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Fermo e Lucia
Tomo 2
CAPITOLO II
LA SIGNORA, TUTTAVIA
Le parole della Signora nel colloquio che abbiamo trascritto non annunziavano
certamente un animo ordinato e tranquillo; eppure ella s'era studiata in tutto
quel colloquio per comparire una monaca come le altre. Ma quando ella si trovò
sola con Lucia, ella si studiava tanto meno quanto meno temeva le osservazioni
di una giovane forese di quelle d'un vecchio cappuccino. Quindi i suoi discorsi
divennero sì stranj, per una monaca singolarmente, che prima di riferirli è
necessario raccontare la storia di questa Signora, e rivelare le passioni e i
fatti che rendevano tale il suo linguaggio.
Questi fatti sono tristi e straordinarj, e per quanto a quei tempi di funesta
memoria fossero comuni molte cose che sarebbero portentose ai nostri, l'autorità
di un anonimo non avrebbe bastato a farci prestar fede a quello che siam per
narrare: frugando quindi per vedere se altrove si trovasse qualche traccia di
questa storia, ci siamo abbattuti in una testimonianza la quale non ci lascia
alcun dubbio. Giuseppe Ripamonti, Canonico della Scala, Cronista di Milano etc.,
scrittore di quel tempo, che per le sue circostanze doveva essere
informatissimo, e negli scritti del quale si scorge una attenzione di
osservatore non comune, e un candore quale non si può simulare, il Ripamonti
racconta di questa infelice cose più forti di quelle che sieno nella nostra
storia; e noi ci serviremo anzi delle notizie ch'egli ci ha lasciate per render
più compiuta la storia particolare della Signora. Queste cose però, quantunque
rese più che probabili da una tale testimonianza, e quantunque essenziali al
filo del nostro racconto, noi le avremmo taciute, avremmo anche soppresso tutto
il racconto, se non avessimo potuto anche raccontare in progresso un tale
mutamento d'animo nella Signora, che non solo tempera e raddolcisce
l'impressione sinistra che deggiono fare i primi fatti della Signora, ma deve
creare una impressione d'opposto genere, e consolante. Avremmo, dico, lasciato
di pubblicare tutta questa storia, e ciò per non offendere coloro ai quali il
rimettere nella memoria degli uomini certe colpe già pubbliche, ma dimenticate,
quando non sieno terminate con un grande esempio, o con un gran pentimento,
sembra uno scandalo inutile, comunque uno le esponga. Senza esaminare il valore
di questo modo di sentire, noi lo avremmo rispettato, quando ciò non costava
altro che di sopprimere un libro.
Che se poi altri volesse censurare queste scuse come inutili, e ci accusasse di
cader sempre in digressioni che rompono il filo della matassa, e fermano l'arcolajo
ad ogni tratto, egli obbligherebbe chi scrive a fare un'altra digressione, e a
rispondergli così: - Il manoscritto unico, in cui è registrata questa bella
storia degli sposi promessi, è in mia mano: se la volete sapere, bisogna
lasciarmela contare a modo mio: se poi non vi curaste più che tanto di sentirla,
se il modo con cui è raccontata vi annojasse, giacché dagli uomini si può
aspettar tutto; in questo caso, chiudete il libro, e Dio vi benedica.
Il Padre della infelice di cui siamo per narrare i casi, era per sua sventura, e
di altri molti, un ricco signore, avaro, superbo e ignorante. Avaro, egli non
avrebbe mai potuto persuadersi che una figlia dovesse costargli una parte delle
sue ricchezze: questo gli sarebbe sembrato un tratto di nemico giurato, e non di
figlia sommessa ed amorosa; superbo, non avrebbe creduto che nemmeno il
risparmio fosse una ragione bastante per collocare una figlia in luogo men degno
della nobiltà della famiglia: ignorante, egli credeva che tutto ciò che potesse
mettere in salvo nello stesso tempo i danari e la convenienza fosse lecito, anzi
doveroso; giacché riguardava come il primo dovere del suo stato il conservarne
l'opulenza, e lo splendore: erano questi nelle sue idee, i talenti che gli erano
stati dati da trafficare, e dei quali gli sarebbe un giorno domandato ragione.
