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Fermo e Lucia
Tomo 2
CAPITOLO IV
Appena cessati gl'inchini che dalla carrozza si dovevano
fare in risposta alle riverenze delle suore che stavano sulla soglia a veder
partire i signori, e la nuova sorella, appena messo in moto il cigolante
carrozzone, Geltrude fu assalita da nuovi complimenti sul modo con cui si era
portata, sul suo contegno, sull'ammirazione che aveva eccitato nelle monache,
sul giubilo di queste per l'acquisto che facevano, e per conseguenza sulla
felicità di che Geltrude avrebbe goduto in loro compagnia. Ma tutti gli elogi
non furono per Geltrude. La Marchesa sbadigliando parlò con ammirazione della
badessa: «Come s'è portata!» diss'ella «non mi aspettava tanto; ah! che
contegno! aah! che dignità! aaah! che disinvoltura!»
«Sì, sì»: rispose il Marchese, «ma! Geltrude sarà altra cosa». Il discorso
sarebbe durato fino all'arrivo in città, se il Marchesino che ne era nojato non
l'avesse troncato per parlare dei divertimenti che Geltrude doveva godere
nell'intervallo fra la domanda e l'accettazione. E qui come conoscitore
espertissimo di tutto ciò che nella città e nei contorni era degno da vedersi,
egli ne anticipò a Geltrude larghe e variate descrizioni; e le parlò di molte
sposine ch'egli aveva incontrate nelle brigate, senza risparmiare la storia di
qualche grossa semplicità di taluna di esse, che aveva molto dato da ridere. Il
Marchese lasciava chiaccherare il figlio, perché in questa faccenda egli aveva
più da fare che da dire, e tutto ciò che gli risparmiava una occasione di
discorso, lo toglieva da un impaccio: quanto alla Marchesa, malgrado i trabalzi
che una carrozza di quei tempi dava in una strada di quei tempi, ella dormiva
saporitamente: cosa che non sorprenderà chi sappia che cosa vuol dire essere
svegliato tre ore prima del solito, e per occuparsi in cosa indifferente.
La Marchesa fu desta dal rimbombo dell'atrio di casa, e dall'improvviso fermarsi
della carozza. Scesi, e salite le scale, il Marchese intimò alla madre e alla
figlia che prima del pranzo dovessero porsi in assetto per andar subito dopo a
restituire la visita alle dame che avevano favorito la sera antecedente. Detto e
fatto; l'acconciatura, il pranzo, le visite si succedettero senza interruzione;
e la solita conversazione terminò la giornata. Dopo cena il Marchese pose in
campo il discorso dei divertimenti che si dovevano dare a Geltrude, e delle
conversazioni dove ella aveva ad esser presentata come sposina. «Bisognerà
pensare senza ritardo», soggiunse egli, «a scegliere per Geltrude una madrina
degna della nostra casa». La madrina, mio giovane lettore, era una dama
incaricata di condurre la sposina ai divertimenti, alle conversazioni, di
presentarla, e di vegliare sovr'essa. Siccome il Marchese proferendo quelle
ultime parole s'era voltato verso la Marchesa come invitandola a proporre la
dama che le fosse paruta più a proposito (atto per parentesi che il Marchese
faceva rarissimo) la Marchesa cominciò tosto: «Vi sarebbe...» «No no»,
interruppe il Marchese, «la prima condizione d'una madrina è ch'ella vada a
genio della sposina; e benché l'uso universale e ragionevole dia questa scelta
ai parenti, pure Geltrude ha tanto giudizio che merita che si faccia una
eccezione per lei». E qui rivolto a Geltrude col piglio di chi fa una grazia
singolare, continuò: «Ognuna delle dame che avete visitate questa mattina, e di
quelle che si sono trovate questa sera alla conversazione, ha le condizioni
necessarie per esser madrina d'una figlia della nostra casa, e ognuna si terrà
onorata di esser preferita: scegliete».
