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Fermo e Lucia
Tomo 2
CAPITOLO III
V'ha dei momenti in cui l'animo
massimamente dei giovani, è, o crede di essere talmente disposto ad ogni più
bella e più perfetta cosa che la più picciola spinta basta a rivolgerlo a ciò
che abbia una apparenza di bene, di sagrificio, di perfezione; come un fiore
appena sbocciato, che s'abbandona sul suo fragile stelo, pronto a concedere le
sue fragranze all'aura più leggiera che gli asoli punto d'attorno.
L'animo vorrebbe perpetuare questi momenti, e diffidando della sua costanza,
corre con alacrità a formar disegni irrevocabili: felice se la tarda riflessione
non gli rivela col tempo, che ciò che gli era sembrato una ferma e pura volontà
non era altro che una illusione della fantasia. Questi momenti che si dovrebbero
ammirare dagli altri con un timido rispetto, e coltivare dal prudente consiglio
in modo che si maturassero colla prova, e col tempo, nei quali tanto più si
dovrebbe tremare e vergognarsi di chiedere quanto più grande è la disposizione
ad accordare, questi momenti sono quelli appunto, che la speculazione fredda o
ardente dell'interesse, agguata e stima preziosi per legare una volontà che non
si guarda, e per venire ai vili suoi fini.
Il Marchese Matteo, il quale passato il primo caldo dell'ira, era tosto corso a
fantasticare nella sua mente se da quel disordine avesse potuto cavar qualche
profitto per vincere la risoluzione di Geltrude, e che non era mai ristato dal
ruminarvi sopra da poi, s'accorse al leggere di quella lettera che la figlia gli
dava essa stessa l'occasione desiderata, e stabilì tosto di battere il ferro
mentre ch'egli era caldo. Mandò quindi a dire a Geltrude ch'ella dovesse venire
nella sua stanza, ov'egli si trovava solo. Geltrude v'andò di corsa, che innanzi
o indietro è il passo della paura, giunse senza alzar gli occhi dinanzi al
Marchese, si gittò ai suoi piedi, ed ebbe appena il fiato per dire: «perdono».
Il Marchese con una voce poco atta a rincorare le rispose, che il perdono non
bastava desiderarlo, che questo lo sa fare chiunque è colto in fallo e teme il
castigo, che bisognava insomma meritarlo. Geltrude in tanto più turbata ed
atterrita in quanto ella era venuta con la speranza di tosto ottenerlo, chiese
che dovesse fare per rendersene degna, e si disse pronta a tutto. Il Marchese
non rispose direttamente, ma cominciò a parlare lungamente del fallo di Geltrude
e del torto ch'ella s'era posta in pericolo di fare alla famiglia. Questo
discorso era al cuore di Geltrude come lo scorrere di una mano ruvida sur una
piaga. Aggiunse che, quando mai egli avesse avuto alcun pensiero di collocare la
sua figlia nel secolo, questo fatto sarebbe stato un ostacolo invincibile,
perché egli avrebbe creduto suo dovere di rivelare la debolezza della sua figlia
a chi l'avesse richiesta, non essendo tratto da cavalier d'onore il vender gatta
in sacco. Finalmente, raddolcendo alquanto il tuono della voce, e le parole,
disse a Geltrude che questi eran falli da piangersi per tutta la vita, e che
ella doveva vedere in questo tristo accidente un avviso del cielo, che le dava
ad intendere che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei, e che
non v'era asilo, riposo, sicurezza...
«Ah! sì», interruppe incautamente Geltrude mossa ad un punto dal timore, dal
ravvedimento, e da una certa tenerezza, e sopra tutto dalla corrività della sua
fantasia. Il Marchese, - ci ripugna dargli in questo momento il titolo di padre
- la prese in parola, le annunziò il più ampio perdono, si congratulò con lei
del partito ch'ella aveva preso, della vita riposata e felice ch'ella avrebbe
menata, e la oppresse di quelle lodi che fanno paura, perché lasciano indovinare
a quali improperj esporrebbe il cangiar di risoluzione. Geltrude si stava
stordita fra i diversi affetti che si succedevano nel suo cuore, non sapeva che
dire, non sapeva che si avesse detto: dubitava di essersi troppo avanzata, o
d'essere stata strascinata più innanzi che non avrebbe voluto; questo pensiero
era però dubbio e confuso nella sua mente; ma foss'egli stato limpido e spiegato
perfettamente, manifestarlo, accennarlo, dire una parola che contraddicesse
all'entusiasmo del Marchese, sarebbe stato uno sforzo quasi impossibile.
