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Ludovico Geymonat: dal neorazionalismo alla filosofia della scienza
Si può parlare di un declino e di una vera a propria "sconfitta" del neorazionalismo? In termini molto generali certamente sì. Tutto sta ad intendersi sul significato della parola. Definisce un gruppo di filosofi omogeneo per alcuni aspetti ed eterogeneo per altri. Certamente, è altrettanto vero che prima di dichiarare "sconfitti" i singoli protagonisti di quel movimento filosofico, occorrerebbe qualche cautela. Il neorazionalismo nel suo insieme ha continuato ad operare nella cultura italiana anche durante l'epoca del post-moderno, della "crisi della ragione" e del "pensiero debole", quindi ben oltre lo spartiacque degli anni Sessanta e Settanta. Sono sorte nuove voci, come quella agguerrita di Carlo Augusto Viano, inflessibile avversario del "pensiero debole" (1) - da lui definito ironicamente "pensiero dei flebili" - quella di Paolo Rossi e di tanti altri, da Antonio Santucci a Uberto Scarpelli e Ferruccio Rossi-Landi. Per molti decenni, Norberto Bobbio ha continuato a svolgere un magistero insostituibile nell'ambito della filosofia politica e degli studi giuridici, dimostrandosi come il più lucido e coerente tra i filosofi in diverso modo riportabili all'area neorazionalista originaria. Oggi, per designare quella tradizione si ricorre abbondantemente al termine "laico" ma, con ciò si rischiano sovrapposizioni indebite: anche Croce e Gentile furono "laici", anche l'irrazionalismo era "laico", riportando tutto all'individuo extra-sociale, genio o disadattato che fosse, mentre una consistente parte del mondo cattolico rivendicava, e rivendica, la propria razionalità, alla luce dei principi "fides et ratio", spesso "ipse dixit".
Per evitare di incagliarsi in quei giochetti di etichettatura che, a volte portano a chiarezza, ma altre tanta confusione, lo storico della filosofia dovrebbe porre più attenzione ai testi, ai documenti, alle prese di posizione dei singoli, ai rapporti che questi intrattevano con l'industria culturale da un lato, e la società civile dall'altro. L'unico dato certo della seconda metà del Novecento è che il post-moderno rubò la scena al neo-razionalismo attraverso una operazione mediatica ed accademica di grandi proporzioni. Anzi, ad esser precisi, trovò anche il modo di procurarsi nuove scene, di estendere il raggio d'azione e di influenza della "filosofia". Il '68, questo sì, contribuì in maniera rivoluzionaria a mutare il rapporto tra gli studenti, ed anche alcune avanguardie operaie, e la cultura filosofica. Fu quella una stagione in cui molti si sentivano filosofi, muovendo da Marx e da Freud, da Marcuse e Luckacs, da Sartre e da... Geymonat, nonché dal sorgere di nuovi punti di vista "marxisti" in pensatori di nuova generazione quali Mario Tronti e Raniero Panzieri. Una tesi facilmente sostenibile potrebbe allora esser la seguente: lo sconvolgimento dei rapporti accademici originato dal '68 portò successivamente alla ribalta il post-moderno. Il '68, nel suo insieme, si ritagliò non pochi meriti, e quindi anche demeriti, nella temporanea liquidazione del neorazionalismo, interpretato - per farla breve - come sovrastruttura borghese, una artefatta costruzione retorica di consenso ai modelli sociali dominanti. Teorizzazone grossolana fin che si vuole, ma radicata nelle convinzioni di decine di migliaia di leader studenteschi ed operai di quella stagione. Molti dei primi divennero professori di filosofia e docenti universitari. Buona parte dei secondi scomparve nell'anonimato delle burocrazie sindacali, autentiche "gabbie di ferro" della sociologia weberiana, e poi luhmaniana.

