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Ludovico Geymonat e il neopositivismo

Già nel 1945, con Studi per un nuovo razionalismo, Geymonat si differenziava sia dal razionalismo dogmatico che da quello definibile "scientista", evitando proposizioni di tipo assolutistico. Il nuovo razionalismo - scriveva Geymonat - «deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati: esso deve contemporaneamente essere critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione delle filosofie mistiche e decadenti, fiorite negli ultimi anni; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ricostruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano.» A tale considerazione - che oggi potrebbe sembrare ovvia, ma non lo era nell'Italia del '45 - aggiunse un'osservazione straordinariamente importante, che apriva le porte al nuovo razionalismo proposto ai marxisti ed ai filosofi comunisti di ogni ordine e grado. «Naturalmente egli [ossia il marxista, ndr] sa ciò che i vecchi razionalisti non sapevano, e cioè che ogni ricerca razionale ha inizio con un atto di precisazione e postulazione, di carattere ineliminabilmente convenzionale; non si atterrisce però di fronte a questo carattere.»
Pensiero, questo, che non ripiegava di fronte alle nuove difficoltà poste dalla ricerca filosofica e scientifica. «Alle Philosophie ist Sprachkritik», aveva scritto Wittgenstein nel Tractatus, critica del linguaggio e dei suoi limiti. «Ed infatti - osservava Geymonat - secondo i sostenitori del Wiener Kreis, il compito fondamentale delle ricerche filosofiche consiste proprio nel liberare, con un'esatta analisi logica, i nostri concetti dall'oscurità e imprecisione che li avvolge (classico esempio: l'analisi della causalità, compiuta dallo Hume), mentre il compito caratteristico delle ricerche scientifiche consiste nella scoperta di nuove proposizioni (leggi o teoremi) da aggiugersi a quelle già note. In altre parole: la ricerca scientifica si propone di decidere della verità o falsità di un asserto; la ricerca filosofica è diretta invece a qualcosa di molto più fondamentale, e cioè a decidere, colla precisione dell'esatto significato dei termini di un problema, se esso ha senso o non ha senso (se è veramente "sinnvoll" o "sinnloss").»

