Ludovico Geymonat: dal neorazionalismo alla
filosofia della scienza
Si può parlare di un declino e di una vera
a propria "sconfitta" del neorazionalismo? In termini molto generali certamente sì.
Tutto sta ad intendersi sul significato della
parola. Definisce un gruppo di filosofi omogeneo
per alcuni aspetti ed eterogeneo per altri.
Certamente, è altrettanto vero che prima
di dichiarare "sconfitti" i singoli
protagonisti di quel movimento filosofico,
occorrerebbe qualche cautela. Il neorazionalismo
nel suo insieme ha continuato ad operare
nella cultura italiana anche durante l'epoca
del post-moderno, della "crisi della ragione" e
del "pensiero debole", quindi ben
oltre lo spartiacque degli anni Sessanta
e Settanta. Sono sorte nuove voci, come quella
agguerrita di Carlo Augusto Viano, inflessibile
avversario del "pensiero debole"
(1) - da lui definito ironicamente "pensiero
dei flebili" - quella di Paolo Rossi
e di tanti altri, da Antonio Santucci a Uberto
Scarpelli e Ferruccio Rossi-Landi. Per molti
decenni, Norberto Bobbio ha continuato a
svolgere un magistero insostituibile nell'ambito
della filosofia politica e degli studi giuridici,
dimostrandosi come il più lucido e coerente
tra i filosofi in diverso modo riportabili
all'area neorazionalista originaria. Oggi,
per designare quella tradizione si ricorre
abbondantemente al termine "laico"
ma, con ciò si rischiano sovrapposizioni
indebite: anche Croce e Gentile furono "laici",
anche l'irrazionalismo era "laico",
riportando tutto all'individuo extra-sociale,
genio o disadattato che fosse, mentre una
consistente parte del mondo cattolico rivendicava,
e rivendica, la propria razionalità, alla
luce dei principi "fides et ratio",
spesso "ipse dixit".
Per evitare di incagliarsi
in quei giochetti
di etichettatura che, a
volte portano a chiarezza,
ma altre tanta confusione,
lo storico della
filosofia dovrebbe porre
più attenzione ai
testi, ai documenti, alle
prese di posizione
dei singoli, ai rapporti
che questi intrattevano
con l'industria culturale
da un lato, e la
società civile dall'altro.
L'unico dato certo
della seconda metà del
Novecento è che il
post-moderno rubò la scena al neo-razionalismo attraverso
una operazione mediatica ed accademica di
grandi proporzioni. Anzi, ad esser precisi,
trovò anche il modo di procurarsi nuove scene,
di estendere il raggio d'azione e di influenza
della "filosofia". Il '68, questo
sì, contribuì in maniera rivoluzionaria a
mutare il rapporto tra gli studenti, ed anche
alcune avanguardie operaie, e la cultura
filosofica. Fu quella una stagione in cui
molti si sentivano filosofi, muovendo da
Marx e da Freud, da Marcuse e Luckacs, da
Sartre e da... Geymonat, nonché dal sorgere
di nuovi punti di vista "marxisti"
in pensatori di nuova generazione quali Mario
Tronti e Raniero Panzieri. Una tesi facilmente
sostenibile potrebbe allora esser la seguente:
lo sconvolgimento dei rapporti accademici
originato dal '68 portò successivamente alla ribalta il post-moderno. Il '68, nel suo insieme, si ritagliò non
pochi meriti, e quindi
anche demeriti, nella
temporanea liquidazione
del neorazionalismo,
interpretato - per farla
breve - come sovrastruttura
borghese, una artefatta
costruzione retorica
di consenso ai modelli
sociali dominanti.
Teorizzazone grossolana
fin che si vuole,
ma radicata nelle convinzioni
di decine di
migliaia di leader studenteschi
ed operai
di quella stagione. Molti
dei primi divennero
professori di filosofia
e docenti universitari.
Buona parte dei secondi
scomparve nell'anonimato
delle burocrazie sindacali,
autentiche "gabbie
di ferro" della sociologia
weberiana,
e poi luhmaniana.
Il problema, tuttavia, resta: nel '68 il
neorazionalismo era già stato sconfitto e
non aveva alcuna rappresentanza politica.