Una figlia nata in tali circostanze, e destinata a dover salvare una tal capra e
tali cavoli, era ben felice se si sentiva naturalmente inclinata a chiudersi in
un chiostro, perché il chiostro non lo poteva fuggire. Tale fu il destino della
Signora dal primo momento della sua vita; e quando una donzella della signora
Marchesa venne con l'aria confusa di chi confessa un fallo, a dire al signor
Marchese: «è una femmina»; il signor marchese rispose mentalmente: - è una
monaca -. Si pose quindi a frugare il Leggendario per cercarvi alla sua figlia
un nome che fosse stato portato da una santa la quale avesse sortito natali
nobilissimi e fosse stata monaca; e un nome nello stesso tempo che senza esser
volgare richiamasse al solo esser proferito l'idea di chiostro; e quello di
Geltrude gli parve fatto apposta per la sua neonata. Bambole vestite da monaca
furono i primi balocchi che le furono posti fra le mani; e il padre, facendola
saltare talvolta sulle ginocchia la chiamava per vezzo: madre badessa. A misura
ch'ella si avanzava nella puerizia, le sue forme si svolgevano in modo che
prometteva una avvenenza non comune agli anni della giovanezza, e nello stesso
tempo ne' suoi modi e nelle sue parole si manifestava molta vivacità, una grande
avversione all'obbedienza, e una grande inclinazione al comando, un vivo
trasporto pei piaceri e pel fasto. Di tutte queste disposizioni il padre
favoriva quelle soltanto che venivano dall'orgoglio, perché come abbiam detto lo
considerava come una virtù della sua condizione; egli era superbo della sua
figlia come era superbo di tutto ciò che gli apparteneva, e lodava in essa gli
alti spiriti, la dignità, il sussiego, qualità tutte che manifestavano un'anima
nata a governare qualunque monastero. Della bellezza né egli, né la madre, né un
fratello destinato a mantenere il decoro della famiglia, non parlavano mai; e la
Signora ne fu informata dalle donzelle, alle quali prestò fede immediatamente.
Benché la condizione alla quale il padre l'aveva destinata fosse conosciuta da
tutta la famiglia, e da tutti approvata, nessuno le disse però mai: - tu devi
esser monaca -. Era questa come una idea innata; e quando veniva il caso di
parlare dei destini futuri della fanciulla, questa idea si dava per sottintesa.
Accadde per esempio che alcuno della casa correggendola di qualche aria d'impero
troppo oltracotante, gli diceva: «tu sei una ragazzina, questi modi non ti
convengono; quando sarai la madre badessa, allora comanderai, farai alto e
basso». Talvolta il padre le diceva: «tu non sarai una monaca come le altre:
perché il sangue si porta da per tutto dove si va»; e simili discorsi nei quali
la Signora apprendeva implicitamente ch'ella aveva ad esser monaca.
Confusa con questa idea, entrava però a poco a poco nella sua mente un'altra,
che per esser monaca era mestieri del suo assenso volontario; e che questa cosa
tanto certa non era però fatta, e che il farla o non farla sarebbe dipenduto da
una sua determinazione: ma queste due idee un po' ripugnanti si acconciavano
nella sua mente come potevano: perché se un uomo non dovesse star tranquillo che
dopo d'aver messe d'accordo tutte le sue idee, non vi sarebbe più tranquillità.
A sei anni fu posta in un monistero e per educazione, e per istradamento alla
carriera che le era prefissa. Quale coltura d'ingegno potesse riceversi a quei
tempi in un monastero, è facile argomentarlo dalla coltura universale, e questa
si può argomentare dai libri che ci rimangono di quell'epoca. Ora basti il dire
che nella prima metà del secolo decimosettimo non uscì ch'io sappia in Milano un
libro, non dico insigne di pensiero, ma scritto grammaticalmente: dimodoché
dalla ignoranza universale si può francamente supporre che alle giovani di quel
tempo non si sarà comunicato nemmeno ciò che v'è di più chiaro, di più certo, di
meglio digerito nelle cognizioni umane, la storia romana. Ma quello che più
importa di dire nel caso nostro si è che quella parte di educazione che i
fanciulli riuniti in comunità si danno sempre fra di loro, operò nella Signora
un effetto contrario direttamente alla intenzione ed ai disegni dei suoi. Fra le
giovanette educande colle quali ella fu posta a vivere, erano alcune destinate a
splendidi matrimonj, perché così voleva l'interesse delle famiglie loro.