Il Marchese fece tosto chiamare la madre e il fratello di Geltrude, per
metterli, diceva egli, a parte della sua consolazione, per riporre Geltrude
nella stima e nell'affetto della famiglia. L'una e l'altro accorsero
immediatamente. La Marchesa era avvezza dai primi giorni a non avere altra
volontà che quella del marito, fuorché in due o tre capi pei quali aveva
combattuto, e ne era uscita vittoriosa. Questa condiscendenza non veniva già da
un sentimento del suo dovere né da stima pel Marchese, ma dall'aver veduto
chiaramente da principio che il resistergli sarebbe stato un cozzar coi
muricciuoli. S'era ella quindi renduta indifferente su tutto ciò che riguardava
il governo della famiglia, contenta di fare a modo suo nei due o tre articoli
che abbiamo accennati. Del resto i disegni del Marchese sul collocamento di
Geltrude erano così conformi a quello che si chiamava interesse della famiglia,
e alle mire avare e ambiziose in allora tanto universali, che quel poco di
opinione che la Marchesa aveva a sua disposizione non poteva non approvarli.
L'affezione materna però le faceva desiderare che Geltrude si facesse monaca di
buona voglia, come una buona madre che abbia una figlia tanto scrignuta e
contraffatta da non poter esser chiesta da nessuno, desidera ch'ella preferisca
il celibato al matrimonio. Al giovane Marchesino era stato detto fino
dall'infanzia che le entrate della casa erano appena appena proporzionate alla
nobiltà, e che detrarne anche una picciola parte sarebbe stato un decadere se
non nella sostanza almeno nell'esterno; egli riguardava quindi assolutamente
come un dovere in Geltrude di chiudersi in un chiostro: modo il più economico di
collocarsi: quindi l'aderire ch'egli faceva ai progetti del padre era una
docilità poco costosa. Il Marchese fece cuore a Geltrude, e la presentò con
volto lieto alla madre e al fratello. «Ecco», disse, «la pecora smarrita, e sia
questa l'ultima parola che richiami tristi memorie. Ecco» aggiunse «la
consolazione della famiglia: Geltrude ha scelto ella medesima, spontaneamente
quello che noi desideravamo per suo bene; e non ha più bisogno di consigli.
È risoluta, ed ha promesso...» qui Geltrude alzò gli occhi tra lo spavento e la
preghiera al Padre, come per supplicarlo di sostare un momento, ma egli ripetè
francamente: «ha promesso di prendere il velo». Le lodi e gli abbracciamenti
furono senza fine, e Geltrude riceveva le une e gli altri con lagrime che furono
credute di consolazione. Il Marchese Matteo si diffuse allora a magnificare le
disposizioni che aveva già fatte di lunga mano per rendere lieta e splendida la
sorte della sua figlia. Parlò delle distinzioni ch'essa avrebbe avute nel
monastero, e del desiderio che le madri avevano di possederla, e di osservarla
come la prima, la principessa donna del monastero, dal momento in cui vi avrebbe
riposto il piede. La madre e il fratello applaudivano: Geltrude era come
posseduta da un sogno.
«Oh!» s'interruppe il Marchese; «noi stiamo qui facendo chiacchere, e si
dimentica il principale: bisogna fare una domanda in forma al Vicario delle
monache, altrimenti non si conclude nulla». Detto questo fece chiamare tosto il
Segretario. Questi giunse ritto ritto, intirizzato quanto poteva comportare la
fretta di obbedire al Signor Marchese; il quale tosto gli diede ordine di
stendere la supplica. Il Segretario, rivolto a Geltrude disse: «ah! ah!» per
pigliar tempo a studiare un complimento di congratulazione: ma il Marchese lo
interruppe dicendo: «Presto, presto, scrivete alla buona, senza concetti; già
conosciamo la vostra abilità». Il Segretario scrisse, e il foglio fu dato a
Geltrude da ricopiare, la quale ricopiò, e appose il suo nome, come le comandò
il Marchese. Il quale preso il foglio, e consegnatolo al Segretario perché lo
portasse addirittura cui era indiritto; comandò che si preparasse per Geltrude
il suo appartamento ordinario, che si dicesse ch'ella era guarita dalla sua
indisposizione - era il pretesto preso per dar ragione della sua assenza
continua -, e che tosto le si facessero apprestare abiti più sontuosi. Quindi
rivolto sorridendo a Geltrude, le chiese quando ella sarebbe stata disposta a
fare una trottata a Monza per richiedere alla Badessa di esser ricevuta.
