
ricerca di principi metafisici
evidenti,
eterni e indiscutibili,
sui quali fondare
una scienza assoluta; ma
si sforza di determinare
con estrema precisione,
di volta in volta,
tutti i concetti con i
quali opera, tutti
i postulati dei quali si
serve, tutte le
trasformazioni che accetta
come logicamente
corrette. E poi con spirito
galileiano tenta
di modificare, ora i concetti,
ora i postulati,
ora i principi logici,
per vedere che cosa
possa scaturire da tali
modifiche.»
(5)
Per quanto riguardava la
matematica, Geymonat
pensò di "indebolire"
il convenzionalismo
aprendo all'intuizione
e puntando forte sulla
traducibilità. Secondo
Marcello Pera: «L'equilibrio
teorico era naturalmente
precario, perché,
da un lato, in omaggio
al convenzionalismo,
e alla prospettiva linguistica,
egli doveva
affermare "la più
energica negazione
della 'intuibilità' degli
assiomi', mentre,
dall'altro lato, in obbedienza
al razionalismo,
doveva ammettere la traducibilità
o la confrontabilità
delle teorie matematiche.
La soluzione fu
trovata nell'assumere,
fra queste teorie,
l'esistenza di rapporti
non sintattici, ma,
appunto, intuitivi. Geymonat
fece appello.
per giustificare questa
soluzione, alla pratica
effettiva del ricercatore.»
E scrisse: «Essendo
questo ricercatore
un essere storicamente
determinato la cui
vita non si esaurisce nello
sviluppo di teorie
matematiche, mi pare per
meno dogmatico escludere
apriori che tali teorie
abbiano per vasti
rapporti con altre, pur
sue, costruzioni
teoretiche formulate in
altre lingue. Non
si tratterà certo di rapporti
logici, perché
i rapporti logici sussistono
soltanto all'interno
di una determinata lingua;
si tratterà tuttavia
di rapporti che possono
risultare ricchi
di altri significati per
l'individualità
storica del ricercatore.
Proprio perché non
sono di natura logica,
ritengo che a proposito
di essi possa venir applicato,
senza pericolo
di malintesi, il termine
di "intuizione".»
Anche per la fisica, Geymonat
si persuase
che fosse indispensabile
un ridimensionamento
dell'ipoteca convenzionalista.
Ma, in questo
caso, più che all'intuizione,
si richiamò
alla storia.
«Ho detto che - a
differenza dei giochi,
capricciosamente arbitrari
e perciò senza
legami reciproci - le teorie
scientifiche
si trovano connesse le
une alle altrre da
rapporti storicamente determinati.
E ho anche
esemplificato in che consistono
di solito
questi rapporti: una teoria
nuova (con una
specifica grammatica logica)
riesce a risolvere
problemi e a superare difficoltà
precedentemente
apparse in un'altra teoria
(con altra grammatica
logica). Proprio quest'affermazione,
però,
è difficile ad ammettersi;
essa urta infatti
contro la completa chiusura
delle teorie
sostenuta da alcuni metodologi
(per es. dal
Frola): cioé contro il
fatto che, mutandosi
i concetti-base e le regole
di deduzione
da una teoria all'altra,
pare impossibile
che una qualsiasi proposizione
resti immutata
in questo passaggio, e
quindi pare inconcepibile
che un problema dell'una
possa ricomparire
identico nell'altra e venire
in essa risolto.
La difficoltà dell'argomento
dipende dalla
difficoltà di dare un senso
preciso ai rapporti
fra lingue diverse, e in
particolare al rapporto
fra il linguaggio rigorosamente
definito
e il linguaggio comune.
Malgrado l'indubbia
consistenza dell'obiezione,
io sono fermamente
convinto che tali rapporti
esistono, e che
anzi rappresentano qualcosa
di fondamentale
per la ricerca scientifica.
Negarli, equivale
a negare la realtà della
scienza, dare una
spiegazione razionale di
essi è, però, tutt'altro
che facile.»
Il commento di Marcello
Pera a questo passaggio
fu piuttosto critico: «Rispetto
alle
posizioni neopositivistiche
ortodosse, che
avevano per lo più trascurato
il problema,
era un passo avanti. Ma
non era ancora un
passo sicuro. Addurre semplicemente
un fatto
empirico (la comunicazione
fra i ricercatori,
i rapporti storici fra
le teorie) per dipanare
un problema concettuale
(le relazioni fra
"lingue chiuse")
è la peggiore
delle soluzioni filosofiche.
E Geymonat,
che neppure nel momento
di più intensa tentazione
neopositivistica aveva
mai dato le dimissioni
dal suo mestiere di filosofo,
non poteva
non accorgesene. Quanto
alla soluzione, egli
offrì però solo un compromesso,
una sorta
di equa giustapposizione
e distribuzione
delle istanze del logicismo
e dello storicismo
a cui sostanzialmente è
rimasto fedele anche
nelle fasi successive del
suo pensiero.»
Le osservazioni di Pera
sono pertinenti solo
in un sistema "chiuso"
a sua volta.
