Il neopositivismo logico: il Wiener
Kreis,
Schlick, Neurath, Carnap
Il «neopositivismo», detto anche «positivismo
logico» e «empirismo logico», fu l'indirizzo
coltivato nel cosiddetto Wiener Kreis, il
«Circolo di Vienna», fondato da Moritz Schlick.
Nel 1925 un gruppo di studiosi di aree
diverse
interessati ai temi dei fondamenti
della
logica e della matematica, nonchè alla
gnoseologia
empirista, costituì un circolo di discussione,
poi noto appunto come "Wiener
Kreis".
Tra i molti promotori e partecipanti
Friedrich
Waismann, il matematico Hans Hahn,
il sociologo
di orientamento marxista Otto Neurath,
il
geniale matematico boemo Kurt Gödel,
il fisico
Phillip Frank, Herbert Feigl.
Una chiara delineazione dei principi
filosofici
accettati dal gruppo si ha con l'arrivo
a
Vienna di Rudolf Carnap nel 1926 e
con la
lettura e la discussione del "Tractatus"
di Ludwig Wittgenstein (il quale si
incontrava
spesso con i membri del gruppo senza
tuttavia
aderire ufficialmente).
Nel 1928 venne fondata per iniziativa
di
Moritz Schlick l'associazione culturale
"Ernst
Mach" con il progetto di diffondere
una visione scientifica unitaria del
mondo.
Il richiamo a Mach e le "letture"
di Wittgenstein sono dunque fondamentali
per intendere i presupposti filosofici
del
circolo di Vienna.
Giova ricordare che Mach criticò il
modello
della meccanica newtoniana a partire
dalle
scoperte compiute nel campo dell'elettromagnetismo
da Faraday, Maxwell ed Hertz, con particolare
riferimento all'esistenza di uno spazio
e
di un tempo assoluti, e ribadì il carattere
ipotetico di tutte le teorie scientifiche,
le quali sono suscettibili di essere
modificate,
od addirittura abbandonate, se smentite
dall'esperienza.
Fin qui ci sarebbe ben poco da eccepire:
infatti la crisi della scienza era
in realtà
la crisi di un certo numero di scienziati
i cui modelli si erano mostrati insufficienti
a descrivere ed interpretare la realtà.
Mach si limitava, perciò, a considerare
il
risvolto filosofico di questa "crisi".
Tuttavia Mach andò poi molto oltre,
sostenendo
che la realtà non è altro che le nostre
sensazioni,
cioè dati che sono insieme fisici e
psichici.
Se ben si guarda non si tratta di una
teoria
del tutto nuova in quanto abbastanza
simile
a quella dell'esse est percepi di Berkeley.
Di fatto Mach venne così a negare l'esistenza
di un mondo reale e materiale indipendente
dalle percezioni e questo provocò diverse
reazioni sia tra i fisici che tra i
filosofi,
perchè, in teoria, ogni restrizione
dell'esperienza
umana alla percezione fisica è sempre,
volenti
o nolenti, anche una restrizione della
razionalità
da un lato e della realtà dall'altro.
Di fronte a questo tipo di considerazioni
la risposta è, più o meno, sempre la
stessa:
i boscimani o i "marziani"
esistono
anche se non li abbiamo mai visti;
potrebbe
esistere, ad esempio, una società migliore
e più giusta di quella attuale, ed
è la razionalità
(non l'utopismo) a suggerirlo.
Una critica lucida e radicale all'empiriocriticismo
di Mach ( e di Avenarius) venne formulata
(non a caso) da Lenin, che non era
nè scienziato
nè filosofo, ma dirigente politico
bolscevico
più realista ed opportunista del re,
nel
saggio "Materialismo ed empiriocriticismo".
Ma sotto un altro punto di vista, indubbiamente
più filosofico, anche Husserl sottopose
a
critica l'empiriocriticismo con la
fenomenologia,
cioè la rifondazione della filosofia
come
"sapere razionale rigoroso"
della
realtà in quanto realtà "in carne
ed
ossa".
Anche Karl Popper criticò il neopositivismo,
in particolare ribadendo il carattere
pluralistico
della conoscenza, che pertanto non
può ridursi
ad un'unica forma, quella scientifica.
Infine, all'interno dello stesso empirismo,
si svilupparono le posizioni critiche
di
Quine, in parte coincidenti con le
riserve
di Wittgenstein.
Fu in questo quadro vivace ed articolato
di posizioni che si sviluppò un dibattito
che, in generale, incluse anche il
problema
della fondazione delle scienze.
