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Maria Grazia Tundo Saggi e scritture |
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In un racconto di Nina Berberova, Il giunco mormorante, si parla di una "no man's land", come del luogo privato e segreto di ciascuno, inconoscibile all'altro, ma in cui solo può avvenire l'incontro di due soggetti in amore. E' un luogo non rintracciabile nelle topologie dei rapporti istituzionalizzati e codificati segnati dal dovere, è un luogo che si nutre di un tempo in cui viene sospesa ogni rigida concatenazione causale di eventi, di un tempo del desiderio che si muove tra l'intensità deflagrante dell'attimo e l'attesa infinita. Dice Berberova: «Ognuno di noi ha la propria no man's land, in cui è totale padrone di se stesso. C'è una vita a tutti visibile, e c'è n'è un'altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla.[..] L'Inquisizione oppure lo Stato totalitario, si a detto per inciso, non possono assolutamente tollerare questa seconda vita che sfugge a qualunque tipo di controllo, e sanno quello che fanno quando organizzano la vita dell'uomo impedendogli ogni solitudine.[...] In questa no man's land, dove l'uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, [...] oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza». Giocando con i significanti e con la lingua inglese, invece che come "terra di nessuno", [no man's land], tale spazio di libertà e occorrenze segrete si potrebbe leggere come "terra che non appartiene ad alcun Uomo", cioè come luogo dove può sostare un desiderio eccedente rispetto alle codificazioni gerarchiche del genere sessuale, come luogo di costruzione di un desiderio che si costituisce nella differenza dai discorsi egemonici e dai sensi già dati. E' il luogo possibile di un desiderio non fallico, non totalizzante, dove il rapporto non è tra soggetto e oggetto, secondo lo schema di un desiderio visto come trasgressivo rispetto alla Legge del Padre, bensì come luogo di un desiderio che si potrebbe chiamare "al femminile", che sa sostare nell'assenza e di essa nutrirsi, senza cedere al vuoto depressivo di una perdita arcaica vissuta come incolmabile, ma che accetta il cambiamento e rinuncia al possesso. E' una terra di transito di soggettività, che nell'apertura all'altro si modificano e reinventano continuamente. Come sottolinea Julia Kristeva, la scrittura poetica ha da sempre familiarità con quest'area del desiderio caratterizzata dalla polivalenza dei segni e dalla trasformazione delle soggettività che, in questa forma dell'apertura all'altro, esperiscono l'oltrepassamento delle frontiere del sé e la ridislocazione delle identità. Un esempio di parola che si contamina con questa forma del desiderio si può ritrovare nel romanzo di Jeanette Winterson, Scritto sul corpo, (1992) che potrebbe essere interessante mettere in relazione ad un altro testo recentemente tradotto in italiano, Contro natura di Jenny Diski, (1986) in cui invece si narra di una forma del desiderio che si mobilita secondo le usuali coordinate del rapporto gerarchico eterosessuale. Si tratta, in effetti, di due diversi percorsi, messe in scene ed esiti del desiderio. Gli scenari del desiderio che le due scrittrici tracciano sono profondamente diversi, soprattutto sul piano dello stile narrativo. Quello di Jane Diski è un romanzo d'impianto realistico, piuttosto scopertamente autobiografico, in cui i personaggi hanno delle identità e delle storie ben delineate. L'unico elemento che turba tale intelligibilità è proprio l'uomo, Joshua, che porta scompiglio nella vita ordinata e controllata della protagonista, Rachel, facendole sperimentare la potenza di un desiderio da lei vissuto come perverso e degradante. La traduzione italiana del titolo inglese agisce in modo piuttosto fuorviante. L'originale è infatti Nothing Natural, [Niente di naturale], che anziché postulare una naturalità pulsionale intrinseca al desiderio, rispetto a cui ogni altro scenario costituirebbe una deviazione patologica, ci spinge a considerare il desiderio come profondamente radicato nell'esperienza, nel senso di essere segnato dalla storia, dagli interdetti sociali e dalle "tecnologie del genere"(che, secondo Teresa De Lauretis, sono i discorsi, le istituzioni, le forme della narrazione, ecc.) che lo producono. Rachel è un soggetto forte, autocosciente, in quanto a dodici anni ha la fortuna di essere adottata da una donna che le restituisce un senso profondo della dignità del suo genere sessuale e l'aiuta a superare l'esperienza drammatica del rapporto con una madre naturale dimidiata, paranoica e incapace di porsi come riferimento valorizzante per la figlia. Rachel è una donna che nel lavoro