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Maria Grazia Tundo

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Fiction, Fact, in Flux. Marisa Bulgheroni, Apprendista del sogno (in inglese)


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Maria Grazia Tundo 1999:
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Fiction, Fact, in Flux: Marisa Bulgheroni. Apprendista del sogno. [Dream apprentice] Roma: Donzelli, 1996.

Wise Women's News, Vol. 8, No. 1, 1998 (pp. 14-16)

English version

 

Una lettura di Apprendista del sogno di Marisa Bulgheroni

 I racconti di Marisa Bulgheroni, riuniti sotto il titolo di Apprendista del sogno, nascono proprio nel momento in cui l'autrice, come ci spiega nell'introduzione dal titolo "Autodafé", rinuncia a scrivere la sua autobiografia, quell'autobiografia che sembrava costituire il progetto di una vita, se è vero che da fin da bambina si affannava a raccogliere frammenti di sé, documenti, tracce che potessero finalmente comporsi in una rappresentazione coerente e sincera. Di tutto questo materiale autoreferenziale viene fatto un rogo e prende così l'avvio il movimento verso la scrittura, verso la narrazione, che si compone dei pochi frammenti duri e disomogenei salvatisi dalle fiamme.

Bruciando tali carte, l'autrice inaugura veramente la scrittura, cioè quello spazio della parola narrata che si situa in un luogo diverso rispetto all'ordine del discorso. Se quest'ultimo domanda precisione referenziale, cronologia di tempi, scansioni di spazi ben delimitati e un soggetto presente a sé, che si assuma con il pronome "io" la responsabilità della propria parola, la scrittura, al contrario, delinea lo spazio di un'altra verità, che è l'unico spazio dove effettivamente la soggettività può trovare voce. Molteplice e rifratta, solo nella fiction - nella finzione appunto - quella "bambina catastrofica" di un tempo trova la sua verità.

Nessuna autobiografia è allora possibile. Nessuna autobiografia se per autobiografia intendiamo la descrizione dettagliata e minuziosa degli eventi reali che compongono una vita, che possa poi condurre ad una comprensione di sé distillata e definitiva. Ma davvero la nostra vita trova il suo senso solo nell'accadimento brutale, nella nitidezza di una memoria del vero? Piuttosto l'unico senso possibile in cui può inscriversi una soggettività è al confine tra l'evento storico e quello sognato o fantasticato. Nell'affabulazione, che continuamente accompagna il nostro esperire gli eventi, perdiamo di vista la nostra stessa identità, per ritrovarci multiple, divise e in quel caleidoscopio di desideri e figure contraddittorie ritroviamo l'indecifrabilità di ciò che siamo state e continuiamo ad essere. Di tutto ciò solo può rendere conto la scrittura, quella scrittura che si propone di "acchiappare fantasmi" e che si fa beffe della verità storica del ricordo e dell'evento perché mostra la sua verità in modo obliquo, attraverso le maschere della narrazione, attraverso l'indistinzione che accumuna sogno e realtà. Perché l'io non è, ma si costruisce, si fa e disfa in un incessante processo di tessitura, trama del sé a cui concorrono altre voci, altri tempi, altri luoghi veri.

Allora chi legge questi suoi racconti viene in qualche modo sollecitato (anzi sfidato) dalla scrittrice stessa a tramutarsi in detective, a raccogliere tracce, indizi, dettagli che possano portarci verso di lei, quel corpo fantasmatico e sempre desiderato dell'autrice che in fondo abbiamo il desiderio di scoprire quando leggiamo e che vorremmo trasformare in un volto, in una identità, per sciogliere l'enigma, trovare delle risposte. E in questo doppiamo il suo percorso di scrittrice, perché - lei ci dice - "la detective story è il modello di ogni racconto". Nel contempo, nel porci come meta della nostra ricerca questo impossibile desiderio di appropriazione di un corpo fantastico, inafferrabile, entriamo anche noi a far parte della dimensione dell'immaginario.