Per intendere questo punto, non sempre
adeguatamente
presente nei riassunti ad uso scolastico
del neopositivismo, occorre aver chiaro
che
ricondurre o ridurre le scienze ad
un campo
comune, ad una scienza comune, volenti
o
nolenti significa "rifondare"
su
principi comuni e condivisi. E questo
fu
lo scopo dichiarato del neopositivismo.
Il gruppo di Vienna stabilì rapporti
di collaborazione
col gruppo costituito a Berlino attorno
ad
Hans Reichenbach, Carl Gustav Hempel
ed il
fisico Richard Von Mises.
Nel 1929 il circolo scrisse un manifesto
programmatico nel quale veniva definita
una
comune filosofia come "concezione
scientifica
del mondo (wissenschaftliche Weltauffassung).
Le elaborazioni vennero rese pubbliche
attraverso
la rivista "Erkenntnis",
«Conoscenza»,
diretta da Carnap e Reichenbach.
Nel Manifesto lo scopo programmatico
era
così riassunto:
<< La concezione scientifica
del mondo
è caratterizzata non tanto da tesi
peculiari,
quanto, piuttosto, dall'orientamento
di fondo,
dalla prospettiva, dall'indirizzo di
ricerca.
Essa si prefigge come scopo l'unificazione
della scienza. Suo intento è collegare
e
coordinare le acquisizioni dei singoli
ricercatori
nei vari ambiti scientifici. da questo
programma
derivano l'enfasi sul lavoro collettivo,
sull'intersoggetività, nonchè la ricerca
sistematica di formule neutrali, di
un simbolismo
libero dalle scorie delle lingue storiche,
non meno che la ricerca di un sistema
globale
di concetti. Precisione e chiarezza
vengono
perseguite, le oscure lontananze e
le profondità
impenetrabili respinte. Nella scienza
non
si da "profondità" alcuna;
ovunque
è superficie [...] (Carnap, Hahn, Neurath,
1929 pp 74-75)
Il circolo viennese ebbe rapporti con
gruppi
e studiosi di tutto il mondo, in particolare
con la scuola dei logici polacchi,
tra i
quali Tarski, con studiosi americani
quali
Morris, Quine ed Ernest Nagel, inglesi
come
John Wisdom di Cambridge e Ryle e Ayer
di
Oxford, scandinavi come Axel Hagerström,
Eino Kaila, Jörgen Jörgensen.
Con l'avvento del nazismo in Germania
il
gruppo si disciolse. Schlick fu assassinato,
e un buon numero di partecipanti si
trasferí
a Chicago, negli Stati Uniti, dove
il gruppo
lavorò alla pubblicazione dell'«Enciclopedia
Internazionale della scienza unificata»,
a partire dal 1938, avvalendosi anche
della
collaborazione del fisico Niels Bohr,
di
Bertrand Russell e di John Dewey.
L'impresa si proponeva di ricondurre
tutte
le scienze allo stesso metodo, quello
teorizzato
dal gruppo, ma si arrestò dopo pochi
volumi,
sia per le difficoltà intrinseche del
progetto,
sia per lo scoppio della seconda guerra
mondiale.
Nel frattempo anche in Inghilterra
il filosofo
Alfred J. Ayer, che aveva studiato
a Vienna
e frequentato il Wiener Kreis, aderì
all'empirismo
logico. Nel 1936 venne pubblicato il
suo
saggio "Linguaggio, verità e logica"
nel quale Ayer presentava al pubblico
inglese
la tesi del Wiener Kreis ed, in particolare,
riprendeva le posizioni del secondo
Wittgenstein,
il cui testo "Ricerche Filosofiche",
sarebbe circolato solo privatamente
in Inghilterra
fino al 1953.
La tesi fondamentale del neopositivismo
La tesi fondamentale dei neopositivisti,
largamente condivisa da tutti gli aderenti
al circolo di Vienna, è la critica
alla natura
metafisica della filosofia tradizionale:
ogni metafisica è un insieme di enunciati
che non hanno senso (non sono veri
nè falsi)
perchè ricavati da concetti privi di
scientificità.
Il neopositivismo si presenta quindi
come
negazione della filosofia precedente
compromessa
con la metafisica e come ricostruzione
della
filosofia in quanto "critica del
linguaggio"
scientifico.
La via per ricostruire una filosofia
non
metafisica era dunque quella di analizzare
il linguaggio scientifico in quanto,
solo
così, si sarebbe ottenuta una teoria
della
conoscenza in grado di offrire il principio
di verifica e di controllo abilitato
a distinguere
le proposizioni significanti da quelle
prive
di senso in una prospettiva comune.