sa prendersi cura di ragazzi difficili, che sa essere madre single con destrezza. Tuttavia l'incontro con Joshua è il momento che fa deflagrare tutte le certezze di una vita costruita con fatica e coraggio. Il desiderio spropositato e irrefrenabile è per un uomo che sa creare scenari perversi di tipo sadomasochistico, in cui le parti sono rigidamente assegnate secondo un canovaccio invariabile. Buona parte del libro gioca sulla costruzione dell'autoinganno razionale di Rachel, che legge nell'assunzione di tale forma del rapporto sessuale una variante sofisticata ed estrema dell'esercizio della sua libertà. E' un mettere in atto, grazie a quest'uomo, la fantasia di stupro che le provoca godimento, secondo una modalità di gioco paritario e reciproco, che lei ritiene di controllare e scegliere. Tuttavia il gioco le sfugge sempre più di mano, in quanto il desiderio folle e intenso per quest'uomo (o per ciò che di sé, tramite quest'uomo, viene allo scoperto) diventa sempre più difficile da dominare e controllare. Non è tanto la modalità del rapporto sessuale ad essere vissuta come degradante, quanto la rappresentazione del rapporto tra i sessi secondo un unico vettore di soggetto-oggetto. Il rapporto è apparentemente libero: due soggetti che prendono piacere l'uno dall'altro senza vincoli di sorta, senza l'ipoteca del linguaggio d'amore e delle sue strategie ricattatorie. Eppure sembra non esserci libertà possibile se il rapporto si configura come inconsapevole ripetizione del rapporto con un padre amatissimo che l'ha abbandonata da bambina senza spiegazioni, se si inscrive in modo evidente nello scenario edipico. In questo caso il suo desiderio, che sembra più prepotente di qualsiasi scelta razionale, si inscrive, in realtà, nella sceneggiatura paradigmatica prevista per un rapporto eterosessuale. Sembrerebbe trattarsi di un desiderio che si articola secondo lo scenario di una perversione sadomasochistica, ma in realtà è solo un estremizzare la normale dinamica del desiderio che si muove secondo il doppio binario della legge e della trasgressione. Infatti i rapporti di forza e i ruoli tra i due soggetti hanno la fissità di ogni rapporto istituzionalizzato, anche se in apparenza il rapporto si pone come spazio di libertà, assunto in modo consapevole. Al contrario, quello di Winterson è un romanzo d'amore, che riesce a mettere in evidenza con chiarezza la doppia faccia del desiderio. La voce narrante (di cui non conosceremo mai con chiarezza l'identità e che di sé lascia solo tracce contraddittorie, non organizzabili in sequenza secondo le coordinate di una "storia"), conosce entrambe le forme del desiderio e sulla loro incommensurabilità s'interroga. Finché il suo desiderio ha sostato nella tranquillità di rapporti non impegnativi, finché ha potuto rimanere nella sicurezza concessagli dagli stereotipi, anche la sua identità è stata maschile, nel senso che è stata soggetto di desiderio nei modi che ad un maschio è dato essere. Infatti il cliché serve a proteggere dalla forza deflagrante dell'amore: «Voglio la versione annacquata, il linguaggio sdolcinato, i gesti insignificanti. la poltrona sfondata dei cliché». Se tuttavia il linguaggio e i suoi luoghi comuni non riescono più ad operare tale funzione difensiva, si può giungere a vivere quell'amore che non ha nulla da spartire con il "e vissero tutti felici e contenti", quellamore che ci forza fino al limite delle nostre differenze, che ci rimanda all'afasia, all'ebbrezza della perdita. E' questa infatti l'esperienza che segna per il protagonista del racconto il passaggio ad una diversa dimensione del sentire e dell'essere. Nel momento in cui vi è l'incontro con Louise, la figura femminile dai capelli rossi che sembra incidere i suoi segni sul corpo del soggetto narrante, con cui quest'ultimo ha l'esperienza di un desiderio "estatico", eccessivo, oltre la legge e la sua trasgressione, anche la sua identità sessuale diviene incerta e confusa. Improvvisamente non riusciamo più a capire se la voce narrante è quella di un uomo o di una donna. Gli indizi sparsi dall'autrice sono sempre più fuorvianti, contraddittori. Dovremo continuare a leggere fino alla fine senza risolvere il mistero dell'identità sessuale di questo soggetto innamorato, che dice: «Ti esplorerò, scenderò nelle tue caverne e tu mi ridisegnerai come ti piace. Attraverseremo i confini che ci separano, saremo un'unica nazione. Prendimi nelle tue mani perché sono terra fertile. Mangiami, fa' che io sia dolce». Già in queste frasi diviene difficile stabilire l'identità sessuale della voce narrante, che si pone sia come attiva che passiva nel rapporto con Louise, corpo in cui avviene la congiunzione e metamorfosi