Geltrudina nutrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei
suoi destini futuri di badessa, e a quello splendido che la fantasia dei
fanciulli vede sempre nella condizione di quelli che comandano loro, la sua
fantasia aggiungeva qualche cosa indeterminata di più, perché le era stato detto
tante volte: - tu non sarai una monaca come le altre -. Ma ella s'accorse con
maraviglia, e non senza confusione, che alcune delle sue compagne non sentivano
punto d'invidia di questo suo avvenire; e alle immagini circoscritte e scarse
che può somministrare anche ad una fantasia adolescente il primato in un
monastero, opponevano le immagini varie e luccicanti di sposo, di palagi, di
conviti, di villeggiature, di veglie, di tornei, di abiti, di carrozze, di
livree, di braccieri, di paggi.
Queste immagini produssero nel cervello di Geltrudina quel movimento, quel
ronzio, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori, appena colti,
collocato davanti ad un'arnia. Sulle prime ella volle competere con le compagne,
e sostenere la superiorità della condizione, che le era destinata; ma quanto più
ella cercava di magnificare le sue dignità future, tanto più le esponeva ad un
terribile genere di offesa, il ridicolo; sentimento che quelle spavalducce
applicavano più naturalmente e più saporitamente alle dignità che vantava
Geltrude, appunto perché le vedevano esercitate dalle loro superiore; sorta di
persone per le quali la puerizia prova così facilmente l'ammirazione, come lo
scherno. E quel che è peggio, Geltrudina non poteva rivolgere le stesse armi
contro le avversarie, perché le ricchezze e la voluttà non sono di quelle cose
delle quali si ride in questo mondo: si ride bensì di chi le desidera senza
poterle ottenere, e di chi ne usa sgraziatamente; e questo ridere mostra l'alta
estimazione in cui sono tenute le cose stesse: quei pochi che non le stimano,
non esprimono il loro giudizio con la derisione.
Geltrudina quindi per non restare al disotto non aveva altro a rispondere, se
non che, ella pure avrebbe potuto pigliarsi uno sposo, abitare un palagio,
essere strascinata, servita, corteggiata, che lo avrebbe potuto, se lo avesse
voluto, che lo vorrebbe, che lo voleva; e lo voleva infatti. Quell'idea che le
stava rannicchiata in un angolo della mente, che il suo assenso era necessario
perch'ella fosse monaca, e che questo assenso dipendeva da lei, si svolse
allora, e divenne perspicua e predominante. Con questo pensiero ella si teneva
bastantemente sicura, ma non senza covare un sentimento d'invidia e di rancore
contra quelle sue compagne le quali erano ben altrimenti sicure, e ch'ella
avrebbe amate se la loro condizione non le fosse stata ad ogni momento un
confronto doloroso. Perché questa sventurata non aveva un animo ostile, non si
dilettava naturalmente nell'odio; ma le sue passioni erano tanto violente e
tanto delicate, ella le idolatrava tanto, che tutto ciò che poteva essere ad
esse di ostacolo, offenderle, contristarle, diveniva per lei oggetto di
avversione, e sarebbe stato vittima del suo furore quand'ella avesse potuto
impunemente sfogarlo. In questo stato di guerra mentale giunse Geltrudina a
quella età così critica, che separa l'adolescenza dalla giovinezza; a quella
età, in cui una potenza misteriosa entra nell'animo, solleva, ingrandisce,
adorna, rinvigorisce, raddoppia di forza tutte le inclinazioni e tutte le idee
che vi trova. Assoluta innocenza di pensiero; massime e pratiche di Religione
ragionata; occupazioni utili e interessanti, esercizj frequenti e dilettevoli
del corpo, confidenza rispettosa e libera nei parenti o negli educatori, sono i
mezzi sicuri per trascorrere impunemente quella età perigliosa, e per formare
una mente tranquilla, saggia, e forte contra i pericoli della giovinezza e di
tutta la vita. Ma le circostanze della povera Geltrude erano ben diverse: tutto
tendeva per essa a realizzare ogni pericolo di quella età e a renderla
turbolenta, e funesta per l'avvenire. Pochissimi lavori, e lo studio del canto
sopra parole d'una lingua sconosciuta, non erano esercizj che potessero
impadronirsi della mente di Geltrude, e trattenerla dal vagare in un mondo
ideale. Gli esercizj corporali consistevano in un giro quotidiano dell'orto
claustrale. La confidenza e la comunicazione delle idee era quale può trovarsi
con persone le quali non pensano a conoscere un animo per dirigerlo nella sua
scelta, ma a fissarlo in una scelta già destinata.