Il problema, tuttavia, resta: nel '68 il neorazionalismo era già stato sconfitto e non aveva alcuna rappresentanza politica. O, se si preferisce, la cultura politica aveva scelto altre tradizioni: il marxismo storicistico dei gramsciani, il pensiero cattolico patrocinato dalla Chiesa. Due universi impermeabili alle infiltrazioni, del tutto, o in gran parte, autosufficienti. Modi di pensare in grado di svolgere una funzione pedagogica di massa: in altre parole, di indottrinare quadri ed attivisti, ed orientare le masse secondo principi elementari. Sotto questo profilo, il neorazionalismo era già perdente. Da un lato il PCI aveva le sue scuole di partito e fior di "intellettuali organici e semiorganici" in grado di insegnare; dall'altro la Chiesa disponeva di innumerevoli cinghie di trasmissione, le sue università innanzi tutto, i collegi e le sue scuole di catechismo, alle quali si aggiungeva l'ora di religione nelle scuole pubbliche e il controllo assoluto della Rai-tv in piena espansione. Il neorazionalismo non aveva altro che la forza propulsiva dei suoi "professori", capaci solo di elaborare, discutere e polemizzare, nonché di insegnare ai pochi privilegiati che a quei tempi frequentavano gli studi superiori e l'università. Oggi si direbbe che incontrava problemi insuperabili di audience, e per di più soffriva del male comune a diverse filosofie: quello del linguaggio autoreferenziale. Capacità di attrazione prossima allo zero. Arrivava ad ingegneri, medici, tecnocrati, qualche notaio e qualche avvocato, matematici già iniziati alle tecniche della ragione di cui s'è detto. Anche l'ultimo degli attuali esperti di markenting non avrebbe avuto difficoltà a pronosticare un insuccesso. Ma questo, ovviamente, non sarebbe suonato, e nemmeno oggi suonerebbe, come un demerito. C'è sicuramente sempre qualcosa di più importante del successo e del consenso delle masse. Cosa sia, in definitiva, lo possono sapere solo il filosofo e lo scienziato convinti di avere guadagnato una spiegazione più convincente di quelle precedenti, e forse l'artista persuaso di aver mostrato qualcosa di ignoto prima della sua performance.
La relativa ostilità della Chiesa preconciliare al neorazionalismo si può dare per scontata. Quella del più grande partito comunista dell'Occidente merita un supplemento di indagine. Fermo restando che la nascita e lo sviluppo della filosofia della scienza in Italia, per uno di quei paradossi storici che trova spiegazione solo nella dialettica delle idee in contrasto in menti veramente razionali, è legata a due figure più o meno compromesse con le rispettive "chiese" dogmatiche: il militante comunista Ludovico Geymonat da un lato e il cattolico Evandro Agazzi dall'altro. Come a dire cioè che alcuni degli sviluppi più conseguenti del neorazionalismo trovarono accoglimento nell'ibridazione con altre tradizioni di pensiero, con tensioni interiori che altri protagonisti non avevavno avvertito a sufficienza.
In definitiva, si potrebbe riconoscere che entrambi seppero mettere a frutto la relativa contraddittorietà della loro condizione. Da un lato, l'irresistibile impulso alla libertà del pensiero e dall'altro, una sorta di autocensura liberamente accettata, un costante imperativo a stare da "quella parte" nonostante tutte le difficoltà.