Era evidente: il nuovo concetto di razionalità surclassava i vecchi modi di interderla, sia quello illuminista - che considerava l'organizzazione della natura e del cosmo come prova della sua intrinseca razionalità, ma non riusciva a spiegare la "materia" - sia quello idealistico, che negava «l'esistenza della materia quale presupposto irrazionale della legalità, mostrando che il contenuto delle leggi è prodotto dalle leggi medesime, e non da una legge oggettiva e metafisica estrinseca ad esse», sia di quello materialistico-metafisico, che «non negava razionalità integrale della natura, ma si limita a spostarne l'origine dallo "spirito" alla "materia".»
Tra questo materialismo e l'idealismo era dunque in atto una reciproca alimentazione. Spesso la polemica rafforza gli avversari, quando non è in grado di spegnerli con argomenti schiaccianti. Il materialismo-metafisico interpretava la razionalità come intrinseca al reale, ovvero qualcosa che esiste in sé, indipendentemente dalla capacità umana di coglierla ed esprimerla mediante le leggi della scienza.
«La razionalità del reale non può, ai nostri occhi, esprimere altro se non questo: tutto il reale è descrivibile in sistemi logici precisi. E cioè: via via che a noi si presenta un fatto reale, non vi è ostacolo alcuno, che ci impedisca - per principio - di inserirlo esso pure in un sistema logicamente costruito di proposizioni (si basi questo sull'una o sull'altra logica), che spieghi tale fatto unitamente a tutti i fatti precedenti del medesimo tipo [...]» In una parola, per Geymonat, non esisteva una logica e una razionalità ma una pluralità di approcci razionali appropriati. Affermazioni che andavano indirettamente a criticare il materialismo dialettico ufficiale praticato in Unione Sovietica con Stalin e Lysenko, ma che evitavano di appiattirsi incondizionatamente su quelle del neopositivismo logico. «In breve - scriveva ancora Geymonat - la razionalità risulta, in questa interpretazione, una caratteristica di certi sistemi linguistici, non una proprietà della "natura in sé". Parlare, come vorrebbe il metafisico, di "una natura in sé", cioè di una natura pensata come realtà esistente al di sotto del linguaggio, è -secondo noi - privo di senso.»
Per Geymonat, insomma, non si poteva pensare una realtà inespressa in attesa di qualcuno in grado di esprimerla. «La realtà inespressa è un concetto vuoto di senso.; nessun uomo vive o è mai vissuto in un mondo inespresso.» Concludeva così la propria argomentazione: «la così detta razionalità della natura non può esser altro che la razionalità concreta determinata dalle teorie scientifiche, con le quali la natura trovasi espressa. E' la razionalità caratteristica delle varie teorie fisiche, chimiche, biologiche, che traducono in forma logica precisa quanto il linguaggio ordinario esprime in forma imprecisa. E' una razionalità intrinseca alla natura, in quanto è intrinseca alla lingua, fuori dalla quale non ha senso parlare di natura.»
Eppure, pur escludendo che si potessero dare valutazioni morali sugli avvenimenti storici, Geymonat non rinunciava ad indicare una strada di impegno morale: «L'individuo deve compiere la sua scelta in base ad una considerazione teoretica sulla modernità degli organismi di guerra, sulla maggiore o minore efficacia di essi ad apportare ordine nella vita collettiva, sulla maggiore o minore loro idoneità a risolvere problemi politici ed economici del momento. Per esempio combatterà contro quel tipo di organizzazione sociale che suol denotarsi col nome di capitalismo, non perché ritenga che esso risulti un male in sé, ma perché ritiene che, nell'attuale situazione storica, sia incapace di porre un freno all'anarchia della produzione, al caos economico. Combatterà contro la monarchia, non perché l'istituzione monarchica risulti un male in sé, ma perché ritiene che, nell'attuale situazione storica, essa costituisce un impedimento al naturale sviluppo dello stato moderno.»