Leggiamo ancora nel manifesto: <<La
concezione scientifica del mondo non
conosce
gli enigmi insolubili. Il chiarimento
delle
questioni filosofiche tradizionali
conduce,
in parte, a smascherarle come pseudo-problemi,
in parte a convertirle in questioni
empiriche,
soggette quindi al giudizio della scienza
sperimentale.>> (Carnap, Hahn,
Neurath,1929
p.75)
L'errore fondamentale della metafisica
non
consiste nell'avere un contenuto emotivo
da esprimere, ma nel simulare un contenuto
teorico inesistente.
Gli errori dei metafisici sono in sostanza
di tre tipi diversi: psicologiche,
sociologiche
e logiche.
In primo luogo si considera errata
l'idea
che il pensiero possa, da solo, senza
far
leva su dati empirici, condurre alla
conoscenza.
<<Poichè il senso di ogni asserto
scientifico
deve risultare specificabile mediante
riduzione
ad asserti sul dato, anche il senso
di ogni
concetto, quale che sia il settore
della
scienza cui questo appartiene, deve
potersi
stabilire mediante riduzione graduale
ad
altri concetti, giù fino ai concetti
di livello
più basso, che concernono il dato medesimo.>>
(Carnap, Hahn, Neurath, 1929 p.80)
La possibilità di una unità della scienza
si basa soprattutto sulla riducibilità
delle
proposizioni scientifiche ad asserti
di base.
Purtroppo la teoria sembra non reggere
di
fronte al tentativo di stabilire una
identità
tra il criterio di demarcazione tra
scienza
e non-scienza e quello tra senso e
non-senso.
Ci sono, volenti o nolenti, troppe
cose che
hanno un senso, anche se non sono scientificamente
osservabili, o riducibili a scienza.
Moritz Schlick (1882-1936) nacque a
Berlino
nel 1882 e si laureò in fisica con
Max Planck;
insegnò prima a Kiel e poi all'università
di Vienna, dove nel '24 incontrò Wittgenstein.
Scrisse saggi pubblicati poi postumi
nell'opera
Natura e cultura.
Nel 1936 fu ucciso da uno studente
filonazista
perchè si opponeva all'annessione dell'Austria
alla Germania.
Schlick, muovendo da alcune osservazioni
di Mach, senza tuttavia aderire in
toto alla
filosofia empiriocriticista, teorizzò
il
«principio di verificabilità» considerando
che le scienze fisiche partono dall'osservazione
dei dati sensibili, risalgono per induzione
ai giudizi universali di tipo ipotetico
e
poi giungono, per mezzo della matematica,
a delle conclusioni parziali, le quali
sono
vere, solo se vengono verificate e
certificate
da nuove osservazioni sensibili.
Qualunque questione è risolubile se
si possono
ipotizzare le esperienze che si dovrebbero
avere per darle una risposta; e tale
risposta
non può essere se non una «proposizione».
Tale proposizione allora ha un senso
se siamo
in grado di indicare con precisione
le circostanze
specifiche che la renderebbero vera
e insieme
quelle che la renderebbero falsa. Laddove
«circostanze» significano «fatti d'esperienza»
(Erlebnisse).
In altre parole Schlick concepiva la
conoscenza
come rapporto tra segni (i concetti
espressi
in proposizioni) e dati, (le intuizioni
dei
fatti sensibili). La verità era per
Schlick
la corrispondenza costante degli stessi
segni
agli stessi dati.
In questa prospettiva il giudizio è
vero
quando riunisce concetti che si riferiscono
al medesimo dato.
Sicché, in definitiva, è l'esperienza
che
verifica la verità o falsità di una
proposizione.
Pertanto il criterio della risolubilità
di
una questione è la sua riconduzione
all'esperienza
possibile.
Da ciò deriva che i problemi metafisici
non
sono risolubili, perché le risposte
sono
proposizioni inverificabili con l'esperienza,
e quindi prive di senso.
Quanto alla scienza, poi, egli dice
che essa
è costituita di proposizioni. Tali
proposizioni,
però, non devono essere tautologiche
ma «sintetiche».
Quelle tautologiche si basano esclusivamente
sul criterio di non contraddittorietà,
mentre
quelle sintetiche implicano il criterio
di
«verità materiale».
Scrisse:
<<Se si potesse identificare
verità
ed assenza di contraddizione in quanto
tale,
ogni discussione in proposito sarebbe
già
finita. Da molto tempo si è generalmente
riconosciuto che solo nelle proposizioni
di carattere tautologico incontraddittorietà
e verità sono espressioni equivalenti
come
avviene ad esempio nelle proposizioni
della
geometria pura. Ma nelle proposizioni
di
questo tipo si è intenzionalmente tagliato
ogni rapporto con la realtà ed esse
sono
solo delle formule all'interno di un
calcolo
prestabilito.