Dunque non c'è nei suoi racconti narrazione come ricerca della verità oggettiva dell'evento o movimento verso lo scioglimento dell'enigma. Si assiste piuttosto ad un lavoro di accumulo di indizi che non ci conduce mai verso la risoluzione univoca finale, quanto piuttosto verso una ulteriore disseminazione di quelle tracce che ci vengono provocatoriamente offerte. Vi è infatti una continua incertezza nella referenza che si organizza intorno all'equivocità dei segni, soprattutto lì dove il sogno entra a far parte prepotente della realtà e ad essa si confonde, ricordandoci continuamente lo statuto immaginario dell'io.

I racconti della raccolta si snodano seguendo tre temi principali: il rapporto con la propria genealogia, dunque l'interrogazione della propria identità come processo di ascolto delle voci e delle figure di una discendenza; il rapporto con l'altro da sé come si articola nel rapporto d'amore, luogo conflittuale per antonomasia irto di trappole e inganni; il rapporto tra l'orizzonte della Storia grande, quella documentata nei libri di storia, e l'esperienza di quella stessa storia, che viene tradotta in evento singolare filtrato attraverso una soggettività, uno sguardo, un punto di vista irriducibile alla generalizzazione.

Come tema ulteriore, pervasivo e sempre presente, vi è poi la dimensione del viaggio, viaggio sia come inquietudine di una ricerca infinita che come fuga dalla captazione spossessante dei luoghi e degli amori. In questi racconti, i luoghi infatti sono presenze dense di voci e si modificano secondo alchimie sorprendenti tramutandosi in veri e propri paesaggi interiori: alla loro realtà fisica si sovrappongono senza soluzione di continuità reminiscenze mitiche, letterarie, pittoriche e memorie individuali, per cui sono sempre luoghi già densamente abitati che si disfanno e creano, diventando il correlativo oggettivo delle più profonde esperienze interiori.

Pensiamo ad esempio al rapporto tra la terra di Sicilia e il Nord, luoghi tra cui la scrittrice si sposta continuamente. La prima, vulcanica e rovente, terra del paradosso per antonomasia, non può che essere lo sfondo di passioni incomprensibili, vissute come infernali, che ricalcano la vicenda mitica del rapimento di Persefone da parte del signore dell'Ade. E l'amore si connota allora come un continuo dibattersi tra il cedere alla fascinazione dell'isola con le sue lingue di fuoco e le cupe ombre del vulcano e il ritorno alla chiarezza delle terre del Nord, dove si può scrivere e produrre, dove si può tenere sotto controllo la nostalgia per il ratto e la destituzione di sé che spesso accompagna la passione. L'isola continua tuttavia ad essere anche quella parte di sé che si connota come ombra, come l'ingovernabile da parte della ragione, come luogo dell' eccesso, dunque ben più di un mero paesaggio che si limita a fare da sfondo ad una vicenda.

L'amore si pone dunque in questi racconti sempre nella distanza tra due luoghi, nell'intervallo tra due movimenti di fuga, nella fascinazione data dal conflitto tra sensi differenti poiché il desiderio non può che essere caratterizzato dal nomadismo, dall'imprendibilità. E' un gioco continuo di rincorse e fughe, uno spiarsi di sottecchi, un continuo bilanciamento di poteri, ma è soprattutto vuoto d'amore, è confrontarsi con le "truci assenze". E' l'equivoco per eccellenza, in quanto bisogna continuamente mancare l'incontro per tenere vivo il desiderio. Inoltre è di per sé votato allo scacco, perché è una relazione caratterizzata dall'asimmetria: non vi è reciprocità, scambio eguale, ma forse proprio in questo si situa la sua eticità paradossale, cioè la sua possibilità di apertura all'altro che rischia di portare alla perdizione e alla spreco di sé.

La presenza di un luogo è ancora una volta determinante in un altro racconto dal titolo "Gli Orti della Regina". Questa località delle Dolomiti, così chiamata per una leggenda che la ricollega ad Elisabetta d'Austria, diventa lo spazio da interrogare perché nasconde in sé, nel segreto della sua topologia, la chiave di lettura della morte della madre della protagonista del racconto. Infatti solo ripercorrendo i passi della madre precipitata da lì durante un'escursione, identificandosi in lei, provandosi a guardare il paesaggio secondo la fantastica cartografia materna, non condizionata dalle mappe precise e oggettive della geografia, diventerà possibile trovare una risposta all'enigma di una morte che non si sa se dovuta a fatalità o al suicidio.