«Anzi...» riprese dopo aver pensato un momento, «perché non v'andiamo oggi
stesso? Geltrude ha bisogno di pigliar aria, e sarà ancor più contenta quando il
primo passo sia fatto». «Andiamo, andiamo» rispose la Marchesa. «La giornata è
bellissima». «Vado a dar gli ordini», disse il Marchesino e stava per partire.
«Ma...» cominciò Geltrude, e non potè continuare. «Piano, piano, cervellino»,
ripigliò il Marchese rivolto al figlio: «forse Geltrude è stanca, e vuole
aspettare fino a domani. Volete voi che andiamo domani?» domandò a Geltrude con
uno sguardo che nello stesso tempo mostrava il sereno e minacciava il temporale.
«Domani», rispose con debole voce Geltrude, alla quale non parve vero di aver
qualche ora di rispitto, e che nel proferire quella parola si sovvenne che
finalmente quel passo non era l'ultimo, il decisivo; e che si poteva ancora
darne uno indietro. «Domani», disse solennemente il Marchese: «domani, è il
giorno ch'ella ha stabilito».
Il resto della giornata fu occupatissimo.
Geltrude avrebbe voluto raccogliere i suoi pensieri, riposarsi da tante
commozioni, rendersi conto di quello che aveva fatto, di quello che era da
farsi, sapere distintamente che cosa voleva, trovare il modo di rallentare un
po' quella macchina che appena mossa andava con tanta celerità, per vedere
almeno come ne era condotta, e per arrestarla affatto se si fosse accorta che la
conduceva ad un pentimento; ma non ci fu verso. Le distrazioni si tenevano
dietro senza interruzione, e la mente di Geltrude era come il lavorio d'una
povera fante che serva ad una numerosa famiglia e che in un giorno di faccende
chiamata di qua di là non può venire a capo di nulla. Mentre s'apparecchiava il
quartiere ch'ella doveva abitare, ella fu condotta nella stanza stessa della
Marchesa, per essere acconciata, adornata, vestita del suo più bell'abito;
operazione che in quel giorno le recò una noja intollerabile. La Marchesa
presiedeva all'acconciamento, e parte lodando, parte riprendendo, parte
consigliando, parte interrogando Geltrude di cose estranie non le lasciò il
tempo di raccozzar due idee. Del resto a misura che l'opera procedeva verso la
sua perfezione, Geltrude stessa vi prese un po' d'affetto, e vi occupò quel poco
di pensiero che le rimaneva. L'acconciatura era appena finita che venne l'ora
del pranzo. I servi la inchinavano umilmente sul suo passaggio, accennando di
congratularsi per la ricuperata salute; con una serietà che non avrebbe lasciato
supporre che essi sapessero qualche cosa del vero motivo della assenza di
Geltrude. A tavola Geltrude fu la regina: servita la prima, trattenuta,
corteggiata, ella doveva corrispondere a tante gentilezze, e faceva ogni sforzo
per riuscirvi. Il Marchese aveva fatto avvertire alcuni parenti più prossimi del
ristabilimento della figlia, e della sua risoluzione: le due liete nuove si
sparsero, e come la famiglia del Marchese spandeva un lustro grande su tutta la
parentela, comparvero dopo il pranzo visite di congratulazione. I complimenti
erano per la sposina - così si chiamavano le giovani che erano per farsi monache
- e la sposina doveva rispondere a quei complimenti; ed ogni risposta era una
conferma. S'avvedeva ben ella che ad ogni momento andava tessendo ella stessa
una maglia di più alla sua rete; ma oltre ch'ella non vedeva ben chiaro se
quella era una rete, fare altrimenti le pareva impossibile: poiché come mai in
presenza del padre, a chi si rallegrava di una risoluzione presa da lei, ed
annunziata da quello, avrebb'ella potuto dare una risposta dubbiosa? Partite le
visite Geltrude entrò con la famiglia nel cocchio dal quale era stata esclusa
per tanto tempo: e si andò a fare la solenne trottata. Lo spettacolo e il romore
delle carrozze e dei passeggiatori, i discorsi incessanti del padre, della
madre, e del fratello che per cortesia rivolgevano sempre la parola a Geltrude,
si contendevano l'attenzione della sua mente; e i pensieri sulla sua situazione
vi apparivano istantaneamente come lampi in un povero cielo. Rientrato il
cocchio, in casa, e fermato sotto le volte rimbombanti dell'atrio, i servi che
scendevano in fretta coi doppieri, annunziarono che gran parte della
conversazione era già ragunata.