Secondo Marcello Pera (1) il punto cruciale toccato negli Studi fu la riduzione neopositivistica della filosofia a sola analisi logica dei sistemi di conoscenze. «Fatalmente, Geymonat trovò che questa riduzione costituiva una limitazione arbitraria. Nella prospettiva linguistica, la conoscenza è un sistema di proposizioni con gli assiomi da un lato, i protocolli dall'altro e le proposizioni vero-funzionali in mezzo. I neopositivisti si erano limitati a questa ricostruzione, insistendo soprattutto sugli aspetti sintattici e semantici. Tuttavia, era quasi spontaneo chiedersi: "E' lecito limitarci ad una pura e semplice analisi logica, escludendo per principio ogni analisi di altro tipo? Esaurisce essa, davvero, tutti i punti di vista, dai quali possono venire studiati i sistemi di conoscenze? Non ci accadrà mai di trovare dei campi che sfuggono al rigoroso formalismo empirico?" (2)
Geymonat, - prosegue Pera - che aveva robusta preparazione filosofica, sentiva che nella limitazione posta dai neopositivisti c'era soltanto un "atto di autorità". E lo denunciò apertamente. In quale lingua - egli si chiese - si esprimeranno le regole secondo cui un gruppo di proposizioni funge da assiomi o secondo cui un insieme di termini è fornito di senso? Ci son due possibilità: o una lingua prima, ma ciò viola il programma dell'analisi logica, perché tale lingua sarebbe inanalizzabile; o un atto inerziale extralinguistico, ma ciò viola apertamente l'impostazione linguistica; nell'uno e nell'altro caso, si avrebbe comunque "un abbandono totale dell'empirismo".»
Si delineò, insomma, una vera e propria questione del materiale linguistico. Anche trascendendo la lingua, non si poteva negare al materiale una sua esistenza. Sia che si dica che i segni linguistici sono sensazioni, dato che esse non esistono al di fuori dei protocolli, sia che si dica che sono dati intuitivi, si esce dai rigidi binari dell'empirismo.
Così Geymonat comprese che la detta riduzione costituiva una limitazione ingiustificata. «Accettandola noi veniamo ad ammettere che sia necessario, per penetrare il fondo della logica empirica, abbandonarsi dogmaticamente ad essa, rinunciando a priori a discutere i suoi più elementari concetti. Ora è bensì vero che tutti gli altri saranno preceduti dalla critica più scrupolosa; ma che importa ciò se il primo passo è dogmatico? Forse che la stessa cosa non accade per alcuni sistemi metafisici?»
Sicché, riconoscendo che "l'inizio della lingua è qualcosa di irrimediabilmente dogmatico" e non di teoretico - mossa tipicamente empirista per liberarsi dalla morsa asfissiante della tradizione ontologica - Geymonat vedeva una debolezza filosofica ma non ancora uno svantaggio decisivo.
«Riflettiamo del resto che, mentre ben pochi uomini rivelano un effettivo interesse teoretico, la gran maggioranza vive invece completamente al di fuori di ogni attività conoscitiva. Non importa nulla, a tale sterminato numero di individui, che l'inizio del sapere sia dogmatico o non dogmatico: la scienza o la filosofia li interessa solo, in quanto credono di poterle applicare a fini pratici. E questa loro ateoreticità non li umilia e li intimorisce affatto. Con che diritto si potrebbe sostenere, di fronte a questo sterminato numero di individui, che la vita umana si esaurisce tutta nel dominio della lingua? Ciò che l'empirismo può aver dimostrato, è che tale dominio assorbe l'intera nostra vita. Se l'empirismo ha ragione, la lingua costituisce davvero il presupposto di qualunque atto conoscitivo, e di qualunque formazione scientifica; esso non è però il presupposto della vita umana, neanche di quella dello scienziato e del filosofo.»