della carne. Il libro di Winterson si apre con le parole «Perché è la perdita la misura dell'amore?», dandoci la cifra ultima del desiderio. Tale desiderio non presuppone un oggetto, ma un qualcosa d'indefinibile, che è indefinibile in maniera radicale ed è inoltre sempre intessuto con i colori e i sapori dell'assenza. Louise è viva, presente e tuttavia non può che collocarsi quasi immediatamente in area di vuoto e assenza. Il suo splendido corpo è minacciato dalla leucemia e sembrerebbe che solo il marito, un medico di fama internazionale, possa avere gli strumenti per salvarla, ma lo farà solo se Louise gli verrà restituita come legittima moglie. Vediamo dunque contrapposte la strategia ricattatoria di un uomo (il medico per l'appunto), che desidera solo rimarcare il suo ottuso possesso sulla "propria" donna, e la diversa forza desiderante di chi può decidere di abbandonarla, di rinunciare a lei per tenerla viva (come infatti farà il soggetto narrante). Ciò è vero anche a livello metaforico: può porsi come soggettività desiderante solo chi accetta la solitudine, chi può rinunciare al possesso dell'amato/a pur di tener vivo il desiderio, pur di non fagocitarlo/a. Per questo avviene la separazione, lo strazio di un'assenza assoluta, che vive solo di un ricordo presentificato dai segni inscritti sul soggetto innamorato dalle mani della donna amata. Inoltre questi corpi hanno perso i loro confini; c'è lontananza, ma l'io narrante può dire:«Ossa delle mie ossa. Carne della mia carne. Per ricordarti è il mio stesso corpo che tocco. Lei era così, in questa parte e in quest'altra. la memoria fisica inciampa nelle porte che la mente ha cercato di serrare. [...] La saggezza dice dimentica, il corpo ulula. Le sporgenze della clavicola mi disfano. Lei era così, qui e poi qui ». Il corpo di Louise è ormai un corpo eccedente, fantastico, ripercorso tramite il sapere scientifico degli interminabili libri di medicina che il soggetto d'amore avidamente consulta. Tuttavia la freddezza della descrizione anatomica, che tali libri contengono, si muta in linguaggio poetico quando ad essa si congiunge il fantasma di un corpo malato che, investito di desiderio, eccede qualsivoglia sapere scientifico per farsi corpo d'amore. E' proprio tramite questo corpo amato che è possibile un sapere del mondo che travalica l'oggettività della scienza. Come per il bambino, che conosce il mondo tramite l'esperienza corporea, ma di un corpo che non si percepisce come proprio se non tramite il desiderio di un altro corpo, che ad esso dà vita e senso: «Vedo me nella tua pelle, me nelle tue ossa, me che fluttuo nelle cavità che adornano le pareti degli studi dei chirurghi. E' così che ti conosco. Tu sei ciò che so.» Il racconto si conclude in modo indecidibile. Non è chiaro se alla fine la figura che l'io narrante scorge davanti a sé sia una Louise in carne ed ossa o una presentificazione fantasmatica, frutto del suo desiderio e della sua follia; tuttavia sembra che, dopo un'interminabile cercarsi, avvenga il ricongiungimento e, insieme ad esso, la deflagrazione del tempo, dello spazio e del senso, in un'apertura di libertà e possibilità: «Non so se questo è un lieto fine, ma eccoci nella piena libertà dei campi». In conclusione, se il racconto si lascia contaminare da un "desiderio al femminile", come il testo di Winterson, ritroviamo nello stile e nella struttura una rottura degli stilemi tipici della narrazione realistica (la sequenzialità cronologica degli eventi, la coerenza nello sviluppo dei personaggi che devono presentare delle identità anche sessuali ben delineate, la certezza nell'intelligibilità del reale e dell'ordine sociale che lo rappresenta). Infatti la parola si fa ritmo e musica mentre il corpo invade la sintassi con la sua pulsionalità, pluralizzandone il senso. Nel contempo, interrogare la stabilità dei confini tra il sé e l'altro e ridislocarli significa andare a minare profondamente le categorie binarie e gerarchiche su cui i discorsi e le narrazioni dominanti costruiscono il proprio ordine. Diverso è l'esito del romanzo di Jane Diski che, nel mettere in scena un desiderio che si muove secondo le usuali coordinate dei rapporti di potere tra i sessi, non riesce a farsi "scrittura" e può solo concludersi con un vendicativo rovesciamento dei ruoli (secondo l'usuale dialettica servo-padrone) in cui alla protagonista è data la misera soddisfazione di fare arrestare il proprio amante, organizzando il loro ultimo incontro sessuale secondo le modalità di uno stupro, cui lei nega, di fronte alla polizia, di aver dato il suo consenso.
Riferimenti bibliografici
© Maria Grazia Tundo 1999
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