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Ludwig Wittgenstein

Il neopositivismo logico: il Wiener Kreis, Schlick, Neurath, Carnap


Il «neopositivismo», detto anche «positivismo logico» e «empirismo logico», fu l'indirizzo coltivato nel cosiddetto Wiener Kreis, il «Circolo di Vienna», fondato da Moritz Schlick.
Nel 1925 un gruppo di studiosi di aree diverse interessati ai temi dei fondamenti della logica e della matematica, nonchè alla gnoseologia empirista, costituì un circolo di discussione, poi noto appunto come "Wiener Kreis".
Tra i molti promotori e partecipanti Friedrich Waismann, il matematico Hans Hahn, il sociologo di orientamento marxista Otto Neurath, il geniale matematico boemo Kurt Gödel, il fisico Phillip Frank, Herbert Feigl.
Una chiara delineazione dei principi filosofici accettati dal gruppo si ha con l'arrivo a Vienna di Rudolf Carnap nel 1926 e con la lettura e la discussione del "Tractatus" di Ludwig Wittgenstein (il quale si incontrava spesso con i membri del gruppo senza tuttavia aderire ufficialmente).
Nel 1928 venne fondata per iniziativa di Moritz Schlick l'associazione culturale "Ernst Mach" con il progetto di diffondere una visione scientifica unitaria del mondo. Il richiamo a Mach e le "letture" di Wittgenstein sono dunque fondamentali per intendere i presupposti filosofici del circolo di Vienna.

Giova ricordare che Mach criticò il modello della meccanica newtoniana a partire dalle scoperte compiute nel campo dell'elettromagnetismo da Faraday, Maxwell ed Hertz, con particolare riferimento all'esistenza di uno spazio e di un tempo assoluti, e ribadì il carattere ipotetico di tutte le teorie scientifiche, le quali sono suscettibili di essere modificate, od addirittura abbandonate, se smentite dall'esperienza.
Fin qui ci sarebbe ben poco da eccepire: infatti la crisi della scienza era in realtà la crisi di un certo numero di scienziati i cui modelli si erano mostrati insufficienti a descrivere ed interpretare la realtà.
Mach si limitava, perciò, a considerare il risvolto filosofico di questa "crisi".
Tuttavia Mach andò poi molto oltre, sostenendo che la realtà non è altro che le nostre sensazioni, cioè dati che sono insieme fisici e psichici. Se ben si guarda non si tratta di una teoria del tutto nuova in quanto abbastanza simile a quella dell'esse est percepi di Berkeley.
Di fatto Mach venne così a negare l'esistenza di un mondo reale e materiale indipendente dalle percezioni e questo provocò diverse reazioni sia tra i fisici che tra i filosofi, perchè, in teoria, ogni restrizione dell'esperienza umana alla percezione fisica è sempre, volenti o nolenti, anche una restrizione della razionalità da un lato e della realtà dall'altro.
Di fronte a questo tipo di considerazioni la risposta è, più o meno, sempre la stessa: i boscimani o i "marziani" esistono anche se non li abbiamo mai visti; potrebbe esistere, ad esempio, una società migliore e più giusta di quella attuale, ed è la razionalità (non l'utopismo) a suggerirlo.
Una critica lucida e radicale all'empiriocriticismo di Mach ( e di Avenarius) venne formulata (non a caso) da Lenin, che non era nè scienziato nè filosofo, ma dirigente politico bolscevico più realista ed opportunista del re, nel saggio "Materialismo ed empiriocriticismo".
Ma sotto un altro punto di vista, indubbiamente più filosofico, anche Husserl sottopose a critica l'empiriocriticismo con la fenomenologia, cioè la rifondazione della filosofia come "sapere razionale rigoroso" della realtà in quanto realtà "in carne ed ossa".
Anche Karl Popper criticò il neopositivismo, in particolare ribadendo il carattere pluralistico della conoscenza, che pertanto non può ridursi ad un'unica forma, quella scientifica.
Infine, all'interno dello stesso empirismo, si svilupparono le posizioni critiche di Quine, in parte coincidenti con le riserve di Wittgenstein.

Fu in questo quadro vivace ed articolato di posizioni che si sviluppò un dibattito che, in generale, incluse anche il problema della fondazione delle scienze.