E, quanto alla Religione, ciò che è in essa di più essenziale, di più intimo,
ciò che fa resistere alle passioni, e vincerle con una dolcezza superiore
d'assai a quella che le passioni soddisfatte possono arrecare, ciò che preserva
dalla corruttela, e mette in avvertenza anche contra i pericoli non conosciuti,
non era stato mai istillato né meno insegnato alla picciola Geltrude; anzi il
suo intelletto era stato nodrito di pensieri opposti affatto alla Religione. Non
vogliamo qui parlare di alcuni pregiudizj, che a quei tempi principalmente si
ritenevano per verità sacrosante, e s'insegnavano insieme con le verità,
pregiudizj non del tutto estirpati, e Dio sa quando lo saranno, pregiudizj
dannosi principalmente perché nella mente di molti associano all'idea della
Religione quella della credulità e della sciocchezza, e dei quali perciò ogni
onesto deve desiderare e promovere la distruzione; ma pregiudizj che in gran
parte non tolgono l'essenziale, e si possono combinare con un sentimento di
pietà profonda e sincera, e con una vita non solo innocente, ma operosa nel
bene, e sagrificata all'utile altrui, del che tanti esempj hanno lasciati i
tempi trascorsi, e ne offrono fors'anche i presenti.
Ma, come abbiamo veduto, i parenti di Geltrude l'avevano educata all'orgoglio, a
quel sentimento cioè che chiude i primi aditi del cuore ad ogni sentimento
cristiano, e gli apre a tutte le passioni. Il padre principalmente, che aveva
destinata questa poveretta al chiostro prima di sapere s'ella sarebbe stata
inclinata a chiudervisi, s'aveva talvolta pur fatta tra sè e sè questa
obbiezione, che forse Geltrude non vi sarebbe stata inclinata: caso difficile,
ma non impossibile; e contra il quale era d'uopo premunirsi. Supponendo adunque
che Geltrude allettata dalla vita del secolo avesse voluto rimanervi, bisognava
trovar qualche cosa che la allettasse ad abbandonarlo, per non usare della
semplice forza, mezzo di esito incerto, sempre odioso, e che poteva lasciar
qualche dispiacere nell'animo del padre, il quale alla fine non desiderava che
la sua figlia fosse infelice, ma semplicemente ch'ella fosse monaca. Il Marchese
Matteo non era uomo di teorie metafisiche, di disegni aerei: non aveva perduto
il suo tempo sui libri, ma conosceva il mondo, era un uomo di pratica, quel che
si chiama un uomo di buon senso; teneva che bisogna prendere gli uomini come
sono, e non pretendere da essi gli effetti di una perfezione ideale; e che senza
l'interesse l'uomo non si determina a nulla in questo mondo. Così per prevenire
all'interesse che il secolo poteva offrire a Geltrude, egli si era studiato di
far nascere nel suo cuore quello della potenza e del dominio claustrale. Egli
aveva pensato ed operato colla dirittura e colla sapienza squisita d'un uomo il
quale desse il fuoco alla casa di un nimico posta a canto alla sua, con la
intenzione che quella sola dovesse andare in fumo ed in faville. Ma il fuoco
appiccato ch'ei sia non si lascia guidare dalle intenzioni dell'incendiario, va
dove il vento lo spinge, e si trattiene a divorare dove trova materia
combustibile; e le passioni svegliate una volta non ricevono più la legge di chi
le ha ispirate, ma si volgono agli oggetti che la mente apprende come più
desiderabili. L'orgoglio di giovane vagheggiata, adorata, supplicata con umili
sospiri, di sposa ricca e fastosa, di padrona che comanda a damigelle ed a paggi
ben vestiti, era ben più dolce che l'orgoglio di madre badessa, e in quello
tutta s'immerse la fantasia orgogliosa di Geltrudina. Cominciò dunque a far
castelli in aria, a figurarsi un giovane ai piedi, a levarsi spaventata, e
fuggire dicendo: - come ha ella ardito di venir qui? - e non ricordava più che
il giovane senza una sua chiamata non sarebbe certo venuto a disturbarla. Ma
quella fuga e quell'asprezza non erano a fine di scacciarlo daddovero: il
giovane non perdeva coraggio; nascevano nuovi casi, e tutto finiva col
matrimonio, come la più parte delle commedie. Richiamava alla memoria quel poco
che aveva veduto dei passeggi della città, e vi girava in carrozza, innanzi
indietro; ripensava la casa domestica, le anticamere, le livree, il comando, e
rifaceva tutto per suo uso, ma in un modo più splendido. Questi pensieri
l'assediavano nel dormitorio, nel refettorio, nell'orto, nel coro; ella
confrontava col brillante di essi, lo squallido che aveva sott'occhio, e si
confermava sempre più nel proposito di non dire quel «sì» che si aspettava da
lei.