Si montò con tutta la fretta che poteva conciliarsi con una certa gravità, e di
sala in sala si giunse a quella della conversazione. La sposina ne fu il
soggetto, l'idolo, e la vittima. Chi si faceva prometter da lei, chi prometteva
visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua
conoscente; chi lodava il cielo di Monza, chi la regola del monastero. Se alcuno
non potendo avvicinarsi a Geltrude assediata da altri, o trovandosi distratto a
ciarlare in un crocchio, non le aveva detto nulla, si sentiva tutto ad un tratto
preso come da un rimorso, temeva di averle fatta una offesa, e studiava il
momento di farle il suo complimento. Finalmente la brigata si sciolse, tutti
partirono senza rimorso, e Geltrude stordita, intronata si rimase sola con la
famiglia, dalla quale ebbe altri complimenti sui complimenti che aveva ricevuti.
«Ho finalmente», disse il Marchese Matteo «avuta la consolazione di veder mia
figlia trattata e distinta da sua pari. Domani mattina», soggiunse, «converrà
esser presti di buon ora per andare a Monza come ha stabilito Geltrude».
Geltrude condotta finalmente dalla Marchesa nella stanza che le era preparata vi
rimase con una donna che era stata quel giorno destinata ai suoi servigi, in
vece di quella che aveva fatto presso di lei il tristo uficio di carceriera.
Questo cangiamento era stato provocato da Geltrude. Vedendo ella in quel giorno
il padre così disposto a compiacerla in tutto fuor che in una cosa, fu tentata
di profittare dell'auge in cui si trovava per soddisfare almeno una delle
passioni che si univano a tormentarla. Si è detto ch'ella vedeva di mal occhio
la donna che le era stata spia e guardiana; e che v'era fra esse un ricambio
continuo, una gara di sgarbi. Geltrude in certi momenti di divozione le aveva
perdonato, ma cento perdoni non ne vagliono un solo. Vedersi in quel giorno
trattata con tanta importanza quasi con tanto rispetto da tutta la famiglia, le
dava un po' di superbia, e nello stesso tempo il sentire che con queste lusinghe
le si faceva fare quello che forse ella non avrebbe voluto le dava stizza:
mentre il suo animo si trovava fra questi due tristi sentimenti, le sovvenne dei
modi rozzi, famigliari, insolenti che quella donna le aveva usati nella sua
prigionia, e volendo lamentarsi di qualche cosa, se ne lamentò al padre. Questi
ne fu, o se ne mostrò sdegnato, non istette a domandarle come ella pure avesse
trattata la donna; ma promise che darebbe una buona lavata di capo a colei, e
fissò immediatamente ai servigi di Geltrude un'altra donna di casa. Era questa
la vecchia governante del Marchesino: e Geltrude faceva poco guadagno nel
cambio. La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu
tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva
poste tutte le sue compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese
ella era stata la prima a dire che Geltrude aveva ad esser monaca per non rubare
una parte d'entrata al Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto
soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi, tra i quali
era un personaggio d'importanza; e parlava con molta bontà della signorina che
aveva conosciuto il suo dovere.
Geltrude, a compimento di quella giornata, dovette sentire le lodi e i consigli
della vecchia che spogliandola e ponendola a letto le fece la storia di sue zie,
e di sue prozie, le quali s'eran fatte monache per non intaccare il patrimonio
della casa, e che se n'erano trovate ben contente perché i monasteri dove
s'erano chiuse avevan saputo tener conto dell'onore che arrecava loro l'aver
dame di quella casa. Le raccontò che si era ricorso ad esse per protezione, e
che esse dal loro parlatorio avevano ottenuto ciò che era stato invano domandato
dalle prime dame nella loro gran sala di ricevimento, parlò degli affari d'onore
imbrogliatissimi ch'esse avevano conciliati, delle visite di grandi personaggi
forestieri che avevano ricevute, di che tutta la città aveva parlato. «Ma»,
soggiungeva, «erano donne che sapevan fare»; e qui intrometteva qualche
consiglio sulla condotta da tenersi a Monza. Prediceva gli onori che Geltrude
avrebbe pur ricevuti, le distinzioni, le visite. Verrebbe poi il Signor
Marchesino con la sua sposa, la quale doveva esser certo una gran dama, e allora
non solo il monastero, ma tutto il borgo sarebbe in movimento. Geltrude
ascoltava con una noja mista di qualche curiosità, poiché si trattava
probabilmente del suo avvenire, e benché stanca e stordita non diceva: «finitela»,
per quella stessa curiosità che impedisce uno di lasciare a mezzo una storia mal
pensata e male scritta. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Geltrude,
quando Geltrude era già coricata; parlava ancora che Geltrude dormiva. Le cure
di rado tolgono il sonno alla giovinezza; e sono tutt'altre cure che quelle onde
era oppressa Geltrude. Il suo sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni
penosi, ma non fu rotto che dalla voce agra della vecchia che venne di buon
mattino a riscuoterla perché si preparasse al viaggio di Monza.