Geltrude incerta com'era, e stanca e indispettita dei passi che le si facevano
fare sulla via del chiostro, non avrebbe voluto far nulla: ma la grazia era
offerta con tanto apparato ch'ella s'avvide che il rifiuto sarebbe stato preso
per un disprezzo; e nello stesso tempo non volle perdere quel qualunque
vantaggio che le dava il potere scegliere. Nominò dunque la dama che in quel
giorno le era più dell'altre piaciuta, quella cioè che le aveva fatte più
carezze d'ogni altra, che l'aveva lodata più d'ogni altra, che nell'accoglierla
e nel conversare con lei le aveva mostrato tutto quell'aggradimento, quella
famigliarità, quell'affetto che alle volte in una prima conoscenza imita i modi
d'una antica amicizia. La dama scelta da Geltrude aveva da lungo tempo fatto
assegnamento sul fratello di Geltrude per farne il marito d'una sua figlia
ch'ella amava assai. «Ben scelto, ben scelto», disse il Marchese: «e Lei»,
proseguì verso la Marchesa, «andrà domani a farne la domanda alla dama; e si
ricordi di dire che la scelta è stata fatta da Geltrude: che son certo che la
dama aggradirà doppiamente la domanda».
Noi non terremo dietro a Geltrude nei divertimenti, e nelle conversazioni a cui
fu condotta o strascinata; né racconteremo tutte le impressioni e i sentimenti
dell'animo suo in queste spedizioni; poiché dovremmo ripetere tante volte la
stessa cosa, quante furono le fluttuazioni, le risoluzioni, i pentimenti, i sì e
i no della sua mente, che furono infiniti.
Talvolta la pompa degli addobbi, lo splendore delle feste, la musica che non
esprime alcuna idea, e ne fa nascere a migliaja, quella esaltazione di gioja che
appare negli uomini radunati per divertirsi, e per dir tutto le qualità auree di
qualche giovane cavaliere che s'indovinavano al solo vederlo, le comunicava una
certa ebbrezza, una specie di entusiasmo che le faceva proporre di soffrire ogni
cosa piuttosto che di tornare all'ombra trista e fredda del chiostro. Talvolta
lo stordimento, la fatica, la seccaggine dell'udire e la contenzione del
rispondere le faceva parer dolce quel silenzio e quella pace. Si destava
talvolta piena ancora delle immagini splendide del giorno trascorso; pensava al
passo irrevocabile che stava per dare, e diceva tra sè: - Oh che sproposito! -
si sentiva un coraggio a tutta prova, e prometteva di tornare indietro. La
presenza del padre, o del Marchesino, una cosa qualunque da farsi raffreddavano
quel primo impeto; il quale alla sera si trovava talvolta cangiato in un pieno
abbattimento. Tornavano allora alla mente le difficoltà, si pensava allora che
se anche resistendo si avrebbe potuto schivare il chiostro, non era da sperarsi
il viver lieto del quale allora si gustava una parte: perché si era in colpa,
perché tutta la bonaccia presente non era assicurata che da un perdono, e il
perdono dalla risoluzione di pigliare il velo. Come sarebbero andate le cose, se
la risoluzione si fosse ritrattata? e con quali parole ritrattarla? come
cominciare? da che? Geltrude ritirava lo sguardo da questo mare in tempesta, e
rivolgendolo allora al chiostro, il chiostro le pareva un porto.
Coltivava ella allora i sentimenti pii che potevano far piacere il chiostro a
chi l'avesse scelto volontariamente, e in quelli cercava di riposare. Quando
dopo questi momenti ella si trovava con la famiglia, o con altri, diceva
spontaneamente e con aria di posata fermezza, parole che dovevano far credere
che la sua scelta era liberissima. Tutte le volte poi ch'ella era posta in una
circostanza nella quale ciò ch'ella doveva fare o dire doveva essere un nuovo
attestato di questa sua scelta, ella faceva e diceva ciò che lo poteva far
credere, ciò che la impegnava sempre più. Benché alcune volte in quelle
circostanze, ella sentisse una manifesta ripugnanza all'impegnarsi davantaggio,
quantunque ella vedesse chiaramente che ciò ch'ella stava per fare le rendeva
più e più difficile il retrocedere, pure il dire o fare il contrario l'avrebbe
posta tutt'ad un tratto in una situazione così dura e così difficile, ch'ella
non poteva né pure pensare di farlo. Ella era come chi trovandosi sur un ripido
pendio, vedesse all'ingiù sotto di sè un picciol passo da farsi, e quindi un
luogo di riposo, e volgendosi indietro per guardare alla via che bisognerebbe
fare per risalire vedesse il principio d'una erta, lunga, dirotta, disastrosa. E
la povera Geltrude non dava passo che per discendere. Ma siccome chi nuoce a se
stesso nell'avvenire per timore di nuocersi nel momento presente, non vuol mai
confessare a se stesso tutto il male che si fa, né darsi così tosto per perduto,
e ad ogni male che si fa, si consola con l'idea d'un rimedio, così anche
Geltrude aveva trovato nella via che le restava da percorrere un momento di più
forte speranza. Questo momento era quello dell'esame che un ecclesiastico
deputato dal vicario delle monache doveva fare della sua vocazione; esame nel
quale ella si sarebbe trovata sola con lui, e nel quale ella si teneva certa che
qualche occasione si sarebbe offerta per potere svilupparsi da quel laccio, se
laccio era, e in ogni caso, di conoscere ella stessa più chiaramente il suo
animo, di deliberare sulla sua scelta più posatamente, più sicuramente, di
quello che potesse fare coi parenti già risoluti senza deliberazione, e coi suoi
pensieri troppo agitati, troppo confusi, troppo inesperti per deliberare.