O, se si preferisce, la cultura politica
aveva scelto altre tradizioni: il marxismo
storicistico dei gramsciani, il pensiero
cattolico patrocinato dalla Chiesa. Due universi
impermeabili alle infiltrazioni, del tutto,
o in gran parte, autosufficienti. Modi di
pensare in grado di svolgere una funzione
pedagogica di massa: in altre parole, di
indottrinare quadri ed attivisti, ed orientare
le masse secondo principi elementari. Sotto
questo profilo, il neorazionalismo era già
perdente. Da un lato il PCI aveva le sue
scuole di partito e fior di "intellettuali
organici e semiorganici" in grado di
insegnare; dall'altro la Chiesa disponeva
di innumerevoli cinghie di trasmissione,
le sue università innanzi tutto, i collegi
e le sue scuole di catechismo, alle quali
si aggiungeva l'ora di religione nelle scuole
pubbliche e il controllo assoluto della Rai-tv
in piena espansione. Il neorazionalismo non
aveva altro che la forza propulsiva dei suoi
"professori", capaci solo di elaborare,
discutere e polemizzare, nonché di insegnare
ai pochi privilegiati che a quei tempi frequentavano
gli studi superiori e l'università. Oggi
si direbbe che incontrava problemi insuperabili
di audience, e per di più soffriva del male comune a
diverse filosofie: quello del linguaggio
autoreferenziale. Capacità di attrazione
prossima allo zero. Arrivava ad ingegneri,
medici, tecnocrati, qualche notaio e qualche
avvocato, matematici già iniziati alle tecniche
della ragione di cui s'è detto. Anche l'ultimo
degli attuali esperti di markenting non avrebbe avuto difficoltà a pronosticare
un insuccesso. Ma questo, ovviamente, non
sarebbe suonato, e nemmeno oggi suonerebbe,
come un demerito. C'è sicuramente sempre qualcosa di più importante del successo
e del consenso delle masse. Cosa sia, in
definitiva, lo possono sapere solo il filosofo
e lo scienziato convinti di avere guadagnato
una spiegazione più convincente di quelle
precedenti, e forse l'artista persuaso di
aver mostrato qualcosa di ignoto prima della
sua performance.
La relativa ostilità della Chiesa preconciliare
al neorazionalismo si può dare per scontata.
Quella del più grande partito comunista dell'Occidente
merita un supplemento di indagine. Fermo
restando che la nascita e lo sviluppo della
filosofia della scienza in Italia, per uno
di quei paradossi storici che trova spiegazione
solo nella dialettica delle idee in contrasto
in menti veramente razionali, è legata a
due figure più o meno compromesse con le
rispettive "chiese" dogmatiche:
il militante comunista Ludovico Geymonat
da un lato e il cattolico Evandro Agazzi
dall'altro. Come a dire cioè che alcuni degli
sviluppi più conseguenti del neorazionalismo trovarono accoglimento nell'ibridazione
con altre tradizioni di
pensiero, con tensioni interiori che altri protagonisti non avevavno avvertito
a sufficienza.
In definitiva, si potrebbe riconoscere che
entrambi seppero mettere a frutto la relativa
contraddittorietà della loro condizione.
Da un lato, l'irresistibile impulso alla
libertà del pensiero e dall'altro, una sorta
di autocensura liberamente accettata, un
costante imperativo a stare da "quella
parte" nonostante tutte le difficoltà.
La singolare vicenda di Geymonat culminò
nella constatazione che il rapporto con il
PCI, ovvero la cultura e la mentalità dei
dirigenti comunisti italiani, era sempre
più ipotecata dallo storicismo e dall'idealismo.
Il punto che si è cercato di evidenziare
negli articoli precedenti era quello della
scissione tra il filosofo ed il militante,
come si trattasse, per l'appunto di due individui
diversi. Ora, questo fatto potrebbe non essere
considerato sorprendente e nemmeno "patologico".
E' del tutto legittimo che un filosofo professi
una convinzione profonda, quella della insostenibilità
razionale di tutte le metafisiche e poi ritenga
altrettanto razionale militare contro l'anarchia
del capitalismo e le sue ingiustizie. Per
costui non ha molta importanza che il plusvalore sia una costruzione cervellotica di Marx
e non abbia alcuna corrispondenza con la
realtà della produzione e dello scambio,
ovvero sia a sua volta metafisica e fenomenologia.