Per intendere questo punto, non sempre adeguatamente presente nei riassunti ad uso scolastico del neopositivismo, occorre aver chiaro che ricondurre o ridurre le scienze ad un campo comune, ad una scienza comune, volenti o nolenti significa "rifondare" su principi comuni e condivisi. E questo fu lo scopo dichiarato del neopositivismo.

Il gruppo di Vienna stabilì rapporti di collaborazione col gruppo costituito a Berlino attorno ad Hans Reichenbach, Carl Gustav Hempel ed il fisico Richard Von Mises.
Nel 1929 il circolo scrisse un manifesto programmatico nel quale veniva definita una comune filosofia come "concezione scientifica del mondo (wissenschaftliche Weltauffassung).
Le elaborazioni vennero rese pubbliche attraverso la rivista "Erkenntnis", «Conoscenza», diretta da Carnap e Reichenbach.

Nel Manifesto lo scopo programmatico era così riassunto:
<< La concezione scientifica del mondo è caratterizzata non tanto da tesi peculiari, quanto, piuttosto, dall'orientamento di fondo, dalla prospettiva, dall'indirizzo di ricerca.
Essa si prefigge come scopo l'unificazione della scienza. Suo intento è collegare e coordinare le acquisizioni dei singoli ricercatori nei vari ambiti scientifici. da questo programma derivano l'enfasi sul lavoro collettivo, sull'intersoggetività, nonchè la ricerca sistematica di formule neutrali, di un simbolismo libero dalle scorie delle lingue storiche, non meno che la ricerca di un sistema globale di concetti. Precisione e chiarezza vengono perseguite, le oscure lontananze e le profondità impenetrabili respinte. Nella scienza non si da "profondità" alcuna; ovunque è superficie [...] (Carnap, Hahn, Neurath, 1929 pp 74-75)

Il circolo viennese ebbe rapporti con gruppi e studiosi di tutto il mondo, in particolare con la scuola dei logici polacchi, tra i quali Tarski, con studiosi americani quali Morris, Quine ed Ernest Nagel, inglesi come John Wisdom di Cambridge e Ryle e Ayer di Oxford, scandinavi come Axel Hagerström, Eino Kaila, Jörgen Jörgensen.
Con l'avvento del nazismo in Germania il gruppo si disciolse. Schlick fu assassinato, e un buon numero di partecipanti si trasferí a Chicago, negli Stati Uniti, dove il gruppo lavorò alla pubblicazione dell'«Enciclopedia Internazionale della scienza unificata», a partire dal 1938, avvalendosi anche della collaborazione del fisico Niels Bohr, di Bertrand Russell e di John Dewey.
L'impresa si proponeva di ricondurre tutte le scienze allo stesso metodo, quello teorizzato dal gruppo, ma si arrestò dopo pochi volumi, sia per le difficoltà intrinseche del progetto, sia per lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Nel frattempo anche in Inghilterra il filosofo Alfred J. Ayer, che aveva studiato a Vienna e frequentato il Wiener Kreis, aderì all'empirismo logico. Nel 1936 venne pubblicato il suo saggio "Linguaggio, verità e logica" nel quale Ayer presentava al pubblico inglese la tesi del Wiener Kreis ed, in particolare, riprendeva le posizioni del secondo Wittgenstein, il cui testo "Ricerche Filosofiche", sarebbe circolato solo privatamente in Inghilterra fino al 1953.

La tesi fondamentale del neopositivismo

La tesi fondamentale dei neopositivisti, largamente condivisa da tutti gli aderenti al circolo di Vienna, è la critica alla natura metafisica della filosofia tradizionale: ogni metafisica è un insieme di enunciati che non hanno senso (non sono veri nè falsi) perchè ricavati da concetti privi di scientificità.
Il neopositivismo si presenta quindi come negazione della filosofia precedente compromessa con la metafisica e come ricostruzione della filosofia in quanto "critica del linguaggio" scientifico.
La via per ricostruire una filosofia non metafisica era dunque quella di analizzare il linguaggio scientifico in quanto, solo così, si sarebbe ottenuta una teoria della conoscenza in grado di offrire il principio di verifica e di controllo abilitato a distinguere le proposizioni significanti da quelle prive di senso in una prospettiva comune.