La singolare vicenda di Geymonat culminò nella constatazione che il rapporto con il PCI, ovvero la cultura e la mentalità dei dirigenti comunisti italiani, era sempre più ipotecata dallo storicismo e dall'idealismo. Il punto che si è cercato di evidenziare negli articoli precedenti era quello della scissione tra il filosofo ed il militante, come si trattasse, per l'appunto di due individui diversi. Ora, questo fatto potrebbe non essere considerato sorprendente e nemmeno "patologico". E' del tutto legittimo che un filosofo professi una convinzione profonda, quella della insostenibilità razionale di tutte le metafisiche e poi ritenga altrettanto razionale militare contro l'anarchia del capitalismo e le sue ingiustizie. Per costui non ha molta importanza che il plusvalore sia una costruzione cervellotica di Marx e non abbia alcuna corrispondenza con la realtà della produzione e dello scambio, ovvero sia a sua volta metafisica e fenomenologia. Gli è sufficiente guardarsi attorno per comprendere che occorre battersi per una società migliore ed abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Geymonat si inserì nel dibattito tra i comunisti italiani con un articolo sul "Contemporaneo" del 1955. Il titolo era già significativo: Troppo idealismo. (2) Fu un atto d'accusa contro la corrente storicistico-gramsciana dominante nel PCI, bollata con la definizione di "scolastici del marxismo". Oggettivamente, secondo Geymonat, il PCI era culturalmente un partito conservatore, alleato dell'idealismo retrivo, che si opponeva al "nuovo" proveniente dalla cultura "angloamericana". Ricorrere a tali nuovi contributi, scrisse Geymonat, avrebbe potuto portare ad «una notevole apertura» se «confrontata con i vecchi schemi della cultura italiana fascista e prefascista. Conteneva in particolare alcuni motivi nuovi, idonei a sensibilizzare la filosofia verso i ritrovati della scienza e della tecnica moderne. La lotta degli "scolastici" - che non mancavano anche tra i marxisti italiani - contro i nuovi indirizzi filosofici, invece di approfondire le questioni espresse da tali indirizzi , e tentarne soluzioni veramente progressive, si limitò a condannarli in blocco, come li condannavano i superstiti seguaci dell'attualismo gentiliano. Accadde di conseguenza questo singolare fenomeno che gli scolastici del marxismo si trovarono alleati con i gentiliani e contribuirono notevolmente a ridare loro forza e fiducia in se stessi. [...] Di fronte ai nuovi fermenti filosofici, ci si liimitò a esaltare il pensiero di Gramsci: pensiero indubbiamente ricco di germi vivissimi, ma appartenente (non certo per colpa del suo autore) a una fase dello sviluppo culturale assai diversa da quella odierna; ad una fase cioè in cui il peso della scienza e della tecnica era enormemente minore di oggi, e in cui lo sviluppo delle teorie scientifiche e delle loro applicazioni non aveva ancora posto alla filosofia i gravi problemi che oggi stiamo dibattendo.» Gli "scolastici gramsciani" finirono così col privilegiare il carattere umanistico metafisico a danno della tradizione scientifica, «onde si finì per ragionare come se quest'ultimo (che va da Leonardo a Galileo e a Cattaneo) non fosse mai esistito. [...] Orbene, è un fatto che molti giovani marxisti, educatisi sulle opere degli idealisti nostrani dell'Ottocento e del Novecento, ereditarono per intero la loro prospettiva storica, onde sembrano ancor oggi ritenere che l'interesse filosofico per la scienza sia poco meno che una "merce" di importazione americana. [...] E' un fatto che l'apertura verso Spaventa ha sempre significato chiusura verso Cattaneo.»

La chiusura del PCI nei confronti del pensiero neorazionalistico era dettata dal sospetto verso ogni pensiero non sufficientemente critico nei confronti delle società capitalistiche, ma anche "troppo" critico. Quel tipo di critica spavalda e piccolo-borghese che aveva caratterizzato alcune avanguardie intellettuali poi confluite nel fascismo. .La sentenza di condanna del neopositivismo (e del conseguente neoilluminismo) era arrivata dal responsabile della commissione cultura Mario Alicata in un fascicolo del "Contemporaneo" del 1955, con l'articolo La via di Marx. (3) «Il maggior pericolo del neo-positivismo - scrisse Alicata - consiste oggi in Italia proprio in ciò, che che contenendo esso un'esigenza giusta nei confronti dell'idealismo tradizionale [...] può più facilmente riuscire a contrabbandare fra i giovani, le sue posizioni sbagliate, le sue "seduzioni", la sua "partiticità reazionaria".» Parole molto dure, più vicine al linguaggio del Komintern che a quelle di Gramsci. D'altro canto, lo storico dovrebbe apprezzare l'esistenza di uno spazio di discussione che, al contrario, nei paesi a regime Komintern non esisteva più e nei quali ogni voce dissonante, veniva liquidata come "attività frazionistica". La lezione di Gramsci sulla "massima tolleranza necessaria all'interno del partito", in sostanza, lasciava una grande eredità positiva ed indeledibile.