A questo punto, venne chiaro a Geymonat che era possibile attribuire una dignità filosofica ad una serie di questioni al di là della lingua. Si trattava di correggere i limiti dell'empirismo facendo ricorso ad un pensiero non soggettivistico ed emozionale. Come scriveva ancora Marcello Pera: «Il convenzionalismo - la tesi che che gli elementi primitivi della lingua, anzi, carnapianamente, delle lingue, sono frutto di stipulazione - eludeva il problema del rapporto tra pensiero ed esperienza, come ebbe a rimproverare Preti (3), ma apriva un altro problema, non meno spinoso, quello della relazione tra le lingue.» Geymonat dovette fronteggiare questo problema in due occasioni. Prima, quando affrontò le conseguenze ultime, ma coerenti, del "suo" convenzionalismo per rispondere alle critiche di Eugenio Frola; poi, quando egli stesso si trovò ad applicare in sede storiografica il concetto di "tecniche della ragione", introdotto nel frattempo da Nicola Abbagnano. In entrambe le occasioni, riuscì a superare le difficoltà, oltrepassando la gabbia della sintassi logica con il ricorso all'intuizione e alla storia.
Scriveva ancora Pera: «Fu per questa via, che già a partire dai Saggi di filosofia neorazionalistica del 1953, Geymonat cominciò ad allontanarsi dal neopositivismo.
Frola aveva fatto da detonatore. Applicando coerentemente i canoni del convenzionalismo, era arrivato a scoprire quella che oggi è nota, per altra via, come la tesi dell'incommensurabilità. Nella forma più radicale, questa tesi fu esposta da Frola in una conferenza tenuta al Centro torinese col titolo "la matematica come lingua chiusa e la conoscenza del mondo fisico".»
Frola concepiva la matematica come «una rete pluridimensionale, a maglie bizzarramente intrecciate, di proposizioni elementari dedotte le une dalle altre con precise norme. Ai capi della rete. a renderne impossibile lo smagliarsi, stanno delle proposizioni orginarie che costituiscono i postulati, che chiameremo le proposizioni antecedenti, o, più semplicemente, gli "antecedenti della matematica".» (4)
Frola sosteneva che «i vocaboli matematici hanno unicamente significato funzionale, non possono riattaccarsi ad altri che a se stessi, sono definiti dalla funzione che essi compono nella costruzione matematica.» La sua tesi era che «la matematica si presenta come una lingua chiusa in se stessa che non si riattacca a nulla di di estraneo, a nessuna verità esteriore sia essa assoluta o relativa.»
Pera osservava in proposito che se la matematica fosse una lingua chiusa e convenzionale, e se fuori di essa non esistesse un'altra lingua capace di tradurne almeno qualche aspetto, e i risultati, due teorie matematiche sarebbero tra loro "incomparibili". Conseguenza necessaria, che il convenzionalismo aveva già sperimentato ai tempi della polemica Le Roy-Poincaré.
Sembra che Frola fosse pressoché all'oscuro di questo importante dibattito. L'elemento cruciale era che pretendeva di estendere questa impostazione anche alla fisica. Al punto da sentirsi legittimato a scrivere: «Se si volesse fare un confronto tra la fisica aristotelica e la nostra fisica e affermare che la prima è falsa e la seconda è vera, si commetterebbe un gravissimo errore; esse sono assolutamente imparagonabili, né esiste una pietra di paragone su cui giudicarle entrambe. I protocolli, le leggi della nostra fisica non hanno alcun senso nella lingua usata dall'altra fisica e viceversa. Esse sono la descrizione di due mondi diversi, non due descrizioni diverse di uno stesso mondo.» Col che, qualsiasi individuo di buon senso convinto che 2+2 faccia 4 anche su Marte o su Andromeda resta basito in compagnia di onde notturne di perplessità.