Il momento che Geltrude desiderava non senza qualche terrore, il Marchese lo
affrettava con istanze, perché, come si è detto, egli era uomo esperimentato, e
sapeva che a volere che un affare sia spicciato, bisogna muoversi; e il momento
venne. Un bel mattino il Marchese annunziò a Geltrude che in quel giorno il
Signor... ecclesiastico mandato dal vicario delle monache, verrebbe ad esaminare
la sua vocazione. Ma come quella conferenza avrebbe avute conseguenze serie, e
Geltrude vi doveva esser sola con l'ecclesiastico, così il Marchese stimò che
fosse necessario aggiungere all'annunzio qualche avvertimento che lasciasse una
impressione nell'animo della figlia, e le servisse di compagnia e di guardia
nell'assenza forzata d'ogni altro custode.
«Orsù, Geltrude», diss'egli; «finora voi vi siete diportata da angelo: ora si
tratta di coronar l'opera. Oggi voi dovete fare un gran passo; pensate che da
esso dipende l'onore di vostro padre, della famiglia, il vostro, e il vostro
destino di tutta la vita. Tutto quello che si è fatto finora, si è fatto di
vostro consenso, anzi a vostra richiesta. Se in tutto questo frattempo vi fosse
nato qualche pentimento, qualche dubbio, avreste dovuto manifestarlo; ma ora,
voi ben vedete che non è più tempo di far ragazzate. Io mi sono impegnato, in
faccia al mondo, e mi sono impegnato perché voi mi avete dato motivo di credere,
di esser certo che poteva impegnarmi senza rischio di avere una smentita.
Ricordatevi che la più picciola esitazione che voi potreste mostrare oggi, mi
porrebbe nella necessità di scegliere fra due partiti dolorosi: o di rinunziare
alla mia riputazione, lasciando credere che io ho presa leggermente una
leggerezza vostra per una ferma risoluzione, che ho fatte tante pubblicità senza
riflessione... che so io... che ho preteso far violenza alla vostra vocazione...
o di svelare i veri motivi della richiesta che voi avete fatta, e del vostro
pentimento. Il primo partito non può assolutamente stare con ciò che debbo a me
e alla casa. Astretto di appigliarmi al secondo, dovrei anche poi trattarvi come
una figlia colpevole, che avrebbe corrisposto al primo perdono con un'altra
gravissima colpa...»
Il tuono solenne e misterioso con cui il Marchese aveva cominciato il suo
discorso aveva già messa in apprensione Geltrude: e nella angoscia
dell'aspettazione i tratti del suo volto erano immobili, tesi, ravvolti come le
foglie d'un fiore nell'afa che precede la burasca: ma la gragnuola assidua e
crescente di quelle parole minacciose percotendola, la abbattè affatto, e la fè
sciogliere in uno scoppio di pianto. «Via via... che è stato?» disse
avvedendosene il Marchese, il quale era in quella faccenda tanto occupato delle
conseguenze che ella poteva avere per lui che non pensava che ella potesse
toccare altri tanto sul vivo. «Che è stato? io ho parlato in una supposizione
impossibile... pure doveva pensare anche ad un tal caso... per quanto giudizio
abbiate, io doveva mettervi in avviso sull'importanza delle risposte che oggi
siete per dare. Il Signor... vi domanderà se la vostra risoluzione è libera, se
i parenti non vi hanno comandato, consigliato... che so io?... ed io doveva
avvisare di pesare ben bene la risposta, perché ella sia tale da non pormi nella
necessità, di farne un'altra io, e... ma via, via, le son ciarle; voi farete il
vostro dovere da brava, come avete fatto finora; e non si parlerà tra di noi che
di consolazioni. Via non piangete, ricomponetevi, io vi lascio sola:
rasserenatevi, non fate che il Signor... vi trovi in uno stato che possa dare
dei sospetti... mi fido di voi». Così dicendo partì, lasciando Geltrude a tutta
l'agitazione che poteva dare un tal discorso ad una giovane del suo carattere in
quella circostanza. Geltrude pianse amaramente, si sdegnò, volle meditare su
quello che aveva a dire; ma questa meditazione era così piena di dolori, di
incertezze, e d'angustie, che la poveretta prescelse di divertirne a forza il
pensiero, di rivolgerlo a qualche cosa di estraneo, e di aspettare il consiglio
dalla cosa stessa e dal momento. Ma qual si fosse il partito al quale ella
dovesse appigliarsi nell'abboccamento, ella stessa sentiva ripugnanza e vergogna
a presentarvisi in un aspetto che annunziasse una qualche perturbazione, e