Grazie anche al disgelo provocato dalla morte di Stalin, cui tuttavia seguì un nuovo ed inedito periodo di tensioni suscitato dalla repressione della rivoluzione ungherese, andrebbe riconosciuto che la linea-storicistico-gramsciana - sostenuta apertamente da Togliatti, Valentino Gerratana, Nicola Badaloni e, con più di una perplessità, da Cesare Luporini - colse indubbiamente qualche importante successo e contribuì ugualmente a "svecchiare" il dibattito e la ricerca filosofica in Italia. D'altra parte, l'esistenza di una linea minoritaria anti-gramsciana, raccolta attorno a Galvano Della Volpe ed al suo allievo Lucio Colletti, più che attorno a Geymonat per la verità, contribuì, a suo modo a tener vivo il dibattito. Poi, come si vedrà, proprio le vie dei dissidenti andranno a collidere: Della Volpe e Colletti si schiereranno contro il materialismo dialettico ed in generale contro l'assimilazione del marxismo alla dialettica hegeliana e storicista; Geymonat, al contrario, tenterà di recuperalo e giustificarlo, vedendo in esso la vera "logica della scoperta scientifica".
E' il caso di precisare tuttavia che le vere "provocazioni" erano giunte, sia sul "Contemporaneo" che in altre sedi, da Norberto Bobbio. Riguardavano l'assenza, sia nel marxismo in generale che nello stesso pensiero di Gramsci, di una "teoria dello stato" e quindi della democrazia e dei diritti. Nodo irrisolto nella teoria ma, in realtà già risolto e dissolto in pratica con il determinante contributo dato dai comunisti alla scrittura della Costituzione. Eppure non risolta in termini di giustificazione politica con la ben nota argomentazione della diversità di condizioni. "Pensiamo all'Italia!" ribadivano i comunisti. "Voi volete ridurci come in Russia!" rispondevano gli anticomunisti. Una filastrocca senza fine, e senza variazioni sensibili., che tuttavia contribuiva a "non dissolvere" il problema della "doppiezza" comunista: fedeli all'Italia o fedeli all'Internazionale proletaria, ovvero - per dirla alla maniera dei più volgari - fedeli alla Russia? La risposta era tanto vaga quanto suadente: fedeli alla pace, al dialogo, al superamento della logica dei blocchi contrapposti. Ma la dura realtà continuava a ribadire che i comunisti italiani vivevano in una situazione impossibile, essendo inseriti in un dominio che Roosvelt, Churchill e Stalin avevano disegnato con squadra, compasso e filo spinato, assegnandolo all'egemonia americana. Sullo scacchiere internazionale, l'Italia era "un paese a sovranità limitata", cui era concesso il "lusso" di avere il più forte partito comunista dell'Occidente. Ma questo la metteva nelle condizioni di "sorvegliato speciale". La parola d'ordine scandita nelle piazze era "fuori dalla NATO!" Erano simili a ruggiti di leoni chiusi in una gabbia dalla quale si poteva uscire solo facendosi agnelli, oppure sottili come sogliole.
Non è questa la sede per una ricostruzione della storia politica del nostro paese; questi brevi accenni sono parsi necessari a comprendere che, in definitiva , il dibattito tra filosofi di ogni orientamento non sempre arrivava al nodo cruciale della libertà intesa come autodeterminazione. Non solo, spesso veniva trascurato che l'Italia si era resa responsabile di guerre d'aggressione nei confronti di paesi più deboli come l'Etiopia, l'Albania, la Grecia, ma anche militarmente molto più forti come l'Unione Sovietica. In sostanza, sotto un profilo formale, sembrava più che giustificato porre il paese sotto tutela in attesa della maggiore età dei suoi gruppi dirigenti. In tali condizioni, il richiamo di Geymonat alla necessità di "svecchiare la cultura e la filosofia" era dunque più che sensato. Si trattava di ammodernare il paese, di costruire infrastrutture, dotarlo di centri di ricerca, metterlo in grado di rinnovare le tecnologie e sviluppare l'industria. E questa, in ultima analisi, era l'unica via possibile, se non al socialismo, quantomeno alla sopravvivenza ed alla ricostruzione. Ossia, diventando finalmente un paese adulto e rispettato.