Leggiamo ancora nel manifesto: <<La concezione scientifica del mondo non conosce gli enigmi insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle come pseudo-problemi, in parte a convertirle in questioni empiriche, soggette quindi al giudizio della scienza sperimentale.>> (Carnap, Hahn, Neurath,1929 p.75)
L'errore fondamentale della metafisica non consiste nell'avere un contenuto emotivo da esprimere, ma nel simulare un contenuto teorico inesistente.
Gli errori dei metafisici sono in sostanza di tre tipi diversi: psicologiche, sociologiche e logiche.
In primo luogo si considera errata l'idea che il pensiero possa, da solo, senza far leva su dati empirici, condurre alla conoscenza.
<<Poichè il senso di ogni asserto scientifico deve risultare specificabile mediante riduzione ad asserti sul dato, anche il senso di ogni concetto, quale che sia il settore della scienza cui questo appartiene, deve potersi stabilire mediante riduzione graduale ad altri concetti, giù fino ai concetti di livello più basso, che concernono il dato medesimo.>>
(Carnap, Hahn, Neurath, 1929 p.80)
La possibilità di una unità della scienza si basa soprattutto sulla riducibilità delle proposizioni scientifiche ad asserti di base.
Purtroppo la teoria sembra non reggere di fronte al tentativo di stabilire una identità tra il criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza e quello tra senso e non-senso.
Ci sono, volenti o nolenti, troppe cose che hanno un senso, anche se non sono scientificamente osservabili, o riducibili a scienza.


Moritz Schlick (1882-1936) nacque a Berlino nel 1882 e si laureò in fisica con Max Planck; insegnò prima a Kiel e poi all'università di Vienna, dove nel '24 incontrò Wittgenstein. Scrisse saggi pubblicati poi postumi nell'opera Natura e cultura.
Nel 1936 fu ucciso da uno studente filonazista perchè si opponeva all'annessione dell'Austria alla Germania.

Schlick, muovendo da alcune osservazioni di Mach, senza tuttavia aderire in toto alla filosofia empiriocriticista, teorizzò il «principio di verificabilità» considerando che le scienze fisiche partono dall'osservazione dei dati sensibili, risalgono per induzione ai giudizi universali di tipo ipotetico e poi giungono, per mezzo della matematica, a delle conclusioni parziali, le quali sono vere, solo se vengono verificate e certificate da nuove osservazioni sensibili.
Qualunque questione è risolubile se si possono ipotizzare le esperienze che si dovrebbero avere per darle una risposta; e tale risposta non può essere se non una «proposizione».
Tale proposizione allora ha un senso se siamo in grado di indicare con precisione le circostanze specifiche che la renderebbero vera e insieme quelle che la renderebbero falsa. Laddove «circostanze» significano «fatti d'esperienza» (Erlebnisse).
In altre parole Schlick concepiva la conoscenza come rapporto tra segni (i concetti espressi in proposizioni) e dati, (le intuizioni dei fatti sensibili). La verità era per Schlick la corrispondenza costante degli stessi segni agli stessi dati.
In questa prospettiva il giudizio è vero quando riunisce concetti che si riferiscono al medesimo dato.
Sicché, in definitiva, è l'esperienza che verifica la verità o falsità di una proposizione. Pertanto il criterio della risolubilità di una questione è la sua riconduzione all'esperienza possibile.

Da ciò deriva che i problemi metafisici non sono risolubili, perché le risposte sono proposizioni inverificabili con l'esperienza, e quindi prive di senso.

Quanto alla scienza, poi, egli dice che essa è costituita di proposizioni. Tali proposizioni, però, non devono essere tautologiche ma «sintetiche». Quelle tautologiche si basano esclusivamente sul criterio di non contraddittorietà, mentre quelle sintetiche implicano il criterio di «verità materiale».