Le monache si accorsero di questa sua risoluzione ch'ella non cercava nemmeno di
nascondere affatto; poiché malgrado la fermezza di questa risoluzione,
Geltrudina rifuggiva con tremito dall'idea di manifestarla al padre di sua
bocca; e desiderava ch'egli ne fosse prevenuto d'altra parte: poiché in quel
caso non le restava che di sopportare la collera e le minacce del padre;
operazione passiva che le pareva molto più facile, che di pronunziare quelle
parole: «non voglio». La poverina faceva come colui che avendo da dire qualche
cosa di spiacevole a qualcheduno, piglia la penna, e gli manda le sue idee in un
bel foglio di carta. Ma se la determinazione traspariva, i motivi erano celati
alle monache; Geltrude li nascondeva sotto quell'aspetto di indifferenza che la
faccia dei giovanetti presenta quasi sempre all'occhio di chi comanda loro; essa
li nascondeva con quella dissimulazione profonda che è data a quella età, e che
forse non ritorna più in nessuna altra epoca della vita, e che appena appena
potrà aver riconquistata un diplomatico di ottant'anni, se, come si dice, gli
uomini di questa professione sono i più esercitati a nascondere i loro pensieri.
Con le compagne Geltrude era manco coperta, e se esse avessero voluto o saputo
osservare, dalle materie più frequenti del suo discorso, dall'entusiasmo al
quale si abbandonava talvolta, dalla sua picciola stizza se non altro nella
quale l'invidia era trasparente, avrebbero potuto conoscere qualche cosa
dell'animo suo: qualche cosa, perché nei sogni caldi ed arditi della pubertà v'è
una parte di stranio, di fantastico, di individuale che non si confida, né
s'indovina, a quel che dice il manoscritto.
Venne finalmente il momento di levare Geltrude dal monastero, e di ritenerla per
qualche tempo nella casa e nel mondo. Il passo era spiacevole assai pel Marchese
Matteo, ma inevitabile, perché una ragazza allevata in un monastero non poteva
far la domanda di esservi ammessa ai voti se non dopo esserne stata fuori per
qualche tempo. Era questa una formalità destinata ad assicurare alle figlie la
libera scelta dello stato; giacché ognun vede che sarebbe stato troppo facile di
fare abbracciare il monastico ad una giovane, che rinchiusa nel chiostro
dall'infanzia non avesse mai avuta idea di altro modo di vivere.
Nessuno ignora che le formalità sono state inventate dagli uomini per accertare
la validità di un atto qualunque; assegnando anticipatamente i caratteri che
quell'atto deve avere per essere un atto daddovero. Invenzione che mostra affè
molto ingegno: invenzione utile, anzi necessaria, perché la più parte delle
quistioni che si fanno a questo mondo sono appunto per decidere se una cosa sia
fatta o non fatta. Ma tutte le invenzioni dell'ingegno umano partecipando della
sua debolezza non sono senza qualche inconveniente: e le formalità ne hanno due.
Accade talvolta che dove gli uomini hanno deciso che una cosa non può esser
realmente fatta che nei tali e tali modi, la cosa si fa realmente in modi tutti
diversi e che non erano stati preveduti. In questo caso, la cosa non vale, anzi
non è fatta. E non andate a farvi compatire da un sapiente col volergli
dimostrare che la è fatta; egli lo sa quanto voi; ma sa qualche cosa di più,
vede nella cosa stessa una distinzione profonda; vede, e vi insegna che la cosa
materialmente è fatta, legalmente non è.
Dall'altra parte accade pure, che dopo essere stato dagli uomini predetto,
deciso, statuito che, dove si trovino i tali e tali caratteri esiste certamente
il tal fatto, si sono trovati altri uomini più accorti dei primi (cosa che pare
impossibile eppure è vera) i quali hanno saputo far nascere tutti quei caratteri
senza fare la cosa stessa. In questo secondo caso bisogna riguardare la cosa
come fatta; e darebbe segno di mente ben leggiera e non avvezza a riflettere, o
di semplicità rustica affatto colui che, ostinandosi ad esaminare il merito,
volesse dimostrare che la cosa non è. Guaj se si desse retta a queste chiacchere,
non si finirebbe mai nulla, e si andrebbe a pericolo di turbare il bell'ordine
che si ammira in questo mondo. Ma questi caratteri, se non infallibili, sono
almeno stati scelti dopo accurate osservazioni, senza passioni, né secondi fini,
in tempi nei quali gli uomini fossero abbastanza esercitati nel riflettere su
quello che vedevano per circostanziare i fatti che dovevano essere dopo di loro?