risolvette di avere un aspetto tranquillo e decente; e lo ebbe in brevissimo
tempo. Pretendono alcuni che le figlie d'Adamo riescano molto meglio a dominare
l'espressione esterna del loro animo che l'animo stesso; e che in questa parte
riescano meglio assai che non quegli individui del genere umano che si chiamano
di preferenza uomini. Ma tutte queste quistioni di paragone tra l'un sesso e
l'altro, non saranno mai messe in chiaro, e né pure ben poste fin che gli uomini
soli ne tratteranno ex professo negli scritti: giacché essi peccano tutti verso
le donne o di galanteria adulatoria, o di ostilità grossolana. Con questa
osservazione non s'intende già di sprezzare temerariamente tante opere profonde
che sono state scritte sul merito comparativo del bel sesso, e le riflessioni
infinite e bellissime su questo argomento che sono sparse in tante altre opere;
ma per quanto una materia sia stata egregiamente trattata, è sempre lecito di
desiderare qualche cosa di più.
«Il Signor...!» A questo annunzio Geltrude balzò in piedi vergognosa, e agitata,
facendogli le accoglienze che usano le persone vergognose e agitate. Il Marchese
lo accompagnava, e dato uno sguardo a Geltrude si ritirò: la madrina passò nella
stanza vicina: la porta di comunicazione aperta in modo che ella potesse da
quella vedere e non intendere.
I lettori d'una storia hanno il privilegio di conoscere i personaggi prima di
vederli operare, di sentirli parlare; ed è questa una delle ragioni per cui la
lettura d'una storia è molte volte più chiara e meno difficoltosa che la
condotta negli affari della vita. Per servire a questo privilegio noi diremo
qualche cosa del Signor...
Era un buon uomo; e la bontà gli era sì naturale, che gli pareva la cosa la più
naturale del mondo: siccome ve n'aveva sempre nelle sue intenzioni e nelle sue
azioni, egli ne supponeva sempre nelle intenzioni e nelle azioni degli altri:
nel che il buon uomo aveva torto. Non vogliam dire con questo ch'egli avrebbe
dovuto giudicare sfavorevolmente degli altri, supporre il male, attenersi a
quell'indegno proverbio che dice, - chi pensa male pensa una volta sola -:
ohibò: questo è un eccesso più comune, e peggiore. Avrebbe dovuto lasciar di
giudicare nelle cose che non lo toccavano; e in quelle nelle quali il suo
giudizio doveva influire sulla sorte altrui, avrebbe dovuto sospenderlo fino a
tanto che da un attento esame egli avesse potuto formarlo, buono o tristo, ma
con quella maggior certezza che è data a quello stromento guasto che si chiama
ragione umana. Il caso di Geltrude mostrerà come egli avesse il torto di pensar
bene prima di pensare. Il Marchese parlandogli della figlia ch'egli aveva ad
esaminare ne aveva esaltata la pietà, l'amore del ritiro, il desiderio di
conservarsi nel chiostro per esser pura e santa. Il Signor... aveva creduto con
gioja al primo momento tutte queste cose liete; e andava a far l'esame nel quale
si trattava di decidere se la vocazione era vera o falsa colla prevenzione
dolcissima ch'ella era vera: il buon uomo si consolava di avere a sentire
l'espressione di un animo pio e fervente, di godere dello spettacolo di una
buona risoluzione, mentre avrebbe dovuto pensare ad accertarsi se la risoluzione
esisteva. - Oh! - dirà taluno, - se egli non avesse creduto al Marchese, avrebbe
dovuto supporre così di primo slancio che Geltrude era una finta, o il Marchese
un tiranno impostore. E doveva egli pensar così senza alcun fondamento? - Ohibò,
di nuovo: non doveva pensar nulla; vi pare egli cosa tanto difficile? Ma per non
averlo saputo fare, il buon uomo preparò l'animo suo nulla più che ad adempiere
una cerimonia, una formalità, e faceva tutt'altro; e doveva saperlo. Il
Signor... pregò Geltrude di riporsi a sedere, sedette, e vedendo in essa quella
leggiera perturbazione ch'era da aspettarsi in quel caso, pensò di rincorarla
con un modo scherzevole, e le disse: «Signorina, vedo che le fo paura: non me ne
maraviglio: io vengo a fare la parte del diavolo; perché ella saprà che io debbo
ora mettere in dubbio quella risoluzione che a lei forse pare certa, ferma,
irrevocabile; io debbo ora farle guardare attentamente il rovescio della
medaglia, al quale ella forse non ha mai pensato; io debbo interrogarla
minutamente, per esser certo che ella non pigli qualche illusione per
ispirazione».