Quelle su accennate non sono propriamente ragioni "filosofiche", ma qualsiasi storia della filosofia che non ne tenga conto, anche considerando punti di vista diversi su "progresso" e "sviluppo", rischia seriamente qualche forma di miopia e parzialità. Fatto sta che, ad un certo punto, seguendo la ricostruzione effettuata da Marcello Pera, Geymonat abbandonò il neorazionalismo, virando decisamente verso il nuovo approdo della filosofia della scienza. E' un tipo di lettura che privilegia la discontinuità. Qui si preferisce insistere sulla continuità. Geymonat non cessò mai di proclamarsi neorazionalista (o neoilluminista). Nemmeno si tratta di adottare la prospettiva semplicistica di un passaggio da una filosofia sottomessa alle conquiste scientifiche ad una filosofia in grado di riprendere le redini del cavallo in corsa sfrenata verso nuovi orizzonti. Tuttavia, per semplificare le comprensione di che significa "filosofia della scienza" è provvisoriamente ammissibile ricorrere all'immagine presentata: il filosofo della scienza pretende di arrivare a dar conto delle metodologie seguite dagli scienziati e su di esse si costruisce un "dominio", una cattedra universitaria, un'aula stracolma di allievi interessati. Fu il momento in cui Geymonat godette dei maggiori consensi e guadagnò una modesta celebrità anche al di fuori del solito giro degli interessati alle "novità" filosofiche.
Scriveva Pera: «L'impegno che allora Geymonat profuse per l'autonomia della filosofia della scienza ebbe più fortuna dell'altro, quello per il nuovo razionalismo. Forse perché non richiedeva giuramenti su questioni essenziali o adesioni a manifesti di rinnovamento radicale; forse perché era, almeno in apparenza, più modesto e più diplomatico lo scopo dichiarato, e cioè ritagliarsi un terreno tecnico di indagine, distinto ma non necessariamente in conflitto con quello della "filosofia in generale"; forse perché la vecchia battaglia, ancorché perduta, aveva guadagnato rispetto ai temi scientifici; o forse semplicemente perché una nuova generazione ha meno impegni e più entusiasmo, meno vincoli e più libertà di quanta ne abbiano i maestri: fatto sta che, in neanche una decina d'anni, una schiera di giovani, la maggior parte dei quali allievi diretti o indiretti dello stesso Geymonat, mise in piedi una tradizione di ricerca nuova nel campo della logica e della filosofia della scienza, costruendola dal nulla o quasi, a tal punto che del lontano pensiero autoctono (Peano, Vailati, Enriques) si erano quasi perdute anche le tracce.» (4) Qui non si vuole sostenere, tuttavia, che Geymonat abbia inventato un tipo di riflessione inesistente prima di lui - basti pensare che la prima redazione della Logica della scoperta scientifica di Popper risaliva al 1934, anche se fu pubblicata in Italia da Einaudi solo nel 1970 - bensì, che effettivamente egli fu pioniere in ambito italiano. Il fatto che Geymonat fosse relativamente all'oscuro degli studi di Popper e di Kuhn negli anni '50 - fu più titolo di merito che di demerito. In altre parole: seppe cogliere una necessità del momento mediante una notevole intuizione.
Merito che Pera non mancò di evidenziare: «Di questa stagione si riconoscono due fasi: una preparatoria, di apprendimento e di rodaggio degli strumenti, e una creativa, di produzione di opere originali. Ma i tempi sono affrettati. Dal 1960, anno in cui Geymonat pubblica Filosofia e filosofia della scienza e apre la collana presso l'editore Feltrinelli, al 1969, che è l'anno in cui Agazzi pubblica Temi e problemi di filosofia della fisica, passano solo nove anni. Ne passano meno, appena quattro, per arrivare al 1964, quando Pasquinelli dà alle stampe, nella stessa collana di Geymonat, i Nuovi principi di epistemologia.» I temi affrontati da Geymonat erano tutti di straordinaria importanza. In particolare, scriveva Pera, perché Geymonat aveva liberato la filosofia della scienza dalle servitù neopositivistiche e poi perché si era proposto di «allargare l'oggetto della filosofia della scienza dalla "statica" alla "dinamica" delle teorie.»(5) «Il primo tema condusse Geymonat a un quadro filosofico di tipo realistico; il secondo a integrare la filosofia della scienza, e più precisamente l'analisi strutturale delle teorie, con la storia della scienza.» (6) Per operare quel distacco e quell'emancipazione occorreva coraggio, ma Pera non mancò di sottolineare che Geymonat fu agevolato dal suo richiamo alla storia delle scienze. Ciò era gradito alla "filosofia generale", ovvero allo storicismo palese ed occulto. Tuttavia, dato che il temperamento filosofico di Geymonat era più incline ai programmi e alle cornici concettuali che non ai particolari del quadro, Geymonat non seppe cogliere tutti frutti e guadagnare nuovi consensi. «Al punto - proseguiva Pera - che quella filosofia della scienza che durante gli anni Sessanta, soprattutto per sua spinta, decollò, o dibatté ancora soluzioni neopositivistiche o mantenne un prevalente orientamento analitico-formale.» Come avverrà ad esempio con Alberto Pasquinelli, che aveva studiato con Carnap a Chicago.