Ah! qui è la quistione; ma per trattarla con qualche fondamento converrebbe fare
la storia del genere umano; dal che ci asteniamo, e perché a dir vero, non
l'abbiamo tutta sulle dita, e perché siamo per ora impegnati a raccontare quella
di Geltrude, in quanto ella è necessaria a conoscere la storia ancor più vasta
degli sposi promessi.
Per accertare adunque la libera e reale vocazione d'una figlia al chiostro, era
prescritto che ella ne stesse assente per qualche tempo; ed era consuetudine che
in questo tempo ella dovesse esser condotta a vedere spettacoli, ad assaggiare
divertimenti, per conoscere ben bene quello a cui doveva rinunziare per farsi
monaca. E prima di vestir l'abito, doveva essere esaminata da un ecclesiastico,
il quale con interrogazioni opportune ricavasse se non le era fatta forza, e se
ella non si faceva illusione, se il suo proposito era insomma libero e
ragionato. Queste formalità però avevano certamente il secondo inconveniente di
cui abbiamo parlato; tutto poteva andare in regola, e la giovinetta infelice
chiudersi contra sua voglia. La cosa poteva accadere in molti modi: ch'ella sia
talvolta accaduta è un fatto troppo noto, e troppo vero: chi volesse
ostinatamente negarlo, abbia almeno la discrezione di non affermar mai di quelle
verità che sono contrastate, perché la sua affermazione diverrebbe un argomento
di più contro di esse.
Benché Geltrudina sapesse benissimo ch'ella andava ad un combattimento, pure il
giorno della uscita dal monastero, fu un giorno ben lieto per lei. Oltrepassare
quelle mura, trovarsi in carrozza, veder l'aperta campagna, e quel ch'è più
entrare nella città, furono sensazioni più forti che non fosse il pensiero dei
contrasti che aveva a sopportare. Per uscirne vittoriosa aveva la poveretta
composto un piano nella sua mente. - O vorranno ottenere il loro intento colle
buone, diceva ella tra sè, o mi parleranno brusco. Nel primo caso io sarò più
buona di essi, pregherò, li moverò a compassione: finalmente non domando altro
che di non essere sagrificata. Nel secondo caso, io starò ferma; il «sì» lo
debbo dire io, e non lo dirò.
- Ma, come accade talvolta anche ai comandanti di eserciti, non avvenne né l'una
né l'altra cosa ch'ella aveva pensata. I parenti avvertiti dalle monache delle
disposizioni di Geltrude, furono serj, tristi, burberi; e non le fecero per
qualche tempo nessuna proposizione né con vezzi, né con minacce. Solo dal
contegno di tutti traspariva che tutti la riguardavano come rea, e da qualche
parola sfuggita qua e là s'intravedeva che la riguardavano come rea, non già di
ricusarsi al chiostro, delitto che non poteva nemmeno venire in capo ad alcuno
della famiglia, ma di non avviarvisi con buona grazia. Così ella non trovava mai
un varco per venire alla dichiarazione che era pure indispensabile; e i modi
secchi, laconici, altieri che si usavano con lei non le davano nemmeno il campo
di potere avviare un discorso fiduciale ed amichevole il quale di passo in passo
la conducesse a toccare il punto sul quale ella ardeva di spiegarsi, o almeno di
farsi intendere. Che s'ella sofferendo pazientemente qualche sgarbo, si ostinava
pure a volere famigliarizzarsi con alcuno della famiglia, se senza lamentarsi
implorava velatamente un po' di amore, se si abbandonava ad espressioni
confidenziali, e affettuose, ella si udiva tosto gittar qualche motto più
diretto e più chiaro intorno alla elezione dello stato: le si faceva sentire che
l'amore della famiglia non era cessato per lei, ma sospeso, e che da lei
dipendeva l'esser trattata come una figlia di predilezione. Allora ella era
costretta a ritirarsi, a schermirsi da quelle tenerezze che aveva tanto
ricercate, e si rimaneva con l'apparenza del torto. Si accorava e si andava
sempre più perdendo d'animo: il suo piano era scompaginato, e non sapeva a qual
altro appigliarsi, pure aspettava. Ma il non veder mai un volto amico, ma le
immagini tristi, e direi quasi terribili delle quali era circondata la rendevano
sempre più inclinata a ritirarsi in quel cantuccio ameno e splendido che ognuno,
e i giovani particolarmente, si formano nella fantasia, per fuggire dalla
considerazione di oggetti che attristano. Ritornava ella dunque più che mai a
quei suoi sogni del monastero, e si creava fantasmi giocondi coi quali