«Signore», rispose Geltrude, realmente rincorata dalle parole e dal tuono del
buon uomo, «io ho desiderato ardentemente questo abboccamento. Da questo dipende
la scelta della mia vita e io spero che da ciò che io sentirò da lei, da ciò che
io le risponderò, verrò io stessa a conoscere più chiaramente quale sia la mia
vocazione».
«Bene, bene», rispose con gioja e quasi con ammirazione il Signor... «così mi
piace. Quelle proteste veementi, quelle affermazioni enfatiche alla prima sono
talvolta fuochi di paglia; fervori di fantasia. Per decidere bisogna dubitare, o
fare come se si dubitasse. La prego, per ora, si faccia forza: per quanto ella
credesse di aver risoluto, torni da capo e si metta bene in testa che si tratta
di risolvere ora. Il mio dovere è d'interrogarla su molti capi, e si compiaccia
di rispondermi con semplicità e con riflessione. Come le è venuta questa
risoluzione di abbandonare il mondo, e di farsi monaca?»
Se il buon ecclesiastico avesse avuta l'intenzione di aflliggere, di umiliare, e
di confondere Geltrude, non avrebbe potuto scegliere una interrogazione più
opportuna di questa: ma egli era ben lontano dal supporre l'effetto ch'ella
doveva produrre, e l'aveva fatta nella semplicità del suo cuore, e per adempire
alle regole del suo uficio, che la prescrivevano. Geltrude rimase come colpita:
che rispondere? parlare della cagione vera e primaria, raccontare l'istoria del
paggio?... Dio liberi! Quella storia ella voleva schivarla a tutto costo. Ma
tacendola, come spiegare la sua domanda di farsi monaca, e tutti i passi
conformi a quella domanda? Addurre violenze, minacce dei parenti? Ma non ne
avevano usate, e questa menzogna (giacché in quel momento Geltrude era disposta
a farne una, e pensava solo a scegliere quella che l'avrebbe cavata più presto
d'impaccio, e che non sarebbe stata scoperta in seguito) questa menzogna avrebbe
certamente cagionata una spiegazione, che sarebbe tutta tornata in disonore di
Geltrude. Che s'ella avesse attribuita la sua risoluzione al desiderio di
compiacere ai parenti, ai loro consigli, a leggerezza propria, la spiegazione
diventava pure inevitabile; e in quel momento le parole che Geltrude aveva
intese poco prima dal padre, le ripassarono in processione nella memoria. Le
parve dunque che il solo mezzo per uscire da quel gineprajo fosse di dare una
risposta che piacesse all'interrogante, e al padre, che non lasciasse oscurità
né punti da discutere nell'avvenire: sentì che per dare una tal risposta
bisognava mostrare che la risoluzione fosse tuttavia ferma; vide le conseguenze,
ma ci si risolse. Avvezza com'era a trarsi dalle circostanze difficili con
ripieghi che la ponevano in circostanze più difficili ancora, a consumare per
dir così il tempo avvenire per vivere in quel momento, ella cedette
all'abitudine, e alla difficoltà, mentì contra se stessa, e disse: «È la mia
vocazione: fino dai miei primi anni io mi sono sentita inclinata a servir Dio
nel chiostro lontano dai pericoli e dalle cure del mondo». Queste parole furon
porte con l'apparenza della più ferma persuasione; e l'indugio ch'ella aveva
posto al rispondere, parve al Signor... un segno una prova di riflessione
posata. E in quel momento furon contenti ambedue: egli di vedere una così buona
disposizione, ella di essere uscita d'impaccio come che fosse. Da quel momento
Geltrude non pensò nelle altre risposte che a confermare la prima; e edificò il
Signor... oltre ogni sua speranza. Quando egli le chiese se i parenti non
avessero usate minacce o troppo instanti preghiere per determinarla alla scelta
dello stato religioso... «No no»; rispose con vivacità Geltrude: «i miei parenti
desiderano certo che io sia monaca; ma mi hanno lasciata libera, mi hanno
lasciata libera». Il Signor... si scusò di averle fatta una simile
interrogazione. «Il Signor Marchese», diss'egli, «quel cavaliere così degno!