Ossia reso impermeabile
alla facoltà umana
di superare tutte le limitazioni
dogmatiche
sul piano gnoseologico.
E' impossibile credere
che esista davvero
un sistema chiuso e blindato,
tanto quanto
è impossibile arrendersi
all'idea che equazioni
come E=mc2 non siano comunicabili in un'altra lingua,
in un qualsiasi dialetto
evoluto. Semplicemente
sostituendo ai "simboli"
definizioni
precise nel dialetto prescelto,
si riesce
a tradurre il significato
esatto dell'equazione.
Se nel dialetto prescelto
non si trovano
corrispondenze, si inventano
neologismi.
Li si importano da una
lingua più evoluta.
I concetti di intraducibilità
e incommensurabilità
potrebbero, allora, essere
legittimamente
considerati come soprusi
di una ragione limitata
e dogmatica. Faccenda contro
la quale, Geymonat
lottò tutta la vita. Per
lo storico della
filosofia, tuttavia, il
problema continuerà
a presentarsi come problema, se a sua volta persisterà nell'accettare
la camicia di forza del
linguaggio chiuso.
Ciò che mancava in questa
ricostruzione storica di Pera, per altro indispensabile e puntuale, è
la sottolineatura del fatto
che Ludovico
Geymonat era già un materialista
dialettico
prima ancora di accorgersene
e di proclamarlo.
In tale visione superiore,
che andava maturando,
la situazione storica in cui opera il singolo ricercatore, ed insieme
a lui, tutta la comunità
scientifica e filosofica,
non è dato empirico qualsiasi, non è una collezione di sassolini che il bambino cerca di ordinare e interpretare,
ignorando la storia della
scienza, nella
sua beata innocenza. Ma, si sa, che tra Marcello Pera e una piena
comprensione delle dinamiche
del materialismo
dialettico (e una sua esposizione
decorosa)
è sempre mancata qualcosina:-)
Ciò toglie molto alla estrema
utilità della
sua ricostruzione ma, non
ne cancella l'importanza.
La sua sottolineatura delle
influenze esercitate
da Nicola Abbagnano con
l'introduzione nel
dibattito di un termine
quale "tecniche
della ragione" ebbe
realmente un ruolo
decisivo nel procedere
della ricerca di Ludovico
Geymonat, come vedremo
prossimamente.
Note:
(1) Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza
- in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi
- a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
2) Ludovico Geymonat -
Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
3) Giulio Preti - I limiti dell'empirismo - in "Studi filosofici", VII (1946)
4) Eugenio Frola - Fondamenti logici della scienza - rist. in Scritti metodologici - Giappichelli 1964 (con introduzione di
L. Geymonat: Il significato del contributo di Eugenio
Frola alla rinascita della metodologia della
scienza in Italia)
5) Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Bibliografia
Il problema della conoscenza nel positivismo - Bocca - Torino 1931
La nuova filosofia della natura in Germania - Bocca - Torino 1934
Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Galileo Galilei - Einaudi - Torino 1957
Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
Filosofia e pedagogia nella storia della
civiltà, con Renato Tisato - Garzanti - Milano 1965,
3 voll.
Attualità del materialismo dialettico, con Enrico Bellone, Giulio Giorello e Silvano
Tagliagambe, Editori Riuniti, Roma 1974
Scienza e realismo - Feltrinelli - Milano 1982
Paradossi e rivoluzioni Intervista su scienza e politica - a cura
di Giulio Giorello e Marco Mondadori - Il
Saggiatore, Milano 1979.
Filosofia della probabilità con Domenico Costantini - Feltrinelli -
Milano 1982
Riflessioni critiche su Kuhn e Popper - Dedalo - Bari 1983
Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milano 1985, seguita da una
nuova edizione con una Postfazione e un aggiornamento
della bibliografia di Fabio Minazzi, Utet,
Torino 2006
Le ragioni della scienza con Giulio Giorello e Fabio Minazzi - Laterza,
Roma-Bari 1986
Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti - Milano 1970-1976, 7 voll.
La libertà - Rusconi - Milano 1988
La società come milizia, a cura di Fabio Minazzi, Marcos y Marcos
1989
nuova edizione La civiltà come milizia, a cura di Fabio Minazzi - La Città del
Sole - Napoli 2008
I sentimenti - Rusconi - Milano 1989
Filosofia, scienza e verità, con Evandro Agazzi e Fabio Minazzi - Rusconi
- Milano 1989
La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche
e scientifiche nel Wiener Kreis - a cura di Mario Quaranta - il Poligrafo,
Padova 1991
Dialoghi sulla pace e la libertà, con Fabio Minazzi - Cuen - Napoli 1992
La ragione, con Fabio Minazzi e Carlo Sini - Piemme
- Casale Monferrato 1994
Moses - ottobre 2012
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Neopositivismo
Eugenio Frola
Nicola Abbagnano - di Pietro Rossi
Introduzione a Ludovico Geymonat
Ludovico Geymonat: l'impegno per un nuovo
razionalismo
Ludovico Geymonat: dal neorazionalismo alla
filosofia della scienza
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