Molto importanti furono le conseguenze dell'apertura di Geymonat allo studio sulla "dinamica delle teorie". Geymonat aveva sottolineato che un conto è «asserire che - nello studio della struttura sintattica di una teoria - noi dobbiamo evitare nel modo più scrupoloso di lasciarci turbare da riferimenti a considerazioni estranee alla struttura studiata; un altro conto, completamente diverso, è pretendere che l'analisi sintattica esaurisca in modo completo l'esame metodologico delle teorie e che la scienza possa venire compresa nella sua effettuale realtà senza considerazioni di carattere storiografico-pragmatico.» (7) A questa affermazione si aggiungeva senza alcuna difficoltà il concetto di "apertura" delle teorie stesse. «Le teorie in cui si articola la scienza non risultano affatto chiuse, ma sono - al contrario - ricche di comunicazione l'una con l'altra e col linguaggio comune, onde la medesima proposizione - traasferita da una teoria più ristretta ad una più generale - si arricchisce di nuovi significati, diventa fonte di nuovi sviluppi, rivela con maggiore chiarezza la ragione profonda della propria validità.» Questo era un colpo ben assestato a tutte le teorie dell'incomunicabilità e dell'intraducibilità, se si vuole, anche degli specialismi esasperati che sono d'altra parte indispensabili alla pratica scientifica. Teorie che odorano di "irrazionalismo" e "chiusura in qualche ghetto". D'altra parte, non deve sfuggire anche la terza conseguenza. Geymonat aveva riaperto anche la "pratica" del "progresso", del "progresso scientifico" in particolare, nonché della "cumulatività" delle teorie e dei saperi. Ciò , con una sorta di pentimento e autocritica rispetto alle posizioni assunte nei primi anni Cinquanta al tempo dei Saggi. Scrisse che esiste una «tendenza, manifestatamente operante nella scienza moderna, verso teorie sempre più generali capaci di assorbire in sé le teorie precedenti, dando loro un significato e chiarendo la funzione specifica delle condizioni limitatrici dalli quali dipendeva la loro particolarità.» Questo al punto che «anche quando una ricerca tecnico-sperimentale o teorica negava i risultati delle precedenti, questa negazione non esprimeva la contrapposizione statica di due punti di vista antitetici (come era spesso accaduto per le antiche scuole filosofico-scientifiche greche), ma la necessità di determinare i limiti entro cui i risultati negati possono essere accolti, integrandoli con altri risultati validi al di là di questi limiti.»

Per concludere, è parso opportuno un balzo di oltre venticinque anni. Nel 1985, Geymonat confermerà la sua visione nell'Appendice a Lineamenti di filosofia della scienza. «Se la storia della scienza ha da essere soltanto la storia degli scienziati, dei loro errori, dei loro sforzi per liberarsene ecc., il concetto di storia della scienza non presenta alcuna difficoltà: è la storia di uomini più o meno geniali, di istituzionu più o meno efficienti, di strumenti più o meno idonei a farci compiere certe osservazioni. Ma se essa ha da essere storia di teorie, di ipotesi, di dimostrazioni, allora sorgono subito le più gravi difficoltà: come si può parlare di storia di una teoria, per esempio di evoluzione dei suoi principi? O questi principi restano immutati, e allora la teoria può bensì conseguire nuovi risultati ma senza trasformarsi; oppure essi mutano, ma allora ci troviamo di fronte ad un'altra teoria, a una teoria nuova che non ha più nulla a che vedere con la vecchia, che cioè tratta di altri oggetti (definiti implicitamente da altri assiomi) anche se indicati sempre con i vecchi nomi.