s'immagini s'io posso pensare di lui una cosa simile! ma, io ho fatto il mio
dovere, per quanto strano mi paresse in questa circostanza». L'esame finì con le
giulive congratulazioni del Signor..., il quale come per iscaricarsi la
coscienza di aver fatto qualche cosa per distorre un'anima buona da un pio
proponimento, le disse tutto ciò che gli suggeriva il suo zelo cordiale per
confermarla in quello; e partì con la persuasione di non aver mai trovata
un'anima così ben disposta. Del resto noi siamo ben lontani dal dare l'unica
colpa, e nemmeno la primaria della riuscita di quell'esame all'ingegno corrivo
del buon uomo. Coi tristi antecedenti di Geltrude, e col suo carattere, la cosa
doveva avere a un di presso quell'esito, qualunque fosse l'esaminatore.
Geltrude, ancor più fortemente compresa dall'idea del pericolo che avea passato,
che dal pensiero dell'impegno che avea preso, corse tosto dal Padre. Questi era
in uno stato di aspettazione inquieta: ma Geltrude tutta commossa (le commozioni
si scambiano facilmente non solo da chi le osserva, ma da chi le prova) gli
raccontò frettolosamente l'esito della conferenza; e il Marchese respirò. Le
fece animo, la colmò di lodi, la soffocò di promesse; tutto questo con una
eloquenza di tenerezza sentita; giacché in quel punto egli era lieto non solo di
avere ottenuto il suo fine; ma le parole di Geltrude sembravano di chi ha
liberamente scelto, ed è contento della sua scelta; e la benevolenza per chi fa
quello che uno desidera, in modo da togliergli ogni inquietudine ed ogni
rimorso, è una virtù concessa a tutto il genere umano.
Da quel giorno in poi Geltrude non ebbe più che due occupazioni; l'una
interiore, ed era di persuadere a se stessa ch'ella era contenta della sua
scelta, di fermarsi quanto più poteva su le immaginazioni che potevano renderle
gradevole il monastero, di cercare un po' nella divozione, un po' nel pensiero
delle distinzioni che vi avrebbe avute, consolazioni, celesti o mondane, tutto
purché fosse consolazioni. L'altra occupazione era di accelerare quanto più si
poteva tutte le operazioni preliminari alla vestizione, per uscir di casa, per
esser chiusa una volta, per precludersi ogni strada al tornare addietro, per non
sentirsi più nascere in cuore quell'intollerabile: - potrei forse ancora -.
Questo suo desiderio s'accordava troppo con quelli del Marchese perch'egli non
cercasse ogni via di soddisfarlo; e in fatti egli sollecitò a tempo e a
contrattempo tutte le dispense per far presto.
Così mi sembra che sarà bene che facciamo pur noi in questo racconto. Diremo
dunque che Geltrude entrò nel monastero di Monza, e che assunse l'abito; che
scorso il tempo del noviziato nel quale la sua risoluzione parve sempre più
spontanea e ferma, perché ella mostrava tutto ciò che poteva farlo credere, e
divorava nel suo cuore tutto ciò che avrebbe potuto far credere il contrario,
trascorso questo tempo, ella fece la solenne professione, con una pompa
straordinaria, e quale si conveniva alla casa. Il sacrificio fu consumato, il
dono fu posto su l'altare, ma era di frutti della terra; la mano che ve lo aveva
posto non era monda; il cuore non lo offriva; e lo sguardo del cielo non discese
sovr'esso.