Gli è sufficiente guardarsi attorno per comprendere
che occorre battersi per una società migliore
ed abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Geymonat si inserì nel dibattito tra i comunisti
italiani con un articolo sul "Contemporaneo"
del 1955. Il titolo era già significativo:
Troppo idealismo. (2) Fu un atto d'accusa contro la corrente
storicistico-gramsciana dominante nel PCI,
bollata con la definizione di "scolastici
del marxismo". Oggettivamente, secondo
Geymonat, il PCI era culturalmente un partito
conservatore, alleato dell'idealismo retrivo,
che si opponeva al "nuovo" proveniente
dalla cultura "angloamericana".
Ricorrere a tali nuovi contributi, scrisse
Geymonat, avrebbe potuto portare ad «una
notevole apertura» se «confrontata
con i vecchi schemi della cultura italiana
fascista e prefascista. Conteneva in particolare
alcuni motivi nuovi, idonei a sensibilizzare
la filosofia verso i ritrovati della scienza
e della tecnica moderne. La lotta degli "scolastici"
- che non mancavano anche tra i marxisti
italiani - contro i nuovi indirizzi filosofici,
invece di approfondire le questioni espresse
da tali indirizzi , e tentarne soluzioni
veramente progressive, si limitò a condannarli
in blocco, come li condannavano i superstiti
seguaci dell'attualismo gentiliano. Accadde
di conseguenza questo singolare fenomeno
che gli scolastici del marxismo si trovarono
alleati con i gentiliani e contribuirono
notevolmente a ridare loro forza e fiducia
in se stessi. [...] Di fronte ai nuovi fermenti
filosofici, ci si liimitò a esaltare il pensiero
di Gramsci: pensiero indubbiamente ricco
di germi vivissimi, ma appartenente (non
certo per colpa del suo autore) a una fase
dello sviluppo culturale assai diversa da
quella odierna; ad una fase cioè in cui il
peso della scienza e della tecnica era enormemente
minore di oggi, e in cui lo sviluppo delle
teorie scientifiche e delle loro applicazioni
non aveva ancora posto alla filosofia i gravi
problemi che oggi stiamo dibattendo.»
Gli "scolastici gramsciani" finirono
così col privilegiare il carattere umanistico
metafisico a danno della tradizione scientifica,
«onde si finì per ragionare come se
quest'ultimo (che va da Leonardo a Galileo
e a Cattaneo) non fosse mai esistito. [...]
Orbene, è un fatto che molti giovani marxisti,
educatisi sulle opere degli idealisti nostrani
dell'Ottocento e del Novecento, ereditarono
per intero la loro prospettiva storica, onde
sembrano ancor oggi ritenere che l'interesse
filosofico per la scienza sia poco meno che
una "merce" di importazione americana.
[...] E' un fatto che l'apertura verso Spaventa
ha sempre significato chiusura verso Cattaneo.»
La chiusura del PCI nei confronti del pensiero
neorazionalistico era dettata dal sospetto
verso ogni pensiero non sufficientemente
critico nei confronti delle società capitalistiche,
ma anche "troppo" critico. Quel
tipo di critica spavalda e piccolo-borghese
che aveva caratterizzato alcune avanguardie
intellettuali poi confluite nel fascismo.
.La sentenza di condanna del neopositivismo
(e del conseguente neoilluminismo) era arrivata
dal responsabile della commissione cultura
Mario Alicata in un fascicolo del "Contemporaneo"
del 1955, con l'articolo La via di Marx. (3) «Il maggior pericolo del neo-positivismo
- scrisse Alicata - consiste oggi in Italia
proprio in ciò, che che contenendo esso un'esigenza
giusta nei confronti dell'idealismo tradizionale
[...] può più facilmente riuscire a contrabbandare
fra i giovani, le sue posizioni sbagliate,
le sue "seduzioni", la sua "partiticità
reazionaria".» Parole molto dure,
più vicine al linguaggio del Komintern che
a quelle di Gramsci. D'altro canto, lo storico
dovrebbe apprezzare l'esistenza di uno spazio
di discussione che, al contrario, nei paesi
a regime Komintern non esisteva più e nei
quali ogni voce dissonante, veniva liquidata
come "attività frazionistica".
La lezione di Gramsci sulla "massima
tolleranza necessaria all'interno del partito",
in sostanza, lasciava una grande eredità
positiva ed indeledibile.