E' stata particolarmente l'assiomatizzazione delle teorie a porci di fronte a queste difficoltà, in quanto ha posto in luce gli inscindibili legami fra i concetti e le loro regole d'uso (gli assiomi), cosicché diventa molto arduo affermare che una nuova teoria è in grado di risolvere i problemi lasciati aperti dalle teorie precedenti. Eppure la storia ci insegna che ciò è avvenuto più e più volte nella realtà, e proprio in riferimento alle scienze più rigorose.» (8) A queste importanti considerazioni, Geymonat faceva seguire l'osservazione che questo approccio era più facile ai tempi in cui si credeva che le teorie fornissero certezze e verità assolute circa le "leggi della natura". Sarà proprio il passaggio e l'adesione critica al "materialismo dialettico" a segnare in modo più fecondo la consapevolezza del lavoro scientifico come serie di approssimazioni successive che, tuttavia non portano mai a conclusioni definitive ma, solo a spiegazioni più inclusive e razionali.
(continua)

Note
1) Carlo Augusto Viano - Va' pensiero - Einaudi
2) La citazione è tratta da Giuseppe Vacca - Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956 - Editori Riuniti 1979
3) La citazione in Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza - in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985.
4) Marcello Pera - Dal neopositivismo alla filosofia della scienza - in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi - a cura di Eugenio Garin - Laterza 1985.
5) Ludovico Geymonat - Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
6) Marcello Pera, cit.

7) Ludovico Geymonat, cit.
8) Ludovico Geymonat - Lineamenti di filosofia della scienza - Mondadori 1985, seguita da una nuova edizione con una Postfazione e un aggiornamento della bibliografia di Fabio Minazzi - Utet 2006
Bibliografia
Il problema della conoscenza nel positivismo - Bocca - Torino 1931
La nuova filosofia della natura in Germania - Bocca - Torino 1934
Studi per un nuovo razionalismo - Chiantore - Torino 1945
Saggi di filosofia neorazionalistica - Einaudi - Torino 1953
Galileo Galilei - Einaudi - Torino 1957
Filosofia e filosofia della scienza - Feltrinelli 1960
Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà, con Renato Tisato - Garzanti - Milano 1965, 3 voll.
Attualità del materialismo dialettico, con Enrico Bellone, Giulio Giorello e Silvano Tagliagambe, Editori Riuniti, Roma 1974
Scienza e realismo - Feltrinelli - Milano 1982
Paradossi e rivoluzioni Intervista su scienza e politica - a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori - Il Saggiatore, Milano 1979.
Filosofia della probabilità con Domenico Costantini - Feltrinelli - Milano 1982
Riflessioni critiche su Kuhn e Popper - Dedalo - Bari 1983
Lineamenti di filosofia della scienza, Mondadori 1985, seguita da una nuova edizione con una Postfazione e un aggiornamento della bibliografia di Fabio Minazzi - Utet 2006
Le ragioni della scienza con Giulio Giorello e Fabio Minazzi - Laterza, Roma-Bari 1986
Storia del pensiero filosofico e scientifico - Garzanti - Milano 1970-1976, 7 voll.
La libertà - Rusconi - Milano 1988
La società come milizia, a cura di Fabio Minazzi, Marcos y Marcos 1989
nuova edizione La civiltà come milizia, a cura di Fabio Minazzi - La Città del Sole - Napoli 2008

I sentimenti - Rusconi - Milano 1989
Filosofia, scienza e verità, con Evandro Agazzi e Fabio Minazzi - Rusconi - Milano 1989
La Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis - a cura di Mario Quaranta - il Poligrafo, Padova 1991
Dialoghi sulla pace e la libertà, con Fabio Minazzi - Cuen - Napoli 1992
La ragione, con Fabio Minazzi e Carlo Sini - Piemme - Casale Monferrato 1994


moses - novembre 2012
Giuseppe Vaccarino
Silvio Ceccato
Giulio Preti - di Daniele Lo Giudice
Antonio Banfi - di Daniele Lo Giudice

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