Ma seguire il percorso finale della madre, alla stessa età di quest'ultima, significa porsi una bruciante domanda sulla propria stessa identità. Una madre che quasi non è stata conosciuta, persa a undici anni provoca una domanda ineludibile sulla propria somiglianza a lei, alla uguale-differente. Senza saperlo, non volendolo ci si ritrova a seguire lo stesso cammino materno, a ripercorrerne gli errori in una coazione a ripetere sorprendente. La voce narrante cerca di raccogliere gli indizi scarni che potrebbero condurla verso un'immagine materna un po' meno confusa, un po' meno nascosta dalle ombre, perché nel disvelamento del segreto di una vita potrebbe esserci finalmente la libertà per la figlia, la rottura di un circolo vizioso, di una ripetizione cogente.

Nel percorso in salita verso gli Orti della Regina, la voce della madre si fa reale, invade i pensieri della donna fino a dirigerli e orientarli, lasciando in sospeso una della domande più brucianti che lega in eterno una figlia alla propria madre: "E' possibile che, credendo di odiarla, io non abbia amato altri che lei?". Risalgono così alla memoria i frammenti della guerra interminabile di due donne che si inseguono all'infinito, insieme all'improvvisa presa di coscienza dell'esistenza di due madri (le due madri che sempre esistono nella storia di ogni donna): quella ufficiale, conosciuta, permanente, e quella segreta, che è sempre un po' adultera e infedele, un po' folle e fuggitiva. La madre inconoscibile.

Raggiunta la meta, e completata l'identificazione con la figura materna, la protagonista può finalmente provare a guardare il precipizio con gli occhi della madre e capire che ciò che ora la abbaglia abbagliò anche lei tanti anni addietro: la fascinazione per il vuoto, la dimenticanza repentina di tutte le altre identità (madre, moglie, amante) e un desiderio di fuga verso la luce, "complice una curiosità primigenia". Lo spalancarsi delle possibilità, la casualità di un luogo e di bagliori violetti, l'accettazione del vuoto. Non dolore, non rabbia, non disperazione... L'andarsene, solo l'andarsene, il grande unico desiderio di tutte le donne della sua famiglia... Il desiderio delle donne. Ma basta conoscerlo questo desiderio del vuoto, come rifiuto di un troppo di identità, di ruolo, di senso, per non subirne più la malìa, per non ripetere un gesto di fuga definitivo, per poter ridiscendere a valle carica di quella leggerezza che il fantasma materno le ha consegnato.

Dunque solo compiendo consapevolmente un processo di identificazione con la madre (che la scrittura, con la sua eterotopia, sembra permettere) è possibile operare il distacco, porre la cesura che impedisce di ripercorrerne la traiettoria. Il percorso della protagonista, quel ripercorrere i passi materni confondendosi sempre di più con lei, sembra porsi come unica possibilità per l'elaborazione di un lutto, per destituirla di quei tratti di "onnipotenza pervasiva" che solo un fantasma può contenere in sé.

Non si tratta di dare alla madre un senso o un'identità, bensì di accettare il vuoto di sapere in relazione alla sua vera identità, di rinunciare a trovare il senso di una vita e di una morte e di lasciare finalmente la figura materna al suo destino inspiegabile, accettandola finalmente come altra da sé, risolvendo nell'intervallo di una separazione compiuta il terrore e il desiderio di identificazione con lei.

 

Nel punto di intersezione di questi grandi temi, nel rapporto reciproco che tra di loro si instaura, possiamo dunque provare a rintracciare la soggettività elusiva dell'autrice, che dunque ci viene consegnata come continua costruzione e gioco incessante di elaborazione dei frammenti sconnessi e contraddittori (che sembrano appartenere a più di una vita) custoditi e persi nella memoria, affidati infine alla scrittura.

 

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© Maria Grazia Tundo 1999