Grazie anche al disgelo provocato dalla morte
di Stalin, cui tuttavia seguì un nuovo ed
inedito periodo di tensioni suscitato dalla
repressione della rivoluzione ungherese,
andrebbe riconosciuto che la linea-storicistico-gramsciana
- sostenuta apertamente da Togliatti, Valentino
Gerratana, Nicola Badaloni e, con più di
una perplessità, da Cesare Luporini - colse
indubbiamente qualche importante successo
e contribuì ugualmente a "svecchiare"
il dibattito e la ricerca filosofica in Italia.
D'altra parte, l'esistenza di una linea minoritaria
anti-gramsciana, raccolta attorno a Galvano
Della Volpe ed al suo allievo Lucio Colletti,
più che attorno a Geymonat per la verità,
contribuì, a suo modo a tener vivo il dibattito.
Poi, come si vedrà, proprio le vie dei dissidenti
andranno a collidere: Della Volpe e Colletti
si schiereranno contro il materialismo dialettico ed in generale contro l'assimilazione del
marxismo alla dialettica hegeliana e storicista;
Geymonat, al contrario, tenterà di recuperalo
e giustificarlo, vedendo in esso la vera
"logica della scoperta scientifica".
E' il caso di precisare tuttavia che le vere
"provocazioni" erano giunte, sia
sul "Contemporaneo" che in altre
sedi, da Norberto Bobbio. Riguardavano l'assenza,
sia nel marxismo in generale che nello stesso
pensiero di Gramsci, di una "teoria
dello stato" e quindi della democrazia
e dei diritti. Nodo irrisolto nella teoria
ma, in realtà già risolto e dissolto in pratica
con il determinante contributo dato dai comunisti
alla scrittura della Costituzione. Eppure
non risolta in termini di giustificazione
politica con la ben nota argomentazione della
diversità di condizioni. "Pensiamo all'Italia!" ribadivano
i comunisti. "Voi volete ridurci come
in Russia!" rispondevano gli anticomunisti.
Una filastrocca senza fine, e senza variazioni
sensibili., che tuttavia contribuiva a "non
dissolvere" il problema della "doppiezza"
comunista: fedeli all'Italia o fedeli all'Internazionale
proletaria, ovvero - per dirla alla maniera
dei più volgari - fedeli alla Russia? La
risposta era tanto vaga quanto suadente:
fedeli alla pace, al dialogo, al superamento
della logica dei blocchi contrapposti. Ma
la dura realtà continuava a ribadire che
i comunisti italiani vivevano in una situazione
impossibile, essendo inseriti in un dominio
che Roosvelt, Churchill e Stalin avevano
disegnato con squadra, compasso e filo spinato,
assegnandolo all'egemonia americana. Sullo
scacchiere internazionale, l'Italia era "un
paese a sovranità limitata", cui era
concesso il "lusso" di avere il
più forte partito comunista dell'Occidente.
Ma questo la metteva nelle condizioni di
"sorvegliato speciale". La parola
d'ordine scandita nelle piazze era "fuori
dalla NATO!" Erano simili a ruggiti
di leoni chiusi in una gabbia dalla quale
si poteva uscire solo facendosi agnelli,
oppure sottili come sogliole.
Non è questa la sede per una ricostruzione
della storia politica del nostro paese; questi
brevi accenni sono parsi necessari a comprendere
che, in definitiva , il dibattito tra filosofi
di ogni orientamento non sempre arrivava
al nodo cruciale della libertà intesa come
autodeterminazione. Non solo, spesso veniva trascurato che
l'Italia si era resa responsabile di guerre
d'aggressione nei confronti di paesi più
deboli come l'Etiopia, l'Albania, la Grecia,
ma anche militarmente molto più forti come
l'Unione Sovietica. In sostanza, sotto un
profilo formale, sembrava più che giustificato
porre il paese sotto tutela in attesa della
maggiore età dei suoi gruppi dirigenti. In
tali condizioni, il richiamo di Geymonat
alla necessità di "svecchiare la cultura
e la filosofia" era dunque più che sensato.
Si trattava di ammodernare il paese, di costruire
infrastrutture, dotarlo di centri di ricerca,
metterlo in grado di rinnovare le tecnologie
e sviluppare l'industria. E questa, in ultima
analisi, era l'unica via possibile, se non
al socialismo, quantomeno alla sopravvivenza
ed alla ricostruzione. Ossia, diventando
finalmente un paese adulto e rispettato.