«Alto, alto, signora sposina; è giorno fatto; e prima ch'ella sia vestita,
rivestita, in pronto, ci vorrà anche un'ora almeno. La Signora Marchesa si sta
alzando, e l'hanno svegliata quattr'ore prima del solito. Il Marchesino è già
disceso alla scuderia e risalito; e si trova in ordine di partire quando che
sia. Vispo come un lepratto quel diavoletto: ma! egli era tale fin da bambino:
io posso ben dirlo che l'ho tenuto nelle mie braccia. Ma quando è all'ordine non
bisogna farlo aspettare, perché quantunque sia della miglior pasta del mondo,
allora egli strepita, fa il diavolo: e questa volta avrebbe anche un po' di
ragione perché egli s'incomoda per accompagnar lei. Guarda in quei momenti: non
ha tema di nessuno, fuorché del Signor Marchese; ma poi finalmente egli non ha
sopra di sè che il Signor Marchese, e un giorno il Signor Marchese sarà egli.
Poveretto! con due paroline però s'acqueta subito. Lesta, lesta, signorina,
perché mi sta guardando così come incantata? a quest'ora ella dovrebb'esser
fuori del nido».
Geltrude infatti desta per forza, non ancor ben certa di vegliare, assalita ad
un punto dalle memorie del giorno trascorso, dal pensiero di ciò che si doveva
fare in quello che cominciava, e dal cinguettio della governante, stava cogli
occhi socchiusi ed intenti come trasognata: quel destarsi era per la sua mente
come il dubbio barlume di un mattino tempestoso, quando un leggero diradamento
nelle tenebre appena annunzia che il sole è sull'orizzonte, e a chi guarda più
attentamente il sole stesso appare come un disco bianco e leggiero sospeso
dietro le nuvole trasparenti.
Quelle esortazioni però fecero colpo assai, perché la vecchia aveva toccato un
tasto del quale essa stessa non conosceva tutta la forza. Il nome del Marchesino
aveva già fermata l'attenzione di Geltrude, ma quando dalle parole della
governante l'immagine del Marchesino in collera passò nella mente di Geltrude,
tutti i pensieri onde questa era affollata, si levarono a volo come uno stormo
di passere alla vista d'uno spauracchio, e non restò più a Geltrude che la
voglia di sbrigarsi, e di schivare quella collera. Geltrude, bisogna
confessarlo, non amava molto il fratello; e pei suoi modi aspri, sprezzanti, e
imperiosi, e perché di tutta la casa il Marchesino era quegli che più sovente
aveva il monastero in bocca; e perché le compiacenze e le distinzioni dei
parenti sopra di lui, la tenevano in uno stato continuo di paragone umiliante.
Lo temeva essa però, ma fino ad un certo tempo non quanto egli avrebbe voluto: e
come di lingua e d'ingegno, ella era meglio fornita di lui, di quando in quando
ella si vendicava con un motto di molti giorni di una pesante persecuzione. Era
quindi fra loro come un continuo stato di guerra. Ma quando dopo la sua
prigionia Geltrude comparve davanti al fratello carica d'un fallo e d'un
perdono, alzando timidamente gli occhi sulla faccia del fratello, vi scorse una
superiorità dalla quale non ebbe pure il pensiero di potersi ribellar mai; si
sentì soggiogata per sempre. Ed ora il solo pensare che il fratello in un
momento d'impazienza potesse profittare del vantaggio che ella le aveva dato col
suo fallo, per gittarle un motto, un rimprovero che alludesse a quello, la
faceva tremare. Si pose ella quindi a sedere in fretta, e pure in fretta
cominciò a vestirsi. Avrebbe potuto la poverina riflettere che quel pericolo era
troppo lontano; che il fratello in un momento in cui sperava da lei un tal
sagrificio era ben lontano dal dir cosa che potesse offenderla; e che alla fine
per grossolano e sventato ch'egli fosse, non avrebbe scherzato così di leggieri
con l'onore di sua sorella, al quale il suo proprio era tanto vicino; ma un
effetto dei falli si è appunto di render l'animo più soggetto a timori non
ragionevoli.