conversare. Ma i fantasmi non acquistavano forma reale; ella era tenuta ritirata
quanto nel monastero perché il tempo dei divertimenti doveva venir dopo quella
domanda ch'ella non aveva fatta e che era risoluta di non fare. Rinchiusa per
una gran parte del giorno con le donzelle, allontanata dalla sala ogni volta che
una visita vi si presentasse, non mai condotta in altre case, come avrebb'ella
mai potuto vedersi ai piedi quel tal giovane del monastero, che, senza contare
tutte le altre difficoltà, non era a questo mondo? Era questo il suo maggiore,
anzi l'unico suo difetto, giacché del resto, bellezza, grazia, ricchezza,
nobiltà, eloquenza, sincerità, costanza, e sopra tutto appassionatezza, nulla
gli mancava. V'era rischio per altro che s'egli tardava troppo ad esistere
l'immaginazione di Geltrude, stanca di aggirarsi nel vuoto gli trasferisse la
bontà che aveva per lui, al primo ente reale che non fosse troppo diverso da
questo immaginato da rendere impossibile lo scambio.
L'occasione si presentò in fatti, e fu fatale a Geltrude. Noi ommettiamo i
particolari di questo sciaurato affare, diremo soltanto che la prima lettera di
risposta ch'ella aveva scritta ad un paggio della Marchesa, cadde in mano di
questa, fu tosto consegnata al Marchese Matteo, e che il trambusto in casa fu,
come era da aspettarsi, strepitoso.
Il paggio fu sfrattato immediatamente, com'era giusto; ma il Marchese Matteo che
aveva idee molto larghe sul giusto in ciò che toccava il decoro della sua
famiglia, intimando di sua bocca la partenza al ragazzaccio, per non aumentare
il numero dei confidenti, gl'intimò nello stesso tempo che se egli si fosse in
alcun tempo lasciato sfuggire una paroluzza sulla debolezza di donna Geltrude,
la sua vita avrebbe scontato questo secondo delitto, e che non vi sarebbe stato
asilo per lui. Queste minacce erano a quei tempi molto frequenti, e facevano
pure colpo assai, perché ognuno era avvezzo a vederne molte ridotte ad effetto.
Ciò non di meno per esser più certo della segretezza del paggio il Marchese
Matteo nel forte del rabbuffo gli appoggiò due solennissimi schiaffi, pensando a
ragione che il paggio sarebbe stato meno tentato di raccontare un'avventura, la
quale per una parte poteva lusingare la sua vanità, quando ella avesse finito
con un incidente doloroso e umiliante. Alla donna di casa che aveva intercettato
il corpo del delitto furono date molte lodi, e nello stesso tempo una
prescrizione di segretezza, non accompagnata da minacce, ma in termini che le
fecero comprendere che questa segretezza era del massimo interesse anche per
lei.
Ma il temporale più scuro, più lungo, più terribile venne a scendere sul capo di
Geltrude. Il Marchese Matteo dopo d'averla caricata di strapazzi, ch'ella intese
con tanto più di tremore, quanto si sentiva veramente colpevole, le annunziò una
prigione indeterminata nella sua stanza, e per sopra più le parlò d'un castigo
proporzionato alla colpa, senza specificarlo, e così la lasciò in guardia alla
stessa donna che aveva scoperti gli altari.
Geltrude aspreggiata, rinchiusa, minacciata, in una situazione che sarebbe stata
dolorosa anche alla coscienza più illibata, si trovava anche la memoria del
fallo, che basta a rattristare la situazione la più gioconda, e l'animo suo fu
prostrato. Non sapeva prevedere come né quando, la cosa sarebbe finita, si
aspettava ad ogni momento il castigo incognito e per ciò più terribile; l'essere
come sbandita dalla famiglia le era un peso insopportabile, e nello stesso tempo
l'idea di rivedere il padre, o di vedere la madre, il fratello la prima volta
dopo il suo fallo la faceva trasalire di spavento. In questa agitazione continua
si svolse, e si accrebbe nell'animo suo un sentimento nativo in tutti, ma più
forte in lei per indole e reso ancor più forte dalla educazione, il timore della
vergogna: sentimento non solo onesto, ma bello, ma essenziale; sentimento però
che come tutti gli altri può diventare passione violenta e perniciosa quando non
sia diretto dalla ragione, ma nutrito di orgoglio. La sola idea del pericolo che
la sua debolezza, la sua debolezza per un paggio, per una persona meccanica,
fosse risaputa da alcuna delle sue antiche superiore, da una sua compagna, da un
congiunto della casa, questa idea le era più terribile, più odiosa, della
prigione, dell'ira dei parenti, del fallo stesso.