Abbiamo qui a che fare proprio con
ciò che
in passato era chiamato verità formale
e
che veniva distinto dalla verità materiale.
Quest'ultima è la verità delle proposizioni
sintetiche e cioè degli asserti intorno
ai
fatti, e se la si vuol caratterizzare
mediante
il concetto di assenza di contraddizione
o di concordanza con altre proposizioni,
si potrà far ciò solo a patto di porre
certi
asserti del tutto determinanti, con
cui tutte
quelle altre proposizioni debbono non
trovarsi
in contraddizione, e cioè solo a patto
di
porre proprio quegli asserti che esprimono
«i fatti della osservazione immediata».
Non
vedo alcun inconveniente - e anzi lo
ritengo
del tutto opportuno - usare per questa
compatibilità
la vecchia e buona espressione «concordanza
con la realtà.>>
(Sul fondamento della conoscenza)
Pertanto quelle proposizioni cosiddette
«protocollari»,
cioè quelle che «in tutta semplicità,
senza
alcuna aggiunta o trasformazione o
manipolazione,
esprimono i fatti», hanno valore conoscitivo
solo in quanto fondate su «proposizioni
di
osservazione empirica». E nell'uso
che se
ne fa, hanno esclusivamente valore
ipotetico;
cioè, per essere valide, debbono esser
verificate
dalle «constatazioni» d'esperienza
personale,
constatazioni «in atto».
Otto Neurath (1882-1945) autore di
Fisicalismo,
Proposizioni protocollari, Sociologia
empirica,
sociologo di ispirazione marxista,
contestò
le tesi di Schlick ( e Carnap, vedi
) osservando
che i dati sensibili sono del tutto
soggettivi
e quindi non possono essere fondamento
valido
per le proposizioni scientifiche.
La scienza non si fonda, e non può
fondarsi,
su questi riferimenti soggetivi. Né
una proposizione
scientifica può esser verificata in
base
alle costatazioni empiriche personali,
cioè
al personale riferimento al mondo esterno.
Questo riferimento implica sempre l'introduzione
dell'«io» o del «tu» nella proposizione
(«io»
provo, vedo, sento...).
Egli propose quindi di fondare le proposizioni
scientifiche sui cosiddetti «protocolli»,
cioè sulle proposizioni elementari
che «protocollano»
i fatti fisici allo stato puro, cioè
senza
l'interferenza dell'esperienza personale.
Il linguaggio più adatto a questa operazione
fu individuato da Neurath nel linguaggio
della fisica, perciò egli definì fisicalismo
la sua proposta di assumere questo
linguaggio
oggettivo a modello di tutte le scienze.
("Erkenntnis", 1931, pag
393)
C'è da osservare che questa impostazione
comportava una rinuncia: cioè a considerare
il ragionamento sulla verità esclusivamente
sul piano sintattico, evitando quello
semantico
concernente il significato della frase
stessa;
finiva dunque col proporre una concezione
della verità fondata solo sulla coerenza
interna del discorso invece che sulla
corrispondenza
tra discorso e fatti reali.
Per questo, secondo Neurath, la verifica
della proposizione scientifica poteva
esser
compiuta solo a livello di linguaggio,
cioè
confrontando tra loro le proposizioni
«protocollari».
Neurath andò però anche oltre, in questo
discorso. Egli disse che non si può
parlare
di «isomorfismo» tra realtà e linguaggio,
ma di «identità». Per cui la realtà
«è» linguaggio,
e anche il linguaggio «è» realtà, cioè
è
un «fatto fisico» come gli altri. Ciò
implica
evidentemente che è privo di senso
tutto
ciò che non può esser trasposto nelle
forme
fisiche del linguaggio, cioè in «suoni»
linguistici.
Sono questi i principi del «fisicalismo»
di Neurath.
Rudolph Carnap (1891-1970) nacque a
Ronsdorf
(Germania) nel 1891, studiò matematica
con
Frege all'università di Jena, indi
a Friburgo,
e poi fu professore a Vienna a partire
dal
1926. Attraversò diverse fasi di pensiero
che sono espresse nelle sue tre opere
fondamentali:
La costruzione logica del mondo (Der
logische
Aufbau der Welt)1928, Sintassi logica
del
linguaggio (1934), Introduzione alla
semantica
(1942). Scrisse pure altri saggi, tra
i quali
L'eliminazione della metafisica per
mezzo
dell'analisi logica del linguaggio,
Fondamenti
logici della probabilità (1950), I
fondamenti
della logica e della matematica (1939),
Significato
e necessità (1947).
Con Carnap siamo ad una interpretazione
molto
rigida delle limitazioni al linguaggio,
al
"cosa si può dire" e "cosa
non si può dire" senza scadere
nel non
senso secondo il primo Wittgenstein
nel Tractatus.