Quelle su accennate non sono propriamente
ragioni "filosofiche", ma qualsiasi
storia della filosofia che non ne tenga conto,
anche considerando punti di vista diversi
su "progresso" e "sviluppo",
rischia seriamente qualche forma di miopia
e parzialità. Fatto sta che, ad un certo
punto, seguendo la ricostruzione effettuata
da Marcello Pera, Geymonat abbandonò il neorazionalismo, virando decisamente verso il nuovo approdo
della filosofia della scienza. E' un tipo di lettura che privilegia la
discontinuità. Qui si preferisce insistere sulla continuità. Geymonat non cessò mai di proclamarsi neorazionalista
(o neoilluminista). Nemmeno si tratta di
adottare la prospettiva semplicistica di
un passaggio da una filosofia sottomessa
alle conquiste scientifiche ad una filosofia
in grado di riprendere le redini del cavallo
in corsa sfrenata verso nuovi orizzonti.
Tuttavia, per semplificare le comprensione
di che significa "filosofia della scienza"
è provvisoriamente ammissibile ricorrere
all'immagine presentata: il filosofo della
scienza pretende di arrivare a dar conto
delle metodologie seguite dagli scienziati
e su di esse si costruisce un "dominio",
una cattedra universitaria, un'aula stracolma
di allievi interessati. Fu il momento in
cui Geymonat godette dei maggiori consensi
e guadagnò una modesta celebrità anche al
di fuori del solito giro degli interessati
alle "novità" filosofiche.
Scriveva Pera: «L'impegno che allora
Geymonat profuse per l'autonomia della filosofia
della scienza ebbe più fortuna dell'altro,
quello per il nuovo razionalismo. Forse perché
non richiedeva giuramenti su questioni essenziali
o adesioni a manifesti di rinnovamento radicale;
forse perché era, almeno in apparenza, più
modesto e più diplomatico lo scopo dichiarato,
e cioè ritagliarsi un terreno tecnico di
indagine, distinto ma non necessariamente
in conflitto con quello della "filosofia
in generale"; forse perché la vecchia
battaglia, ancorché perduta, aveva guadagnato
rispetto ai temi scientifici; o forse semplicemente
perché una nuova generazione ha meno impegni
e più entusiasmo, meno vincoli e più libertà
di quanta ne abbiano i maestri: fatto sta
che, in neanche una decina d'anni, una schiera
di giovani, la maggior parte dei quali allievi
diretti o indiretti dello stesso Geymonat,
mise in piedi una tradizione di ricerca nuova
nel campo della logica e della filosofia
della scienza, costruendola dal nulla o quasi,
a tal punto che del lontano pensiero autoctono
(Peano, Vailati, Enriques) si erano quasi
perdute anche le tracce.» (4) Qui non
si vuole sostenere, tuttavia, che Geymonat
abbia inventato un tipo di riflessione inesistente
prima di lui - basti pensare che la prima
redazione della Logica della scoperta scientifica di Popper risaliva al 1934, anche se fu
pubblicata in Italia da
Einaudi solo nel
1970 - bensì, che effettivamente
egli fu
pioniere in ambito italiano.
Il fatto che
Geymonat fosse relativamente
all'oscuro degli
studi di Popper e di Kuhn
negli anni '50
- fu più titolo di merito
che di demerito.
In altre parole: seppe
cogliere una necessità
del momento mediante una
notevole intuizione.
Merito che Pera non mancò di evidenziare:
«Di questa stagione si riconoscono
due fasi: una preparatoria, di apprendimento
e di rodaggio degli strumenti, e una creativa,
di produzione di opere originali. Ma i tempi
sono affrettati. Dal 1960, anno in cui Geymonat
pubblica Filosofia e filosofia della scienza e apre la collana presso l'editore Feltrinelli,
al 1969, che è l'anno in cui Agazzi pubblica
Temi e problemi di filosofia della fisica, passano solo nove anni. Ne passano meno,
appena quattro, per arrivare al 1964, quando
Pasquinelli dà alle stampe, nella stessa
collana di Geymonat, i Nuovi principi di epistemologia.» I temi affrontati da Geymonat erano
tutti di straordinaria importanza. In particolare,
scriveva Pera, perché Geymonat aveva liberato
la filosofia della scienza dalle servitù
neopositivistiche e poi perché si era proposto
di «allargare l'oggetto della filosofia
della scienza dalla "statica" alla
"dinamica" delle teorie.»(5)
«Il primo tema condusse Geymonat a
un quadro filosofico di tipo realistico;
il secondo a integrare la filosofia della
scienza, e più precisamente l'analisi strutturale
delle teorie, con la storia della scienza.»