Geltrude si vestì dunque in fretta, si lasciò acconciare e comparve nella sala
dov'era radunata la famiglia ad aspettarla. Il Marchesino, al quale corsero
dapprima i suoi occhj, se ne stava tranquillo, senza dar segno d'impazienza: la
Marchesa la quale aveva sagrificate tre ore di letto mostrava nell'aspetto quel
misto di sentimenti che nasce dalla consolazione di aver fatta una impresa, e
dal dispetto degli incomodi sostenuti per venirne a capo. Il Marchese con lieto
viso si fece incontro a Geltrude, e le disse. «Avete scelto una bella giornata:
buon augurio». «Buon augurio» ripeterono la Marchesa e il Marchesino. Era
preparata una sedia a bracciuoli, e il Marchese accennò amorevolmente a Geltrude
che vi sedesse, e perch'ella confusa stava alquanto in forse: «qui, qui», diss'egli,
«certamente: dopo la risoluzione che avete fatta non siete più una ragazzetta:
siete come un di noi». Appena Geltrude si fu seduta, venne un servo che le
presentò rispettosamente una tazza di ciocolatte.
Prendere il ciocolatte a quei tempi, era, dice il nostro manoscritto, quello che
presso ai romani assumere la veste virile: e tutte queste cerimonie erano
piccioli fili, che legavano sempre più la povera Geltrude. Essa non confermava
con parole la risoluzione che tutte quelle dimostrazioni supponevano: non diceva
nulla, non faceva nulla, ma tutto ciò che si faceva d'intorno a lei, la poneva
in una situazione nella quale il disdirsi, appena il mover dubbio sulla sua
risoluzione, il fermarsi un momento avrebbe avuto sempre più apparenza di
stranezza scandalosa. Preso il fatal ciocolatte, il Marchese si alzò, pigliò
Geltrude in disparte, e con aria di consiglio amorevole le disse. «Orsù figlia
mia, diportatevi bene: scioltezza, e buon garbo». E qui le diede le istruzioni
su quello che doveva fare e dire, e le fece ripetere la formola della domanda.
«Benissimo, a meraviglia» esclamò quindi e continuò: «Quelle buone suore vi
aspettano a braccia aperte; e non sanno nulla, nulla... Non mi date in
fanciullaggini, in pianti, non mi fate la Maddalena penitente, guardatevi da un
contegno che lasci sospettar qualche cosa: siate franca, e mostrate di che
sangue uscite. La vostra risoluzione vi ha meritato il perdono della famiglia;
il vostro fallo è cancellato e dimenticato». Quand'anche Geltrude avesse avuto
il coraggio, che non aveva, di porre qualche ostacolo, questo discorso, che le
faceva sentire dove si sarebbe tosto portata la quistione, l'avrebbe
immediatamente disposta ad obbedire senz'altre osservazioni. Ella arrossò, non
rispose nulla, chinò il capo, gli occhi le si gonfiarono; ma un «via via», detto
risolutamente dal Marchese e l'apparire d'un servo che annunziava che il cocchio
era pronto, la costrinsero a farsi forza, e a ricomporsi. Nello scender le
scale, Geltrude fu servita da un bracciere; si montò in cocchio, e si partì.
Gl'impicci, le noje, e i pericoli del mondo, e la vita beata del chiostro,
principalmente per le giovani di sangue nobilissimo furono il tema del discorso
durante il tragitto. All'entrare nel borgo, al vedere la porta del chiostro,
Geltrude si sentì stringere il cuore, ma gli occhi della famiglia erano sopra di
lei; quando il cocchio si fermò Geltrude guardando alla porta la vide già piena
di curiosi; e lo studio di non far nulla di sconvenevole la occupava tanto,
ch'ella scese, e s'avviò quasi senz'altro pensiero. Attraversando il cortile si
vide la porta del chiostro aperta, e tutta occupata dalle monache. In prima fila
alcune anziane con la badessa nel mezzo; dietro le altre alla rinfusa, quelle
che erano immediatamente dopo le prime cacciavano il volto tra l'una e l'altra,
altre dietro ritte sulla punta dei piedi; e per non tacer nulla, le converse in
ultimo sollevate sopra sgabelletti. Si vedevano pure qua e là luccicare più
basso qualche paja di occhj avidissimi, come al buco della chiave, ed apparire
qua e là un po' di volto mezzo ascoso: erano le più destre e le più animose
delle educande che serpendo tra una monaca e l'altra s'eran trovate un cantuccio
per vedere anch'esse qualche cosa: il che era in verità troppo giusto.