Ne vengono esclusioni di discorso che
mettono
freddo alle ossa solo a pensarci!
Scherzi a parte, il problema, probabilmente,
non è tanto quello di "ciò che
si può
dire", ma di ciò in cui possiamo
credere
senza renderci ridicoli perfino davanti
a
noi stessi.
E' evidente che il mondo scientifico
in generale
pone molte più limitazioni di quello
ordinario
per l'ovvia necessità di arrivare sempre
alla verifica di una teoria e di qualsiasi
enunciato con valore predittivo e prescrittivo,
basti pensare agli effetti che hanno
determinati
medicinali sul corpo umano.
In "Der logische Aufbau der Welt"
Carnap sviluppò il tema della scienza
come
«costruzione logica del mondo», sostenendo
che l'unico mondo di cui possiamo parlare
con verità, cioè l'unico che possiamo
conoscere
scientificamente, è l'insieme dei concetti
della scienza.
La scienza è unica, dice Carnap, anche
se
vi sono campi diversi d'indagine con
diversi
«oggetti».
Essa è costituita di elementi primari
o enunciati
o proposizioni elementari che rappresentano
gli «elementi originari» del mondo.
Tali
proposizioni esprimono un contenuto,
che
è l'«esperienza vissuta elementare»,
e una
forma, che è la relazione fondamentale
tra
le esperienze vissute (come quella
del ricordo
di somiglianza). La filosofia perciò
deve
configurarsi come analisi del linguaggio
scientifico, cioè deve ricondurre logicamente
le «proposizioni scientifiche» a «proposizioni
verificabili» attraverso le esperienze
vissute
elementari e le loro relazioni.
Riprendendo il "principio di verificazione"
da Moritz Schlick egli giunse a scrivere
che << il senso di una proposizione
è il metodo della sua verifica.>>
Schlick aveva scritto: <<Stabilire
il significato di una frase equivale
a stabilire
delle regole secondo
cui la frase deve essere usata, il
che equivale
a stabilire il modo in cui essa può
venire
verificata ( o falsificata). Il significato
di una proposizione è il metodo della
sua
verificazione.>> (1936)
Si tratta di affermazioni estreme che
in
realtà non sembrano accettabili del
tutto
in quanto non sempre la significanza
coincide
con la verificabilità.
E' perfino ovvio che prima di verificare
un enunciato, si debba comprenderne
il senso,
e se ne posso comprendere il senso,
posso
anche comprendere che il significato
non
è verificabile.
Ma Carnap intese, probabilmente con
ciò riprendere
la distinzione introdotta da Frege
tra senso
e significato, e sostenne che il senso
dei
concetti è dato unicamente dai loro
"rapporti
matematici", cioè quantitativi
e misurabili
ed è su questa possibile misurabilità
che
si fa scienza.
Ogni concetto sarebbe dunque, per Carnap,
definibile per l'insieme dei rapporti
matematici
che intrattiene con tutti gli altri.
Questo insieme costituisce la struttura
logica
del mondo, ma solo come sistema formale,
che, pertanto non dice cosa c'è nella
forma
della rappresentazione, cioè del modello.
Un esempio di tale struttura è per
Carnap
la piantina ferroviaria che congiunge
diverse
città con linee in neretto.
La piantina chiarisce solo la collocazione
della città, la denomina, ma non dice
quali
particolari caratteristiche abbiano
le città.
Come si può notare in Carnap, come
in tutto
il successivo neopositivismo, si incontrano
due piani:
quello della verificazione empirica
e quello
della logica.
Il primo risale ad una tradizione filosofica
"scettica", anche se non
ci sembra
il caso di scomodare Hume: bastano
Mach ed
Avenarius.
Il secondo risale alla corrente che
trova
i suoi inizi in Boole e si sviluppa
attraverso
Frege (che tentò di ricondurre la matematica
alla logica), Peano e Russell. L'empirismo
fenomenico deve dirci quali sono i
dati di
fatto, le "Tatsachen" di
Wittgenstein;
la logica deve mostrare come la matematica
sia riducibile a "logica",
dunque
sia strettamente connessa al problema
della
rifondazione della matematica, alla
logica
simbolica, ai problemi dell'assiomatica.
La fondazione delle scienze tende quindi
a mostrarsi su due livelli separati
e, secondo
Quine, questa separazione è uno dei
dogmi
dell'empirismo logico. Il secondo è
quello
del rigetto della metafisica.
Per Carnap, ovviamente, tutte le proposizioni
metafisiche vanno rigettate in quanto
inverificabili.
