Don Rocco Distilo è nato a Galatro l'11 novembre 1908 da Domenico e Maria Annunziata Zito.
Dopo aver frequentato le scuole elementari, all'età di quindici anni, entrò
nel seminario di Mileto, dove frequentò il corso ginnasiale.
Frequentò poi il liceo presso il Seminario "Pio X" di Catanzaro conseguendo la licenza
liceale col massimo dei voti.
Terminato il periodo di leva militare, frequentò i primi tre anni di teologia a Firenze
facendo l'istitutore presso il collegio "La Querce" di San Domenico di Fiesole. Il quarto anno
di teologia, per volere di Monsignor Paolo Albera, vescovo di Mileto, lo frequentò a
Catanzaro presso il seminario "Pio X". Fu ordinato sacerdote il 1° agosto 1937.
Il 1° novembre 1937 Mons. Paolo Albera lo nominò parroco nella vicina parrocchia di San Nicola
in Feroleto della Chiesa.
Nel 1954 venne nominato parroco della parrocchia di M. SS. delle Grazie di Monsoreto, dove
svolse la sua attività pastorale per altri sei anni. Nel 1961 venne nominato parroco della parrocchia
di San Nicola in Galatro, ove svolse il suo apostolato fino alla morte avvenuta, improvvisamente,
il 2 agosto 1973.
Don Rocco Distilo alla vocazione sacerdotale univa la grande passione per la poesia, per la
letteratura e per la musica. E' stato sempre un uomo pieno di umiltà francescana. I suoi scritti
sono stati molto apprezzati dai maggiori critici: da Puzzanghera a Fichera, da Andriolo a Mandel,
da Marzano a Borgese e da molti altri.
Suonatore di organo e pianoforte, le sue "schole cantorum" istituite nelle varie parrocchie
dove egli è stato curatore di anime, ne sono la prova tangibile. Molte le sue onorificenze
poetiche e letterarie, moltissimi i riconoscimenti per i suoi articoli di arte e letteratura.
Per le sue doti di sacerdote e poeta la scuola media statale
di Galatro è stata intitolata al suo nome.
SALIRE, SALIRE AD UN RICHIAMO...
...Sentire come sentono le cose,
e parlare con esse ma col cuore,
da quel poggio petroso o da quei monti,
o da questa finestra, nelle notti,
e salire, salire ad un richiamo
di stelle che festeggiano l'arrivo
di nuova creatura fatta luce.
Solcare quegli spazi e di quel regno
d'accordi di colloqui e d'armonie,
portare poi alla terra la parola
che rompa la muraglia che divide
dal fratello il fratello e fa deserto.
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'U FURNU
Furnu di casa, niggru, abbandunatu,
pari c'aspetti ancora cui t'adhuma,
sa vucca nd'agghiuttìu pani mpastatu,
mò friddu non vampija e cchiù nò fuma.
Era 'na festa: all'arba s'impastava,
sutta cumbogghi ncaddu si mentìa;
e d'ura in ura la pasta allevitava,
hiaccava chi parìa na giografia.
Focu a lu furnu chi schiattarijava,
e fraschi e fraschi, parìa 'na batteria,
lu càdhipu lu solu cadhipijava,
'na vecchia pala longa chi trasìa e nescìa.
La vucca lu timpagnu poi chiudìa,
lu hiavuru di cottu ti sanava,
puru si guardu sentu l'angulìa,
tutti a lu furnu quandu si mpurnava.
Appena russijava la pizzata,
la prima avanti furnu si tirava,
a pezzi su 'na tavula conzata,
cuntenti lu spartèmu e si mangiava.