Scrisse:

<<Se si potesse identificare verità ed assenza di contraddizione in quanto tale, ogni discussione in proposito sarebbe già finita. Da molto tempo si è generalmente riconosciuto che solo nelle proposizioni di carattere tautologico incontraddittorietà e verità sono espressioni equivalenti come avviene ad esempio nelle proposizioni della geometria pura. Ma nelle proposizioni di questo tipo si è intenzionalmente tagliato ogni rapporto con la realtà ed esse sono solo delle formule all'interno di un calcolo prestabilito.
Abbiamo qui a che fare proprio con ciò che in passato era chiamato verità formale e che veniva distinto dalla verità materiale.
Quest'ultima è la verità delle proposizioni sintetiche e cioè degli asserti intorno ai fatti, e se la si vuol caratterizzare mediante il concetto di assenza di contraddizione o di concordanza con altre proposizioni, si potrà far ciò solo a patto di porre certi asserti del tutto determinanti, con cui tutte quelle altre proposizioni debbono non trovarsi in contraddizione, e cioè solo a patto di porre proprio quegli asserti che esprimono «i fatti della osservazione immediata». Non vedo alcun inconveniente - e anzi lo ritengo del tutto opportuno - usare per questa compatibilità la vecchia e buona espressione «concordanza con la realtà.>>
(Sul fondamento della conoscenza)
Pertanto quelle proposizioni cosiddette «protocollari», cioè quelle che «in tutta semplicità, senza alcuna aggiunta o trasformazione o manipolazione, esprimono i fatti», hanno valore conoscitivo solo in quanto fondate su «proposizioni di osservazione empirica». E nell'uso che se ne fa, hanno esclusivamente valore ipotetico; cioè, per essere valide, debbono esser verificate dalle «constatazioni» d'esperienza personale, constatazioni «in atto».
Otto Neurath (1882-1945) autore di Fisicalismo, Proposizioni protocollari, Sociologia empirica, sociologo di ispirazione marxista, contestò le tesi di Schlick ( e Carnap, vedi ) osservando che i dati sensibili sono del tutto soggettivi e quindi non possono essere fondamento valido per le proposizioni scientifiche.

La scienza non si fonda, e non può fondarsi, su questi riferimenti soggetivi. Né una proposizione scientifica può esser verificata in base alle costatazioni empiriche personali, cioè al personale riferimento al mondo esterno. Questo riferimento implica sempre l'introduzione dell'«io» o del «tu» nella proposizione («io» provo, vedo, sento...).

Egli propose quindi di fondare le proposizioni scientifiche sui cosiddetti «protocolli», cioè sulle proposizioni elementari che «protocollano» i fatti fisici allo stato puro, cioè senza l'interferenza dell'esperienza personale.
Il linguaggio più adatto a questa operazione fu individuato da Neurath nel linguaggio della fisica, perciò egli definì fisicalismo la sua proposta di assumere questo linguaggio oggettivo a modello di tutte le scienze. ("Erkenntnis", 1931, pag 393)

C'è da osservare che questa impostazione comportava una rinuncia: cioè a considerare il ragionamento sulla verità esclusivamente sul piano sintattico, evitando quello semantico concernente il significato della frase stessa; finiva dunque col proporre una concezione della verità fondata solo sulla coerenza interna del discorso invece che sulla corrispondenza tra discorso e fatti reali.
Per questo, secondo Neurath, la verifica della proposizione scientifica poteva esser compiuta solo a livello di linguaggio, cioè confrontando tra loro le proposizioni «protocollari».

Neurath andò però anche oltre, in questo discorso. Egli disse che non si può parlare di «isomorfismo» tra realtà e linguaggio, ma di «identità». Per cui la realtà «è» linguaggio, e anche il linguaggio «è» realtà, cioè è un «fatto fisico» come gli altri. Ciò implica evidentemente che è privo di senso tutto ciò che non può esser trasposto nelle forme fisiche del linguaggio, cioè in «suoni» linguistici. Sono questi i principi del «fisicalismo» di Neurath.



Rudolph Carnap (1891-1970) nacque a Ronsdorf (Germania) nel 1891, studiò matematica con Frege all'università di Jena, indi a Friburgo, e poi fu professore a Vienna a partire dal 1926. Attraversò diverse fasi di pensiero che sono espresse nelle sue tre opere fondamentali: La costruzione logica del mondo (Der logische Aufbau der Welt)1928, Sintassi logica del linguaggio (1934), Introduzione alla semantica (1942). Scrisse pure altri saggi, tra i quali L'eliminazione della metafisica per mezzo dell'analisi logica del linguaggio, Fondamenti logici della probabilità (1950), I fondamenti della logica e della matematica (1939), Significato e necessità (1947).
Con Carnap siamo ad una interpretazione molto rigida delle limitazioni al linguaggio, al "cosa si può dire" e "cosa non si può dire" senza scadere nel non senso secondo il primo Wittgenstein nel Tractatus.
Ne vengono esclusioni di discorso che mettono freddo alle ossa solo a pensarci!
Scherzi a parte, il problema, probabilmente, non è tanto quello di "ciò che si può dire", ma di ciò in cui possiamo credere senza renderci ridicoli perfino davanti a noi stessi.
E' evidente che il mondo scientifico in generale pone molte più limitazioni di quello ordinario per l'ovvia necessità di arrivare sempre alla verifica di una teoria e di qualsiasi enunciato con valore predittivo e prescrittivo, basti pensare agli effetti che hanno determinati medicinali sul corpo umano.