Definizioni come quelle di sostanza
o di
causa non consentono una «costruzione»
scientifica
del mondo fisico.
Ai termini della metafisica non corrisponde
un significato preciso ed utile all'indagine
scientifica del mondo e le relazioni
tra
termini nei discorsi metafisici non
rispettano
le norme della «sintassi logica del
linguaggio».
La metafisica è come l'arte, cioè mostra
un modo non scientifico di relazionarsi
alle
cose. Essa è fatta di «pseudo-proposizioni»
articolate in ragionamenti scorretti.
Per Carnap «I metafisici sono in fondo
musicisti
senza talento musicale». Tali sono
gli idealisti
tedeschi, come Hegel, e tale è anche
Bergson.
Parlano delle essenze delle cose «trascendendo»,
saltando oltre l'esperienza, e in disprezzo
del procedimento induttivo.
Ma la filosofia di Carnap, proprio
rigettando
la metafisica, si trova così alle prese
con
un problema decisivo: abbiamo due piani
distinti:
quello empirico e quello logico. Qual'è
quello
che fonda?
Carnap sceglie di usare la logica per
costruire
l'immagine logica del mondo.
Su questo tema si sviluppa una seconda
tappa
del pensiero di Carnap. Punto di partenza
è il «dato» d'esperienza. Tale dato,
per
essere utilizzato scientificamente,
dev'essere
tradotto in «proposizione protocollare»,
cioè in formulazione linguistica descrittiva
del contenuto di esperienza immediata
e delle
relazioni fondamentali. Tali proposizioni
protocollari poi vengono disposte nel
«linguaggio
sistematico» della scienza, che si
esprime
in proposizioni generali, o leggi di
natura.
Sono le proposizioni protocollari,
poi, che
permettono la «verifica» della scienza;
la
quale, come «linguaggio sistematico»
è solo
un'«ipotesi». In tal senso Carnap dichiara
che non si può uscire da una sorta
di solitudine
metodica, perché le proposizioni protocollari
enunciano esperienze strettamente personali,
anche se il valore di tali proposizioni
è
«comunicativo» e anche se l'aspirazione
è
che esse siano assunte come valide
universalmente.
È a livello intersoggettivo però che
ha valore
la proposizione protocollare: se due
persone
hanno diverse opinioni sulla lunghezza
di
un segmento, allora si cercherà di
realizzare
un esperimento tale da unificare le
diverse
proposizioni protocollari.
Sebbene allora le proposizioni protocollari
siano fondate sui dati d'esperienza,
non
dall'esperienza deriva l'immagine logica
del mondo, ma solo dalla correttezza
logica
del linguaggio scientifico. Tale correttezza
è provata dall'analisi del linguaggio
scientifico
per via formale, cioè attraverso l'analisi
dei termini, delle proposizioni adottate
e delle relazioni tra proposizioni.
Il linguaggio
scientifico è un «contesto» di relazioni
secondo una «sintassi logica», cioè
secondo
leggi precise della formazione delle
proposizioni
e della loro trasformazione, cioè della
derivazione
di una proposizione dall'altra (in
ciò Carnap
da ragione a Neurath: non si può andare
oltre
il linguaggio).
<<Il linguaggio della fisica
è un linguaggio
universale, che comprende i contenuti
di
tutti gli altri linguaggi scientifici.
In
altri termini ogni proposizione di
una branca
del linguaggio scientifico è equipollente
ad alcune proposizioni della lingua
fisicalistica
e può essere pertanto tradotta in essa
senza
mutare il suo contenuto (Philosophy
and Logical
Syntax,
1935, pag. 89)
La sua validità è data solo dal «calcolo»
corretto delle possibilità di combinazione
dei termini negli enunciati, e degli
enunciati
nei ragionamenti, indipendentemente
dal contenuto.
«Le questioni della logica della scienza
sono formali, vale a dire sintattiche»;
«la
situazione reale viene alla luce quando
si
procede alla traduzione delle proposizioni
del modo materiale di parlare nelle
proposizioni
sintattiche corrispondenti, e quindi
nel
modo formale». Io posso ben dire «tre
è un
numero», ma questo è un modo materiale
di
parlare; «esso dev'essere tradotto
in "tre
è un termine numerico"», che è
il modo
formale di esprimersi. Io posso ben
dire
«la lezione di ieri trattò di Babilonia»,
ma la traduzione formale dell'espressione
è «nella lezione di ieri fu impiegata
la
parola Babilonia». Io posso ben dire
«la
parola stella del giorno designa il
sole»,
ma la sua traduzione formale è: la
parola
stella del giorno è sinonimo di sole».
Il
modo formale di parlare perciò è un
«metalinguaggio»
rispetto al modo materiale.