(6) Per operare quel distacco e quell'emancipazione
occorreva coraggio, ma Pera non mancò di
sottolineare che Geymonat fu agevolato dal
suo richiamo alla storia delle scienze. Ciò
era gradito alla "filosofia generale",
ovvero allo storicismo palese ed occulto.
Tuttavia, dato che il temperamento filosofico
di Geymonat era più incline ai programmi
e alle cornici concettuali che non ai particolari
del quadro, Geymonat non seppe cogliere tutti
frutti e guadagnare nuovi consensi. «Al
punto - proseguiva Pera - che quella filosofia
della scienza che durante gli anni Sessanta,
soprattutto per sua spinta, decollò, o dibatté
ancora soluzioni neopositivistiche o mantenne
un prevalente orientamento analitico-formale.»
Come avverrà ad esempio con Alberto Pasquinelli,
che aveva studiato con Carnap a Chicago.
Molto importanti furono le conseguenze dell'apertura
di Geymonat allo studio sulla "dinamica
delle teorie". Geymonat aveva sottolineato
che un conto è «asserire che - nello studio della
struttura sintattica di una teoria - noi
dobbiamo evitare nel modo più scrupoloso
di lasciarci turbare da riferimenti a considerazioni
estranee alla struttura studiata; un altro
conto, completamente diverso, è pretendere
che l'analisi sintattica esaurisca in modo
completo l'esame metodologico delle teorie
e che la scienza possa venire compresa nella
sua effettuale realtà senza considerazioni
di carattere storiografico-pragmatico.» (7) A questa affermazione si aggiungeva
senza alcuna difficoltà il concetto di "apertura"
delle teorie stesse. «Le teorie in
cui si articola la scienza non risultano
affatto chiuse, ma sono - al contrario -
ricche di comunicazione l'una con l'altra
e col linguaggio comune, onde la medesima
proposizione - traasferita da una teoria
più ristretta ad una più generale - si arricchisce
di nuovi significati, diventa fonte di nuovi
sviluppi, rivela con maggiore chiarezza la
ragione profonda della propria validità.»
Questo era un colpo ben assestato a tutte
le teorie dell'incomunicabilità e dell'intraducibilità,
se si vuole, anche degli specialismi esasperati
che sono d'altra parte indispensabili alla
pratica scientifica. Teorie che odorano di
"irrazionalismo" e "chiusura
in qualche ghetto". D'altra parte, non
deve sfuggire anche la terza conseguenza.
Geymonat aveva riaperto anche la "pratica"
del "progresso", del "progresso
scientifico" in particolare, nonché
della "cumulatività" delle teorie
e dei saperi. Ciò , con una sorta di pentimento
e autocritica rispetto alle posizioni assunte
nei primi anni Cinquanta al tempo dei Saggi. Scrisse che esiste una «tendenza,
manifestatamente operante nella scienza moderna,
verso teorie sempre più generali capaci di
assorbire in sé le teorie precedenti, dando
loro un significato e chiarendo la funzione
specifica delle condizioni limitatrici dalli
quali dipendeva la loro particolarità.»
Questo al punto che «anche quando una
ricerca tecnico-sperimentale o teorica negava
i risultati delle precedenti, questa negazione
non esprimeva la contrapposizione statica
di due punti di vista antitetici (come era
spesso accaduto per le antiche scuole filosofico-scientifiche
greche), ma la necessità di determinare i
limiti entro cui i risultati negati possono
essere accolti, integrandoli con altri risultati
validi al di là di questi limiti.»
Per concludere, è parso opportuno un balzo
di oltre venticinque anni. Nel 1985, Geymonat
confermerà la sua visione nell'Appendice a Lineamenti di filosofia della scienza. «Se la storia della scienza ha da
essere soltanto la storia degli scienziati,
dei loro errori, dei loro sforzi per liberarsene
ecc., il concetto di storia della scienza
non presenta alcuna difficoltà: è la storia
di uomini più o meno geniali, di istituzionu
più o meno efficienti, di strumenti più o
meno idonei a farci compiere certe osservazioni.