Geltrude come incantata giunse in faccia a tanto teatro, condotta ed animata dai
parenti, e si fermò nel bel mezzo davanti alla madre badessa. È inutile dire che
questa era stata dal Marchese avvertita per un messo straordinario della visita
che avrebbe ricevuta e del perché. Geltrude fu accolta dalla badessa e da tutte
le suore con acclamazioni. Dopo i primi saluti, la badessa nel modo con cui si
fa per formalità una domanda della quale è certa la risposta, le domandò che
cosa ella desiderava in quel luogo dove non v'era chi potesse nulla rifiutarle.
«Son qui...» cominciò a rispondere Geltrude, ma nel momento in cui ella doveva
manifestare con certezza un desiderio che era tutt'altro che certo nel suo
cuore, nel momento in cui le sue parole dovevano decidere quasi irrevocabilmente
del suo destino, il combattimento interno fu sì forte ch'ella non potè
proseguire, e ristette un istante guardando come incantata la badessa, e la
folla che la circondava. Così guatando ella vide distintamente alcune delle sue
compagne, e sulla parte che appariva di quelle faccette e più negli occhi
un'espressione mista di malizia e di compassione, che diceva chiaramente: «Ah!
c'è incappata la brava!» Questa vista le risvegliò in cuore tutta l'avversione
al chiostro, l'orrore per la violenza che l'era fatta, e con questi sentimenti
un lampo di coraggio. E già ella stava cercando una risposta diversa da quella
che si aspettava da lei, cosa troppo difficile a trovarsi in quella circostanza.
Alzò un momento gli occhi verso il padre che le stava di fianco, per indovinare
che effetto avrebbe prodotto la sua resistenza, e come per esperimentare le
proprie forze, ma vide negli sguardi del Marchese una espressione sì minacciosa,
che tutto il suo coraggio svanì. Pensò che la resistenza, che il ritardo,
l'avrebbero resa innanzi a tanti occhi un oggetto di scandalo, di stupore, e di
derisione, pensò al padre, al fratello, al mondo, al paggio; si consolò
riflettendo che dopo quella formalità le rimaneva ancora una porta aperta per
tornare indietro, che poteva guadagnar tempo, e che avrebbe saputo
approfittarne; e il partito il più facile, il più sicuro, il meno terribile in
quel momento le parve di dire, come fece: «Son qui a domandare d'essere ammessa
a vestir l'abito». Nel breve momento d'indugio ch'ella aveva posto a finir la
sua frase un silenzio solenne aveva regnato fra gli astanti: le parole di
Geltrude furono seguite da una acclamazione generale. Chetato il tumulto, la
badessa tutta sorridente, porse a memoria questa risposta che le era stata data
in iscritto da un bell'ingegno di Monza, uomo dotto che aveva letti i celebri
romanzi del Pasta: «Se il rispetto non ponesse un freno agli affetti, io
accuserei in questa circostanza di troppo rigore quelle regole sapientissime che
ci proibiscono di dare alcuna risposta a domande di questa natura prima di
averne ottenuta la licenza. Bensì senza riguardi, accuseremo il tempo che coi
suoi lenti passi ci ritarda il momento di dare questa risposta desiderosa non
meno che desiderata. E voi, carissima figlia, con l'acume del vostro ingegno
potrete intanto, dai segni esterni farvi indovina della decisione che potete
aspettarvi da tutte le nostre suore; e da me umilissima superiora».
Le acclamazioni ricominciarono: e le suore sorrisero di compiacenza, e non a
torto perché la gloria del capo si diffonde sugli inferiori.
La badessa, alla quale non era spiaciuto di aver molti uditori, pensò allora che
la folla poteva essere incomoda, si rivolse ad una suora, e disse: «Ehi suor
Eusebia, date un po', una voce alla fattora, perché faccia sparire tutto quel
minuto popolo, e chiuda la porta di strada». L'ordine fu dato ed eseguito: e il
minuto popolo partì con dispiacere, ma con ammirazione. Geltrude passava intanto
dalle braccia della badessa a quelle d'una e d'un'altra suora; e ognuna le
faceva un complimento, il quale aveva in tutte a un di presso lo stesso senso: -
l'avevam sempre detto che sareste nostra -. Passato quel primo impeto, la
badessa pregò Geltrude e la famiglia di passare nel parlatorio. A questa
preghiera, le converse scesero dagli sgabelli, la folla si diradò, e la badessa
con alcune delle anziane si avviò al parlatorio per l'interno del chiostro,
mentre la famiglia milanese vi andava pel di fuori.