Geymonat, pur muovendo a sua volta dal convenzionalismo, si sentì in dovere di uscire dall'angolo di una situazione che rischiava di precipitatare in un relativismo irrazionale e nel dramma dell'incomunicabiità.
Nel 1953, con Saggi di filosofia neorazionalistica, il distacco dal relativo dogmatismo dei convenzionalisti si fece più nitido e solido. «Il nuovo razionalista non va alla ricerca di principi metafisici evidenti, eterni e indiscutibili, sui quali fondare una scienza assoluta; ma si sforza di determinare con estrema precisione, di volta in volta, tutti i concetti con i quali opera, tutti i postulati dei quali si serve, tutte le trasformazioni che accetta come logicamente corrette. E poi con spirito galileiano tenta di modificare, ora i concetti, ora i postulati, ora i principi logici, per vedere che cosa possa scaturire da tali modifiche.» (5)
Per quanto riguardava la matematica, Geymonat pensò di "indebolire" il convenzionalismo aprendo all'intuizione e puntando forte sulla traducibilità. Secondo Marcello Pera: «L'equilibrio teorico era naturalmente precario, perché, da un lato, in omaggio al convenzionalismo, e alla prospettiva linguistica, egli doveva affermare "la più energica negazione della 'intuibilità' degli assiomi', mentre, dall'altro lato, in obbedienza al razionalismo, doveva ammettere la traducibilità o la confrontabilità delle teorie matematiche. La soluzione fu trovata nell'assumere, fra queste teorie, l'esistenza di rapporti non sintattici, ma, appunto, intuitivi. Geymonat fece appello. per giustificare questa soluzione, alla pratica effettiva del ricercatore.»
E scrisse: «Essendo questo ricercatore un essere storicamente determinato la cui vita non si esaurisce nello sviluppo di teorie matematiche, mi pare per meno dogmatico escludere apriori che tali teorie abbiano per vasti rapporti con altre, pur sue, costruzioni teoretiche formulate in altre lingue. Non si tratterà certo di rapporti logici, perché i rapporti logici sussistono soltanto all'interno di una determinata lingua; si tratterà tuttavia di rapporti che possono risultare ricchi di altri significati per l'individualità storica del ricercatore. Proprio perché non sono di natura logica, ritengo che a proposito di essi possa venir applicato, senza pericolo di malintesi, il termine di "intuizione".»
Anche per la fisica, Geymonat si persuase che fosse indispensabile un ridimensionamento dell'ipoteca convenzionalista. Ma, in questo caso, più che all'intuizione, si richiamò alla storia.
«Ho detto che - a differenza dei giochi, capricciosamente arbitrari e perciò senza legami reciproci - le teorie scientifiche si trovano connesse le une alle altrre da rapporti storicamente determinati. E ho anche esemplificato in che consistono di solito questi rapporti: una teoria nuova (con una specifica grammatica logica) riesce a risolvere problemi e a superare difficoltà precedentemente apparse in un'altra teoria (con altra grammatica logica). Proprio quest'affermazione, però, è difficile ad ammettersi; essa urta infatti contro la completa chiusura delle teorie sostenuta da alcuni metodologi (per es. dal Frola): cioé contro il fatto che, mutandosi i concetti-base e le regole di deduzione da una teoria all'altra, pare impossibile che una qualsiasi proposizione resti immutata in questo passaggio, e quindi pare inconcepibile che un problema dell'una possa ricomparire identico nell'altra e venire in essa risolto.
La difficoltà dell'argomento dipende dalla difficoltà di dare un senso preciso ai rapporti fra lingue diverse, e in particolare al rapporto fra il linguaggio rigorosamente definito e il linguaggio comune. Malgrado l'indubbia consistenza dell'obiezione, io sono fermamente convinto che tali rapporti esistono, e che anzi rappresentano qualcosa di fondamentale per la ricerca scientifica. Negarli, equivale a negare la realtà della scienza, dare una spiegazione razionale di essi è, però, tutt'altro che facile.»

Il commento di Marcello Pera a questo passaggio fu piuttosto critico: «Rispetto alle posizioni neopositivistiche ortodosse, che avevano per lo più trascurato il problema, era un passo avanti. Ma non era ancora un passo sicuro. Addurre semplicemente un fatto empirico (la comunicazione fra i ricercatori, i rapporti storici fra le teorie) per dipanare un problema concettuale (le relazioni fra "lingue chiuse") è la peggiore delle soluzioni filosofiche. E Geymonat, che neppure nel momento di più intensa tentazione neopositivistica aveva mai dato le dimissioni dal suo mestiere di filosofo, non poteva non accorgesene. Quanto alla soluzione, egli offrì però solo un compromesso, una sorta di equa giustapposizione e distribuzione delle istanze del logicismo e dello storicismo a cui sostanzialmente è rimasto fedele anche nelle fasi successive del suo pensiero.»
Le osservazioni di Pera sono pertinenti solo in un sistema "chiuso" a sua volta. Ossia reso impermeabile alla facoltà umana di superare tutte le limitazioni dogmatiche sul piano gnoseologico.
E' impossibile credere che esista davvero un sistema chiuso e blindato, tanto quanto è impossibile arrendersi all'idea che equazioni come E=mc2 non siano comunicabili in un'altra lingua, in un qualsiasi dialetto evoluto. Semplicemente sostituendo ai "simboli" definizioni precise nel dialetto prescelto, si riesce a tradurre il significato esatto dell'equazione. Se nel dialetto prescelto non si trovano corrispondenze, si inventano neologismi. Li si importano da una lingua più evoluta. I concetti di intraducibilità e incommensurabilità potrebbero, allora, essere legittimamente considerati come soprusi di una ragione limitata e dogmatica. Faccenda contro la quale, Geymonat lottò tutta la vita. Per lo storico della filosofia, tuttavia, il problema continuerà a presentarsi come problema, se a sua volta persisterà nell'accettare la camicia di forza del linguaggio chiuso. Ciò che mancava in questa ricostruzione storica di Pera, per altro indispensabile e puntuale, è la sottolineatura del fatto che Ludovico Geymonat era già un materialista dialettico prima ancora di accorgersene e di proclamarlo. In tale visione superiore, che andava maturando, la situazione storica in cui opera il singolo ricercatore, ed insieme a lui, tutta la comunità scientifica e filosofica, non è dato empirico qualsiasi, non è una collezione di sassolini che il bambino cerca di ordinare e interpretare, ignorando la storia della scienza, nella sua beata innocenza. Ma, si sa, che tra Marcello Pera e una piena comprensione delle dinamiche del materialismo dialettico (e una sua esposizione decorosa) è sempre mancata qualcosina:-)