Ma se essa ha da essere storia di teorie,
di ipotesi, di dimostrazioni, allora sorgono
subito le più gravi difficoltà: come si può
parlare di storia di una teoria, per esempio
di evoluzione dei suoi principi? O questi
principi restano immutati, e allora la teoria
può bensì conseguire nuovi risultati ma senza
trasformarsi; oppure essi mutano, ma allora
ci troviamo di fronte ad un'altra teoria,
a una teoria nuova che non ha più nulla a
che vedere con la vecchia, che cioè tratta
di altri oggetti (definiti implicitamente
da altri assiomi) anche se indicati sempre
con i vecchi nomi.
E' stata particolarmente l'assiomatizzazione
delle teorie a porci di fronte a queste difficoltà,
in quanto ha posto in luce gli inscindibili
legami fra i concetti e le loro regole d'uso
(gli assiomi), cosicché diventa molto arduo
affermare che una nuova teoria è in grado
di risolvere i problemi lasciati aperti dalle
teorie precedenti. Eppure la storia ci insegna
che ciò è avvenuto più e più volte nella
realtà, e proprio in riferimento alle scienze
più rigorose.» (8) A queste importanti
considerazioni, Geymonat faceva seguire l'osservazione
che questo approccio era più facile ai tempi
in cui si credeva che le teorie fornissero
certezze e verità assolute circa le "leggi
della natura". Sarà proprio il passaggio
e l'adesione critica al "materialismo
dialettico" a segnare in modo più fecondo
la consapevolezza del lavoro scientifico
come serie di approssimazioni successive
che, tuttavia non portano mai a conclusioni
definitive ma, solo a spiegazioni più inclusive
e razionali.
(continua)
Note
1) Carlo Augusto Viano - Va' pensiero - Einaudi
2) La citazione è tratta da Giuseppe Vacca
- Gli intellettuali di sinistra e la crisi
del 1956 - Editori Riuniti 1979
3) La citazione in Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza
- in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi
- a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985.
4) Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza
- in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi
- a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985.
5) Ludovico Geymonat -
Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
6) Marcello Pera, cit.
7) Ludovico Geymonat, cit.
8) Ludovico Geymonat -
Lineamenti di filosofia della scienza - Mondadori 1985, seguita da una nuova edizione
con una Postfazione e un aggiornamento della
bibliografia di Fabio Minazzi - Utet 2006
Bibliografia
Il problema della conoscenza nel positivismo - Bocca - Torino 1931
La nuova filosofia della natura in Germania - Bocca - Torino 1934
Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Galileo Galilei - Einaudi - Torino 1957
Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
Filosofia e pedagogia nella storia della
civiltà, con Renato Tisato - Garzanti - Milano 1965,
3 voll.
Attualità del materialismo dialettico, con Enrico Bellone, Giulio Giorello e Silvano
Tagliagambe, Editori Riuniti, Roma 1974
Scienza e realismo - Feltrinelli - Milano 1982
Paradossi e rivoluzioni Intervista su scienza e politica - a cura
di Giulio Giorello e Marco Mondadori - Il
Saggiatore, Milano 1979.
Filosofia della probabilità con Domenico Costantini - Feltrinelli -
Milano 1982
Riflessioni critiche su Kuhn e Popper - Dedalo - Bari 1983
Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori 1985, seguita da una nuova edizione
con una Postfazione e un aggiornamento della
bibliografia di Fabio Minazzi - Utet 2006
Le ragioni della scienza con Giulio Giorello e Fabio Minazzi - Laterza,
Roma-Bari 1986
Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti - Milano 1970-1976, 7 voll.
La libertà - Rusconi - Milano 1988
La società come milizia, a cura di Fabio Minazzi, Marcos y Marcos
1989
nuova edizione La civiltà come milizia, a cura di Fabio Minazzi - La Città del
Sole - Napoli 2008
I sentimenti - Rusconi - Milano 1989
Filosofia, scienza e verità, con Evandro Agazzi e Fabio Minazzi - Rusconi
- Milano 1989
La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche
e scientifiche nel Wiener Kreis - a cura di Mario Quaranta - il Poligrafo,
Padova 1991
Dialoghi sulla pace e la libertà, con Fabio Minazzi - Cuen - Napoli 1992
La ragione, con Fabio Minazzi e Carlo Sini - Piemme
- Casale Monferrato 1994
moses - novembre 2012
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Giuseppe Vaccarino
Silvio Ceccato
Giulio Preti - di Daniele Lo Giudice
Antonio Banfi - di Daniele Lo Giudice
Introduzione a Geymonat
Geymonat e il Neopositivismo
Geymonat: l'impegno per un nuovo razionalismo
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