V'ha due modi di scendere il pendio della sventura: l'uno è di capitombolare ad
un tratto nel precipizio, l'altro d'andarvi come saltelloni in più riprese: in
questo secondo caso, ogni fermata è una specie di riposo; e l'intervallo che
passa tra una caduta e l'altra è talvolta tutto occupato dalla speranza.
Geltrude sentì un certo sollievo d'essere uscita di quella stretta comunque ne
fosse uscita, e corse tosto col pensiero a proporsi di volere prima di fare un
altro passo meditar ben bene se le conveniva o no di progredire, e di non
lasciarsi cogliere così alla sprovveduta. Con questo pensiero ella fu condotta
nel parlatorio. Qui rinnovati i complimenti, la badessa pregò gli ospiti di
aggradire alcune cosucce, ch'ella faceva porre nella ruota da una conversa; la
quale dette il moto alla ruota, e ne rivolse la bocca verso il parlatorio
esteriore.
Due secoli e più sono passati dopo quel giorno memorabile: così che noi crediamo
di potere ormai senza indiscrezione manifestare che la ruota, rivolgendosi,
offerse agli sguardi, ed alle mani degli ospiti un gran bacile di dolci
squisiti, fabbricati di propria mano dalle suore malgrado gli ordini
ecclesiastici, in allora recenti, che proibivano loro assolutamente un tale
esercizio. È da credersi che questi ordini non ottenessero un più grande effetto
in progresso di tempo, giacché questa fabbricazione durò fino ai nostri giorni;
il che non si accenna qui per censurare con indiscreta severità tutte le monache
che si succedettero in questi due secoli; una tale censura sarebbe anzi a dir
vero non solo indiscreta, ma perfidamente ipocrita, perché chi scrive ha
mangiato egli stesso i dolci squisiti di fabbrica monastica, quando ha potuto
averne. Si parla soltanto di questo fatto, perché può dar luogo ad una
osservazione piccante: che vi ha talvolta delle leggi che non sono eseguite.
Dopo un «oh!» come di sorpresa, dopo alquanto schermirsi, e lagnarsi d'esser
trattati in cerimonia, il bacile fu manomesso, i dolci furono gustati con atti
che esprimevano l'ammirazione, somme lodi furon date con sentimento molto, e
rispinte con molta modestia.
Mentre la Marchesa e il Marchesino si abbandonavano con alcune suore alle varie
riflessioni che può far nascere un bacile di dolci, e Geltrude era costretta di
rispondere come poteva ai complimenti che altre suore le facevano, la madre
badessa chiamò in disparte il Marchese ad un'altra grata.
«Signor Marchese... per adempire alle regole... per una pura formalità... debbo
dirle... che ogni volta che una figlia domanda d'essere ammessa... la Superiora,
quale io sono indegnamente... tiene obbligo di avvertire i parenti che se mai
essi forzassero la volontà della figlia incorrerebbero nella scomunica... Mi
scuserà...»
«Benissimo, benissimo, reverenda madre; troppo giusto: lodo la sua esattezza. Ma
già ella non può dubitare...»
«Oh! Pensi, Signor Marchese; non sono pur cose da dirsi: ho parlato per mio
dovere; ma s'immagini...»
«Certo, certo, madre badessa». Finito il qual breve dialogo, i due interlocutori
si separarono in fretta, come se fosse incomodo ad entrambi il continuarlo, e
andarono a mescersi ognuno alla sua brigata. Dopo alcuni altri complimenti, il
Marchese si accomiatò, e Geltrude colle tenere espressioni della badessa, con le
istanze delle suore di venir presto, fu rimessa in cocchio più stordita, più
incerta, più sopra pensiero di quello che fosse partita la mattina, ma con un
anello di più alla sua catena; e che anello!
Ma la badessa aveva ella qualche dubbio sulla libera elezione di Geltrude, o
prestava fede intera alle parole materiali ch'erano uscite dalla bocca di lei?
Il manoscritto non ne dice nulla; si perde invece a raccontare lunghissimamente
dei particolari nojosi che noi ommettiamo, intorno ad alcune brighe del
monastero, ad alcune rivalità, ad alcuni impegni, nei quali l'aver fra le suore
una figlia di famiglia potentissima poteva essere un gran soccorso.