Ciò toglie molto alla estrema utilità della sua ricostruzione ma, non ne cancella l'importanza. La sua sottolineatura delle influenze esercitate da Nicola Abbagnano con l'introduzione nel dibattito di un termine quale "tecniche della ragione" ebbe realmente un ruolo decisivo nel procedere della ricerca di Ludovico Geymonat, come vedremo prossimamente.


Note:
(1) Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza - in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985
2) Ludovico Geymonat - Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
3) Giulio Preti - I limiti dell'empirismo - in "Studi filosofici", VII (1946)
4) Eugenio Frola - Fondamenti logici della scienza - rist. in Scritti metodologici - Giappichelli 1964 (con introduzione di L. Geymonat: Il significato del contributo di Eugenio Frola alla rinascita della metodologia della scienza in Italia)
5) Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Bibliografia
Il problema della conoscenza nel positivismo - Bocca - Torino 1931
La nuova filosofia della natura in Germania - Bocca - Torino 1934
Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Galileo Galilei - Einaudi - Torino 1957
Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà, con Renato Tisato - Garzanti - Milano 1965, 3 voll.
Attualità del materialismo dialettico, con Enrico Bellone, Giulio Giorello e Silvano Tagliagambe, Editori Riuniti, Roma 1974
Scienza e realismo - Feltrinelli - Milano 1982
Paradossi e rivoluzioni Intervista su scienza e politica - a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori - Il Saggiatore, Milano 1979.
Filosofia della probabilità con Domenico Costantini - Feltrinelli - Milano 1982
Riflessioni critiche su Kuhn e Popper - Dedalo - Bari 1983
Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori, Milano 1985, seguita da una nuova edizione con una Postfazione e un aggiornamento della bibliografia di Fabio Minazzi, Utet, Torino 2006
Le ragioni della scienza con Giulio Giorello e Fabio Minazzi - Laterza, Roma-Bari 1986
Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti - Milano 1970-1976, 7 voll.
La libertà - Rusconi - Milano 1988
La società come milizia, a cura di Fabio Minazzi, Marcos y Marcos 1989
nuova edizione La civiltà come milizia, a cura di Fabio Minazzi - La Città del Sole - Napoli 2008

I sentimenti - Rusconi - Milano 1989
Filosofia, scienza e verità, con Evandro Agazzi e Fabio Minazzi - Rusconi - Milano 1989
La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis - a cura di Mario Quaranta - il Poligrafo, Padova 1991
Dialoghi sulla pace e la libertà, con Fabio Minazzi - Cuen - Napoli 1992
La ragione, con Fabio Minazzi e Carlo Sini - Piemme - Casale Monferrato 1994

Moses - ottobre 2012

Neopositivismo
Eugenio Frola
Nicola Abbagnano - di Pietro Rossi

Introduzione a Ludovico Geymonat
Ludovico Geymonat: l'impegno per un nuovo razionalismo
Ludovico Geymonat: dal neorazionalismo alla filosofia della scienza