In "Der logische Aufbau der Welt" Carnap sviluppò il tema della scienza come «costruzione logica del mondo», sostenendo che l'unico mondo di cui possiamo parlare con verità, cioè l'unico che possiamo conoscere scientificamente, è l'insieme dei concetti della scienza.
La scienza è unica, dice Carnap, anche se vi sono campi diversi d'indagine con diversi «oggetti».
Essa è costituita di elementi primari o enunciati o proposizioni elementari che rappresentano gli «elementi originari» del mondo. Tali proposizioni esprimono un contenuto, che è l'«esperienza vissuta elementare», e una forma, che è la relazione fondamentale tra le esperienze vissute (come quella del ricordo di somiglianza). La filosofia perciò deve configurarsi come analisi del linguaggio scientifico, cioè deve ricondurre logicamente le «proposizioni scientifiche» a «proposizioni verificabili» attraverso le esperienze vissute elementari e le loro relazioni.
Riprendendo il "principio di verificazione" da Moritz Schlick egli giunse a scrivere che << il senso di una proposizione è il metodo della sua verifica.>>
Schlick aveva scritto: <<Stabilire il significato di una frase equivale a stabilire delle regole secondo
cui la frase deve essere usata, il che equivale a stabilire il modo in cui essa può venire verificata ( o falsificata). Il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione.>> (1936)

Si tratta di affermazioni estreme che in realtà non sembrano accettabili del tutto in quanto non sempre la significanza coincide con la verificabilità.
E' perfino ovvio che prima di verificare un enunciato, si debba comprenderne il senso, e se ne posso comprendere il senso, posso anche comprendere che il significato non è verificabile.
Ma Carnap intese, probabilmente con ciò riprendere la distinzione introdotta da Frege tra senso e significato, e sostenne che il senso dei concetti è dato unicamente dai loro "rapporti matematici", cioè quantitativi e misurabili ed è su questa possibile misurabilità che si fa scienza.
Ogni concetto sarebbe dunque, per Carnap, definibile per l'insieme dei rapporti matematici che intrattiene con tutti gli altri.
Questo insieme costituisce la struttura logica del mondo, ma solo come sistema formale, che, pertanto non dice cosa c'è nella forma della rappresentazione, cioè del modello.
Un esempio di tale struttura è per Carnap la piantina ferroviaria che congiunge diverse città con linee in neretto.
La piantina chiarisce solo la collocazione della città, la denomina, ma non dice quali particolari caratteristiche abbiano le città.

Come si può notare in Carnap, come in tutto il successivo neopositivismo, si incontrano due piani:
quello della verificazione empirica e quello della logica.
Il primo risale ad una tradizione filosofica "scettica", anche se non ci sembra il caso di scomodare Hume: bastano Mach ed Avenarius.
Il secondo risale alla corrente che trova i suoi inizi in Boole e si sviluppa attraverso Frege (che tentò di ricondurre la matematica alla logica), Peano e Russell. L'empirismo fenomenico deve dirci quali sono i dati di fatto, le "Tatsachen" di Wittgenstein; la logica deve mostrare come la matematica sia riducibile a "logica", dunque sia strettamente connessa al problema della rifondazione della matematica, alla logica simbolica, ai problemi dell'assiomatica.