È uno dei caratteri più ammirabili e più divini della religione cristiana, di
potere in qualunque circostanza dare all'uomo che ricorra ad essa, un rimedio,
una norma, e il riposo dell'animo. Quegli stesso, che per violenza altrui o per
suo fallo, o per sua malizia s'è posto in una via falsa può ad ogni momento
approfittare di questi beneficj. Poiché, se la via ch'egli ha intrapresa è
iniqua, la religione glielo fa conoscere, gli dà l'idea chiara ed assoluta del
dovere ch'egli ha di ritrarsene, e la forza di farlo, che che ne possa
conseguire; e se la via è soltanto difficile, pericolosa, spiacevole, ma senza
adito al ritorno, da questa stessa dura necessità di proseguire in essa, la
religione cava un motivo e dei mezzi per renderla regolare, praticabile, sicura,
diciamolo pure arditamente, soave e deliziosa. Disapprovando i motivi che
l'hanno fatta intraprendere, perché erano falsi, essa ne somministra un altro
nuovo ed inconcusso per continuarla, e dà ad una scelta temeraria o infelice ma
irrevocabile, tutta la santità, tutti i conforti, tutta la sapienza della
vocazione. Con quest'ajuto Geltrude a malgrado della perfidia altrui, e dei suoi
errori d'ogni genere avrebbe potuto divenire una monaca santa, e contenta: e il
secolo stesso anzi l'età in cui ella visse ha dato esempj dei quali si è
conservata la memoria, di donne che strascinate al chiostro con l'arte e con la
forza, e dopo d'essersi per alcun tempo dibattute come vittime sotto la scure,
vi trovarono la rassegnazione e la pace; una pace quale si trova di rado negli
stati eletti più liberamente. Che dico? Geltrude stessa fu uno di questi esempj,
e insigne; ma ben tardi e dopo aver commessi ben altri errori anzi delitti, dopo
sofferta ben altra forza che quella di cui abbiamo parlato. Ma per non
precorrere ora agli eventi col racconto, diremo che Geltrude dopo la sua
professione, continuava ad opporre nel suo cuore un ostacolo ai rimedj e alle
consolazioni che la religione avrebbe date alla sua sciagurata condizione: e
questo ostacolo erano le consolazioni ch'ella andava cercando altrove, e
particolarmente nelle cose che potevano lusingare il suo orgoglio.
Il lettore non avrà forse dimenticato che la famiglia onde usciva Geltrude era
molto potente, e che questa era la cagione principale per cui ella era stata
tanto desiderata nel monastero. In fatti il monastero aveva acquistato nel
marchese Matteo un protettore dichiarato il quale risguardava ormai come parte
del suo onore l'onore del luogo dove si trovava una sua figlia. Ma questo
vantaggio le suore lo pagavano, e per verità la cosa era giusta. Lo pagavano in
tanti sgarbi, in tanti scherni, in tante fantasticaggini che avevano a
sopportare da Geltrude, la quale, ricordandosi di tempo in tempo delle arti
usate da quelle per ajutare a tirarla in quel luogo dove di tempo in tempo ella
non si poteva patire, si sfogava avventando beccate agli uccelli che avevano
cantato per farla venire nella loro gabbia. E queste beccatelle le suore le
toccavano senza risentirsene, per non perdere tutto il frutto del loro acquisto.
Geltrude vedendosi così distinta, così sopportata, tanto più libera delle altre
provava talvolta un certo conforto iracondo nel valersi di questi vantaggi, e
nell'esercitare in tal modo la sua superiorità. Una superiorità d'un altro
genere era pure per essa una occasione continua di cercare consolazioni
nell'amor proprio, ed era la sua bellezza: ma quali consolazioni, per amor del
cielo! pari a quelle che provava Robinson nella sua isola in contemplare le
monete ch'egli aveva trovate nei frantumi del vascello sul quale era naufragato.
Anzi non pari, perché quel solitario le gettò in disparte con disprezzo, dopo
d'aver fatto ad esse un'apostrofe su la loro inutilità, e non vi pensò più; ma
la bellezza era per Geltrude un rodimento continuo, una occasione di regressi
affannosi nel passato, e di sguardi disperati nell'avvenire. Ben è vero che ella
si andava paragonando con le altre, e si trovava più bella, ch'ella rideva di
tratto in tratto, e si sarebbe creduto ch'ella ridesse di voglia, degli occhi
sciarpellati della madre badessa, e del mento incartocciato della madre
celleraria, ma in verità che quel riso non lasciava alla poveretta il dolce in
bocca. Spendeva una parte del suo tempo nell'adornarsi come poteva, e così
ingannava alcun poco la sua noja; cercava di ridurre l'abbigliamento monastico
alle fogge secolaresche, o di accordarlo all'aria del suo volto, e a dir vero
questo le riusciva facilmente perché la natura le aveva dato un volto che per
poco che gli si lavorasse attorno stava bene. Per far questo aveva Geltrude
trovato un mezzo molto ingegnoso. Gli specchj come ognun sa erano proibiti nei
chiostri come i lumi nelle polveriere, e Geltrude nei primi tempi non osava
ancora, come fece in appresso, conculcare tutte le regole; ma la infelice
scaltrita aveva fatta porre dietro ad un quadretto ch'ella teneva appeso nella
sua camera una lastra di latta levigatissima, e a quella si consultava
segretamente. Ma quando dalle sue consulte ella aveva conchiuso che anche in
quell'abito ella era avvenente assai, quand'anche ella se lo udiva ripetere
dalle più mondane o dalle più adulatrici fra le sue compagne, il suo cuore ne
rimaneva tutt'altro che soddisfatto. E quando poi il suo cuore le rinfacciava
anche quella poca parte di piacere così mescolato e corrotto ch'ella aveva
gustato, ella sentiva più rabbia che pentimento. Così la meschina si precludeva
l'adito alle consolazioni reali di cui il suo stato era ancora capace, perché
per giungere a quelle la prima condizione è di non curare il resto; come il
naufrago, che vuole afferrare la tavola galleggiante che può condurlo in
salvamento sulla riva, deve pure sciogliere il pugno e abbandonare le alghe e
gli sterpi nuotanti che aveva abbrancati, per una rabbia d'istinto.