Dunque, il valore di un linguaggio
è dato
dalla correttezza interna di carattere
formale.
Di qui deriva anche che ognuno può
adottare
un qualsivoglia linguaggio. «Il nostro
atteggiamento,
dice Carnap, si esprime attraverso
la formulazione
del principio di tolleranza; non è
nostro
compito stabilire delle proibizioni,
ma soltanto
giungere a delle convenzioni». E aggiunge:
«In logica non vi sono morali; ognuno
è libero
di costruire la propria logica, cioè
la propria
forma di linguaggio. Se vuole discutere
con
noi deve solo indicare come lo vuole
fare,
dare determinazioni sintattiche invece
di
argomenti filosofici» ("Logische
Syntax
der Sprache", 1934, § 17)
Una volta intrapresa questa strada
si comprenderà
che lo spazio di competenza dei filosofi
e della filosofia è ridotto al lumicino.
<<Secondo i filosofi le questioni
filosofiche
riguarderebbero i medesimi oggetti
investigati
dalle singole scienze, per quanto da
un punto
di vista del tutto differente, cioè
dal punto
di vista puramente filosofico. In opposizione
a ciò, sosteniamo che tutti questi
ultimi
problemi filosofici sono problemi logici.
Anche le questioni oggettive fittizie
sono
questioni logiche inadeguatamente formulate.
Il presunto punto di vista specificamente
filosofico dal quale dovrebbero venire
investigati
gli oggetti della scienza si rivela
illusorio,
come, in precedenza, si era dissolta,
una
volta sottoposta ad analisi, la presunta
sfera di oggetti specificamente filosofica
propria della metafisica. Prescindendo
dai
problemi delle singole scienze gli
unici
genuini problemi scientifici sono quelli
dell'analisi logica della scienza delle
sue
proposizioni, termini, concetti, teorie,
e simili. A questo complesso di problemi
daremo il nome di logica della scienza.
In base a questa concezione, una volta
che
la filosofia è stata purificata da
tutti
gli elementi non scientifici, non rimane
altro che la logica della scienza.
Nella
maggior parte delle ricerche filosofiche,
però, una netta distinzione degli elementi
scientifici e non scientifici è senza
dubbio
impossibile. Pertanto preferiamo affermare:
la logica della scienza prende il posto
di
quell'inestricabile groviglio di problemi
che è noto sotto il nome di filosofia.>>
("Logische Syntax der Sprache",
1934)
Nella terza fase del suo pensiero Carnap
concentrò l'attenzione sulla semantica,
ed
in particolare sui «significati» delle
proposizioni,
quindi su ciò che si "designa"
quando si nomina qualcosa. Ciò era
reso indispensabile
dal fatto che ipoteticamente poteva
darsi
un linguaggio formale ma inconcludente.
Egli
allora riprese il concetto di Frege
di «nome-relazione»,
per il quale il significato di un termine
è dato dal nesso tra il termine stesso
e
l'entità - concreta o astratta - di
cui quel
termine costituisce il nome. Carnap
riconobbe
che questa teoria di Frege avrebbe
potuto
dare origine ad antinomie e ricorse
alla
«teoria dell'estensione e dell'intensione»,
che era stata introdotta come terminologia
necessaria da Leibniz per mostrare
alcune
fondamentali differenze.
L'esempio offerto da Leibniz mostra
infatti
che :
<< L'animale comprende più individui
che l'uomo, ma l'uomo comprende più
idee
e più forme; l'uno ha più esempi, l'altro
più gradi di realtà; l'uno ha più estensione,
l'altro ha più intensione.>>
(nouv
Ess, IV,17)
In realtà la necessità di questa distinzione
si pone ogni qualvolta il significato
semantico
di un qualsivoglia segno (o indicazione)
debba essere riferito a qualcosaltro,
praticamente
sempre, se si utilizzano segni grafici
e
simboli, ad esempio per indicare le
toilettes
riservate ai maschietti e quelle riservate
alle femminucce.
Ecco che anche nella vita quotidiana
facciamo
dunque uso di una preliminare intensione
per poi giungere ad una estensione
di significato.
Questo fatto è inconscio in molti di
noi,
ma rimane pur sempre un fatto di cui
è possibile
render conto.
Quando si cerca di precisare in che
consiste
il riferimento di un segno si incontrano
due tipi di risposta, peraltro già
precisati
dalla logica scolastica medioevale
mediante
la distinzione tra comprensione ed
estensione.
Comprendere infatti il significato
di un
segno o di una proposizione scientifica,
comporta anche la sua estendibilità.
Oggi si preferisce parlare di intensione
anzichè di comprensione, ma il significato
rimane essenzialmente identico.