La fondazione delle scienze tende quindi a mostrarsi su due livelli separati e, secondo Quine, questa separazione è uno dei dogmi dell'empirismo logico. Il secondo è quello del rigetto della metafisica.
Per Carnap, ovviamente, tutte le proposizioni metafisiche vanno rigettate in quanto inverificabili. Definizioni come quelle di sostanza o di causa non consentono una «costruzione» scientifica del mondo fisico.
Ai termini della metafisica non corrisponde un significato preciso ed utile all'indagine scientifica del mondo e le relazioni tra termini nei discorsi metafisici non rispettano le norme della «sintassi logica del linguaggio».
La metafisica è come l'arte, cioè mostra un modo non scientifico di relazionarsi alle cose. Essa è fatta di «pseudo-proposizioni» articolate in ragionamenti scorretti.
Per Carnap «I metafisici sono in fondo musicisti senza talento musicale». Tali sono gli idealisti tedeschi, come Hegel, e tale è anche Bergson. Parlano delle essenze delle cose «trascendendo», saltando oltre l'esperienza, e in disprezzo del procedimento induttivo.

Ma la filosofia di Carnap, proprio rigettando la metafisica, si trova così alle prese con un problema decisivo: abbiamo due piani distinti: quello empirico e quello logico. Qual'è quello che fonda?
Carnap sceglie di usare la logica per costruire l'immagine logica del mondo.
Su questo tema si sviluppa una seconda tappa del pensiero di Carnap. Punto di partenza è il «dato» d'esperienza. Tale dato, per essere utilizzato scientificamente, dev'essere tradotto in «proposizione protocollare», cioè in formulazione linguistica descrittiva del contenuto di esperienza immediata e delle relazioni fondamentali. Tali proposizioni protocollari poi vengono disposte nel «linguaggio sistematico» della scienza, che si esprime in proposizioni generali, o leggi di natura. Sono le proposizioni protocollari, poi, che permettono la «verifica» della scienza; la quale, come «linguaggio sistematico» è solo un'«ipotesi». In tal senso Carnap dichiara che non si può uscire da una sorta di solitudine metodica, perché le proposizioni protocollari enunciano esperienze strettamente personali, anche se il valore di tali proposizioni è «comunicativo» e anche se l'aspirazione è che esse siano assunte come valide universalmente. È a livello intersoggettivo però che ha valore la proposizione protocollare: se due persone hanno diverse opinioni sulla lunghezza di un segmento, allora si cercherà di realizzare un esperimento tale da unificare le diverse proposizioni protocollari.

Sebbene allora le proposizioni protocollari siano fondate sui dati d'esperienza, non dall'esperienza deriva l'immagine logica del mondo, ma solo dalla correttezza logica del linguaggio scientifico. Tale correttezza è provata dall'analisi del linguaggio scientifico per via formale, cioè attraverso l'analisi dei termini, delle proposizioni adottate e delle relazioni tra proposizioni. Il linguaggio scientifico è un «contesto» di relazioni secondo una «sintassi logica», cioè secondo leggi precise della formazione delle proposizioni e della loro trasformazione, cioè della derivazione di una proposizione dall'altra (in ciò Carnap da ragione a Neurath: non si può andare oltre il linguaggio).

<<Il linguaggio della fisica è un linguaggio universale, che comprende i contenuti di tutti gli altri linguaggi scientifici. In altri termini ogni proposizione di una branca del linguaggio scientifico è equipollente ad alcune proposizioni della lingua fisicalistica e può essere pertanto tradotta in essa senza mutare il suo contenuto (Philosophy and Logical Syntax,
1935, pag. 89)
La sua validità è data solo dal «calcolo» corretto delle possibilità di combinazione dei termini negli enunciati, e degli enunciati nei ragionamenti, indipendentemente dal contenuto. «Le questioni della logica della scienza sono formali, vale a dire sintattiche»; «la situazione reale viene alla luce quando si procede alla traduzione delle proposizioni del modo materiale di parlare nelle proposizioni sintattiche corrispondenti, e quindi nel modo formale». Io posso ben dire «tre è un numero», ma questo è un modo materiale di parlare; «esso dev'essere tradotto in "tre è un termine numerico"», che è il modo formale di esprimersi. Io posso ben dire «la lezione di ieri trattò di Babilonia», ma la traduzione formale dell'espressione è «nella lezione di ieri fu impiegata la parola Babilonia». Io posso ben dire «la parola stella del giorno designa il sole», ma la sua traduzione formale è: la parola stella del giorno è sinonimo di sole». Il modo formale di parlare perciò è un «metalinguaggio» rispetto al modo materiale.
Dunque, il valore di un linguaggio è dato dalla correttezza interna di carattere formale. Di qui deriva anche che ognuno può adottare un qualsivoglia linguaggio. «Il nostro atteggiamento, dice Carnap, si esprime attraverso la formulazione del principio di tolleranza; non è nostro compito stabilire delle proibizioni, ma soltanto giungere a delle convenzioni». E aggiunge:

«In logica non vi sono morali; ognuno è libero di costruire la propria logica, cioè la propria forma di linguaggio. Se vuole discutere con noi deve solo indicare come lo vuole fare, dare determinazioni sintattiche invece di argomenti filosofici» ("Logische Syntax der Sprache", 1934, § 17)
Una volta intrapresa questa strada si comprenderà che lo spazio di competenza dei filosofi e della filosofia è ridotto al lumicino.
<<Secondo i filosofi le questioni filosofiche riguarderebbero i medesimi oggetti investigati dalle singole scienze, per quanto da un punto di vista del tutto differente, cioè dal punto di vista puramente filosofico. In opposizione a ciò, sosteniamo che tutti questi ultimi problemi filosofici sono problemi logici. Anche le questioni oggettive fittizie sono questioni logiche inadeguatamente formulate. Il presunto punto di vista specificamente filosofico dal quale dovrebbero venire investigati gli oggetti della scienza si rivela illusorio, come, in precedenza, si era dissolta, una volta sottoposta ad analisi, la presunta sfera di oggetti specificamente filosofica propria della metafisica. Prescindendo dai problemi delle singole scienze gli unici genuini problemi scientifici sono quelli dell'analisi logica della scienza delle sue proposizioni, termini, concetti, teorie, e simili. A questo complesso di problemi daremo il nome di logica della scienza.
In base a questa concezione, una volta che la filosofia è stata purificata da tutti gli elementi non scientifici, non rimane altro che la logica della scienza. Nella maggior parte delle ricerche filosofiche, però, una netta distinzione degli elementi scientifici e non scientifici è senza dubbio impossibile. Pertanto preferiamo affermare: la logica della scienza prende il posto di quell'inestricabile groviglio di problemi che è noto sotto il nome di filosofia.>> ("Logische Syntax der Sprache", 1934)
Nella terza fase del suo pensiero Carnap concentrò l'attenzione sulla semantica, ed in particolare sui «significati» delle proposizioni, quindi su ciò che si "designa" quando si nomina qualcosa. Ciò era reso indispensabile dal fatto che ipoteticamente poteva darsi un linguaggio formale ma inconcludente. Egli allora riprese il concetto di Frege di «nome-relazione», per il quale il significato di un termine è dato dal nesso tra il termine stesso e l'entità - concreta o astratta - di cui quel termine costituisce il nome. Carnap riconobbe che questa teoria di Frege avrebbe potuto dare origine ad antinomie e ricorse alla «teoria dell'estensione e dell'intensione», che era stata introdotta come terminologia necessaria da Leibniz per mostrare alcune fondamentali differenze.
L'esempio offerto da Leibniz mostra infatti che :
<< L'animale comprende più individui che l'uomo, ma l'uomo comprende più idee e più forme; l'uno ha più esempi, l'altro più gradi di realtà; l'uno ha più estensione, l'altro ha più intensione.>> (nouv Ess, IV,17)
In realtà la necessità di questa distinzione si pone ogni qualvolta il significato semantico di un qualsivoglia segno (o indicazione) debba essere riferito a qualcosaltro, praticamente sempre, se si utilizzano segni grafici e simboli, ad esempio per indicare le toilettes riservate ai maschietti e quelle riservate alle femminucce.
Ecco che anche nella vita quotidiana facciamo dunque uso di una preliminare intensione per poi giungere ad una estensione di significato. Questo fatto è inconscio in molti di noi, ma rimane pur sempre un fatto di cui è possibile render conto.
Quando si cerca di precisare in che consiste il riferimento di un segno si incontrano due tipi di risposta, peraltro già precisati dalla logica scolastica medioevale mediante la distinzione tra comprensione ed estensione.
Comprendere infatti il significato di un segno o di una proposizione scientifica, comporta anche la sua estendibilità.
Oggi si preferisce parlare di intensione anzichè di comprensione, ma il significato rimane essenzialmente identico.
La parola "uomo" come sua intensione indica l'insieme di caratteristiche che un essere vivente deve avere per essere classificato come tale. La prima intensione in senso vero e proprio fu quella coniata da Aristotele (uomo = animale bipede, implume, politico, sprovvisto di ali, razionale E le donne?)
L'estensione definisce la classe o insieme che raccoglie la parola "uomo".
Pressochè contemporaneamente a Carnap anche Bertrand Russell aveva lavorato sulla tesi dell'estensionalità nei Principia Mathematica. (vedi B. Russell: file in costruzione)
Considerazioni conclusive