Ad essere badessa si richiedeva l'età di quarant'anni; e quest'erba, per magra
che fosse, era pure anco ben lunge dal becco di Geltrude. Ma oltre le
distinzioni e le franchigie per così dire ch'ella godeva per la condiscendenza
delle suore, e delle superiore, le era tosto stato conferito il grado più
elevato che fosse compatibile con la sua giovinezza: era stata eletta Maestra
delle educande. E per una distinzione singolare le erano state assegnate due
giovani suore converse, le quali erano come ai suoi servizj, quasi damigelle.
Quel posto era per Geltrude una occasione continua di esercitare le passioni più
pericolose ch'ella covava. Fra le educande che le erano state affidate si
trovavano ancora alcune di quelle che le erano state compagne, e Geltrude così
vicina ad esse di età non aveva ancora dimenticati i risentimenti e le rivalità
puerili del sodalizio: ed ora gli sfogava talvolta con tutta la forza che le
dava la sua autorità. Nei momenti spesso assai lunghi di tristezza e di
pentimento dello stato che aveva abbracciato, ella provava un certo rancore
contra quelle giovanette destinate per la più parte ad una vita libera e
splendida che non era più per lei; le risguardava come nemiche, le spiaceva di
vederle liete d'una letizia che non era sperabile per essa, e faceva di tutto
per toglierla loro, cosa assai facile ad una superiora. Sentiva ella bene la
pazza ingiustizia di questa sua passione, ma vi si abbandonava. E in quei
momenti, poverette quelle educande! Talvolta dopo d'aver lasciato tornare
indietro il suo pensiero nei diletti del mondo, dopo avervelo lasciato riposare
per lungo tempo, ella ne sorprendeva alcune che parlavano fra di loro di ciò
ch'ella aveva pensato, e allora chi l'avesse udita sgridarle ferocemente,
l'avrebbe creduta invasa d'uno zelo inconsiderato, e d'una staccatezza
indiscreta e antisociale. Talvolta invece predominava nell'animo suo l'orrore al
chiostro, alle regole, alla disciplina, all'obbedienza, alla solitudine, a tutte
quelle cose in mezzo delle quali ella si trovava per forza, e allora non solo
ella sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma la animava; si
mesceva ai loro giuochi, e gli rendeva più liberi; entrava nei loro discorsi, e
gli portava al di là delle intenzioni con le quali esse gli avevano
incominciati.
In queste agitazioni, in questo stato di guerra continua con se stessa, e con
ogni cosa circostante ella passò i primi anni del chiostro, non senza qualche
ritorno di divozione, e di regolarità temporaria, dal quale ricadeva ben presto
nelle sue abitudini predominanti. Questa vita di noja e di contrasto era tanto
penosa, che, senza forse esserne ben conscia a se stessa, ella si trovava
disposta ad abbracciare qualunque distrazione, qualunque cangiamento di
sensazioni fosse stato possibile. Ma la clausura, le grate, le regole, la
facevano camminare con una regolarità esteriore; i suoi pensieri soltanto
vagavano in piena licenza; ma non v'era una occasione per concedere impunemente,
o con lusinga d'impunità una simile licenza alle sue azioni. Finalmente la
sventura di Geltrude volle che l'occasione si presentasse; e Geltrude si portò
in quella come era da temersi, e come diremo nel seguente capitolo.