La parola "uomo" come sua
intensione
indica l'insieme di caratteristiche
che un
essere vivente deve avere per essere
classificato
come tale. La prima intensione in senso
vero
e proprio fu quella coniata da Aristotele
(uomo = animale bipede, implume, politico,
sprovvisto di ali, razionale E le donne?)
L'estensione definisce la classe o
insieme
che raccoglie la parola "uomo".
Pressochè contemporaneamente a Carnap
anche
Bertrand Russell aveva lavorato sulla
tesi
dell'estensionalità nei Principia Mathematica.
(vedi B. Russell: file in costruzione)
Considerazioni conclusive
Crediamo sia utile presentare un paio
di
considerazioni: gli argomenti antimetafisici
del neopositivismo
sono prevalentemente rivolti contro
una "cattiva"
metafisica, quella più dogmatica e
meno giustificabile,
più o meno la stessa con la quale se
la prese
Kant, ed alcuni autori, soprattutto
Carnap;
estesero questa critica anche alla
metafisica
necessaria alla filosofia, cioè quella
di
Aristotele, ovvero la scienza dell'essere
in quanto essere, senza peraltro averne
realmente
discussa e verificata la necessità,
almeno
sotto il profilo storico, come tappa
dell'evoluzione
umana.
Dai metodi del neopositivismo logico
potremmo
trarre una intensione della metafisica
necessaria
e vedere fino a che punto sia estendibile
ai metafisici di ogni tempo, senza
dimenticare,
peraltro, che la stessa matematica
è in certo
senso "metafisica" in quanto
opera
su oggetti, i numeri, gli insiemi,
e le lettere
dell'alfabeto, che non hanno alcuna
realtà
fisica se non quando, appunto, vengono
fonetizzate
o scritte. I più grandi sviluppi della
matematica
sono dovuti in sostanza a fior di metafisici,
da Pitagora a Euclide, da Pappo a Hilbert
e Weierstrass.
La matematica dunque ci pone sempre
di fronte
ad un paradosso difficile da digerire:
è
una scienza che si basa su asserti
metafisici
inverificabili. Tuttavia, una volta
riconosciuto
che 2+2=4, noi siamo sempre certi che
sia
così.
E del resto anche il ricorso a metateorie
e metalinguaggi è per sua stessa definizione
metafisica,
anche se di tipo qualitativamente diverso
dalla "cattiva" metafisica
precedente.
Quando Gödel tuttavia mostrerà che
è impossibile
una assiomatizzazione completa della
logica
e che un sistema formale non può fondarsi
su se stesso, indicherà anche, implicitamente,
che l'esperienza viene prima della
logica,
e che è la stessa logica a doverlo
riconoscere.
Non possiamo costruire assiomi se non
abbiamo
fatto esperienza di ciò che gli assiomi
dicono
o vorrebbero dire. Il problema di ogni
logica
è dunque quello di chiarire l'esperienza
fatta e questo ancor prima del necessario
chiarimento sul linguaggio che si vuole
utilizzare.
Resterebbe, allora, solo da chiarire
in quale
linguaggio si racconta l'esperienza
fatta...
In secondo luogo, riconosciuto il giusto
tributo a questa corrente di pensiero,
ci
pare che la riflessione
sul linguaggio, insieme alla consapevolezza
del che significa parlare, scrivere,
comunicare,
sia ancora lontana da una sistemazione
teorica
soddisfacente.
Probabilmente è vero che "si può
dire
sia tutto che il contrario di tutto".
Se alcuni lo fanno, è evidente che
si può.
Eticamente alcuni individui lo ritengono
giustificabile ed altri no. Chi scrive
è
per il no. Ma per ora non sa ancora
spiegare
lucidamente i motivi e, soprattutto,
non
sa scegliere gli assiomi giusti per
dire
quello che quello che si può è spesso
quello
che si deve, e che, in ogni caso, non
sempre
è possibile distinguere e marcare strettamente
ciò che è scienza e ciò che non lo
è.
Per di più ciò che ha senso non sempre
è
riconducibile ad un sapere scientifico
certo
ed incontrovertibile. Spesso è solo
sapere
comune, puro buon senso.
Tuttavia, rimanendo in un'ottica schiettamente
neopositivista, ci pare che in definitiva
sia rimasto aperto ed irrisolto un
problema
di non scarsa rilevanza, quello della
scelta
degli assiomi su cui fondare
non tanto una scienza unificata, quanto
un
vero protocollo di discussione. Questo
perchè
il tipo di esperienze fatte è drammaticamente
diverso in ognuno di noi, anche tra
compagni
di scuola seduti nello stesso banco.
moses - 2001 |
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