Crediamo sia utile presentare un paio di considerazioni: gli argomenti antimetafisici del neopositivismo
sono prevalentemente rivolti contro una "cattiva" metafisica, quella più dogmatica e meno giustificabile, più o meno la stessa con la quale se la prese Kant, ed alcuni autori, soprattutto Carnap; estesero questa critica anche alla metafisica necessaria alla filosofia, cioè quella di Aristotele, ovvero la scienza dell'essere in quanto essere, senza peraltro averne realmente discussa e verificata la necessità, almeno sotto il profilo storico, come tappa dell'evoluzione umana.
Dai metodi del neopositivismo logico potremmo trarre una intensione della metafisica necessaria e vedere fino a che punto sia estendibile ai metafisici di ogni tempo, senza dimenticare, peraltro, che la stessa matematica è in certo senso "metafisica" in quanto opera su oggetti, i numeri, gli insiemi, e le lettere dell'alfabeto, che non hanno alcuna realtà fisica se non quando, appunto, vengono fonetizzate o scritte. I più grandi sviluppi della matematica sono dovuti in sostanza a fior di metafisici, da Pitagora a Euclide, da Pappo a Hilbert e Weierstrass.
La matematica dunque ci pone sempre di fronte ad un paradosso difficile da digerire: è una scienza che si basa su asserti metafisici inverificabili. Tuttavia, una volta riconosciuto che 2+2=4, noi siamo sempre certi che sia così.
E del resto anche il ricorso a metateorie e metalinguaggi è per sua stessa definizione metafisica,
anche se di tipo qualitativamente diverso dalla "cattiva" metafisica precedente.
Quando Gödel tuttavia mostrerà che è impossibile una assiomatizzazione completa della logica e che un sistema formale non può fondarsi su se stesso, indicherà anche, implicitamente, che l'esperienza viene prima della logica, e che è la stessa logica a doverlo riconoscere.
Non possiamo costruire assiomi se non abbiamo fatto esperienza di ciò che gli assiomi dicono o vorrebbero dire. Il problema di ogni logica è dunque quello di chiarire l'esperienza fatta e questo ancor prima del necessario chiarimento sul linguaggio che si vuole utilizzare.
Resterebbe, allora, solo da chiarire in quale linguaggio si racconta l'esperienza fatta...

In secondo luogo, riconosciuto il giusto tributo a questa corrente di pensiero, ci pare che la riflessione
sul linguaggio, insieme alla consapevolezza del che significa parlare, scrivere, comunicare, sia ancora lontana da una sistemazione teorica soddisfacente.
Probabilmente è vero che "si può dire sia tutto che il contrario di tutto". Se alcuni lo fanno, è evidente che si può. Eticamente alcuni individui lo ritengono giustificabile ed altri no. Chi scrive è per il no. Ma per ora non sa ancora spiegare lucidamente i motivi e, soprattutto, non sa scegliere gli assiomi giusti per dire quello che quello che si può è spesso quello che si deve, e che, in ogni caso, non sempre è possibile distinguere e marcare strettamente ciò che è scienza e ciò che non lo è.
Per di più ciò che ha senso non sempre è riconducibile ad un sapere scientifico certo ed incontrovertibile. Spesso è solo sapere comune, puro buon senso.
Tuttavia, rimanendo in un'ottica schiettamente neopositivista, ci pare che in definitiva sia rimasto aperto ed irrisolto un problema di non scarsa rilevanza, quello della scelta degli assiomi su cui fondare
non tanto una scienza unificata, quanto un vero protocollo di discussione. Questo perchè il tipo di esperienze fatte è drammaticamente diverso in ognuno di noi, anche tra compagni di scuola seduti nello stesso banco.


moses - 2001

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