Ella sentiva che con la minaccia di svergognarla così, si sarebbe potuto ottener
da lei quello che si fosse voluto. E sentiva nello stesso tempo quanto fosse
peggiorata la sua condizione per la scelta dello stato: giacché il primo
requisito per poter resistere alle lusinghe e alle violenze era, avrebbe dovuto
essere di non aver nulla da rimproverarsi.
La compagnia della sua guardiana non le era certo di alcun sollievo nella sua
ritiratezza angosciosa. Ella vedeva in quella donna il testimonio della sua
colpa, e la cagione della sua disgrazia, e la odiava. E la donna non amava la
fumosetta, per cui era costretta a far vita da carceriera poco dissimile da
quella di carcerata, e che l'aveva resa depositaria d'un segreto pericoloso. La
conversazione era quindi fra di esse quale può risultare dall'odio reciproco.
Non restava a Geltrude la trista e funesta consolazione dei sogni splendidi
della fantasia: perché questi sogni erano tanto in opposizione col suo stato
reale, e con l'avvenire il più probabile, e quelle immagini erano tanto legate
con la sua sciagura, che la mente li rispingeva con incredula avversione, e
ricadeva come un peso abbandonato, nella considerazione delle circostanze reali.
Cominciò quindi a dolersi davvero di ciò che aveva fatto, a paragonare la vita
che menava prima del suo fallo con quella che strascinava in allora, e a trovare
la prima soave, a rammaricarsi di non averla saputa conoscere. L'immagine di
colui al quale il suo cuore sgraziato e leggiero si era abbandonato un momento
gli compariva accompagnata di tanti dispiaceri che aveva perduta ogni forza
sulla sua fantasia. Tanto è vero che all'amore per signoreggiare un animo,
bisogna un poco di buon tempo, e che le faccende gravi, e le grandi sciagure gli
spennacchiano le ali, e gli spezzano i dardi, se ci si permette una frase,
invero troppo poetica, ma che spiega tanto bene ciò che accade realmente
nell'animo. Scacciato dal cuore questo nimico, il quale a dir vero non vi aveva
preso gran piede, raffreddata alquanto l'ira dalla tristezza e dal timore di
peggio, e dal pensare che al fine il castigo era meritato, il pentimento di
Geltrude cominciò ad essere più dolce, divenne un sollievo. Pensò ella al
perdono che si ottiene con quello, e si rallegrò, pensò che ciò ch'ella soffriva
poteva essere una espiazione, e tutto le parve più leggiero. Si diede quindi
tutta ad una divozione la quale in parte era un sentimento intimo e retto
dell'animo, in parte un fervore della fantasia. Le tornava allora alla mente il
chiostro, e una vita quieta, onorata, lontana dai pericoli, la dignità di
monaca, e quella benedetta pompa di badessa, e quella benedetta boria di essere
la più nobile del monastero, ultimo rifugio della sua superbiuzza, le parve un
zucchero in paragone dello stato di umiliazione, di prigionia, di disprezzo nel
quale si trovava. L'avversione nutrita per tanto tempo a quella condizione le
risorgeva pure con tutte le sue immagini, ma ella le pigliava per tentazioni, e
le combatteva. In questa incertezza, ella desiderava di rivedere il padre, di
rivederlo con una faccia diversa da quella di cui le rimaneva una immagine
terribile, e dolorosa, di avere il suo perdono, di essere riammessa nella
famiglia.
Dopo molto combattimento, prese la penna, e scrisse al padre una lettera piena
di entusiasmo e di abbattimento, di afflizione e di speranza, nella quale
chiedeva istantemente ch'egli la visitasse, e gli lasciava intravedere ch'egli
rimarrebbe contento di lei. Non già ch'ella avesse presa una risoluzione, ma non
poteva più reggere alla solitudine e alla proscrizione, e sperava confusamente
che in quel colloquio la risoluzione si sarebbe fatta per lo meglio.