Purgatorio: canto XXIX
Al termine del suo discorso Matelda proseguì, cantando come donna innamorata: « Beati coloro ai quali sono cancellati i peccati! » (cfr. Salmo
XXXII, 1)
E come le ninfe che se ne andavano solitarie sotto l'ombra delle selve, desiderando le une di vedere, le altre di evitare i luoghi soleggiati,
la donna allora si mosse in direzione contraria alla corrente del fiume, camminando lungo la sponda; ed io procedetti alla pari con lei (dall'altra parte), accordando i miei ai suoi passi brevi.
Vengono ripresi, in questo esordio, i motivi e le forme che hanno definito nel canto precedente l'apparire di Matelda quale personificazione della natura non corrotta. L'innocenza dell'Eden era stata espressa, nella figura di Matelda, attraverso manifestazioni che non richiedevano alcun dialogo, alcuna mediazione razionale, alcun travaglio dell'intelletto o tendersi della passione: essa risultava dallo stesso atteggiarsi della donna, dal suo incedere a passo di danza, dalla radiosa bellezza del suo sguardo verecondo. Su questa figurazione pittorica si era inserita in un secondo tempo una manifestazione di sapienza: la levità della rappresentazione originaria si era composta, nel discorso di Matelda sulla presenza del vento e dell'acqua nel paradiso terrestre, in cadenze consapevoli e raziocinanti, lontane dalle vibrazioni liriche in cui si era concretata la sua apparizione. In questa apertura di canto, scrive il Momigliano, la figura di Matelda è riportata "a quell'immagine affascinante che sembrava essere stata dimenticata durante il corso ragionativo della sua parlata".
Analogamente a quanto avveniva per la sua presentazione iniziale in termini di raffinata pittura, anche qui la figura di Matelda risulta dall'inserimento di elementi attinti alla tradizione « cortese » del Medioevo nel mito pagano dell'età dell'oro, assunto a significare la condizione dell'uomo prima del peccato. Ai motivi stilnovistici e classici si affianca, nella forma di citazioni dirette dal testo latino (nel canto precedente il versetto « Delectasti » del Salmo XCII, qui l'inizio del Salmo «Beati quorum... ») , quello della interpretazione scritturale. II motivo « cortese » è rappresentato in questo esordio dal primo verso, nel quale Dante parafrasa un'espressione di Guido Cavalcanti ("cantando come fosse 'nnamorata") , quello classico dalla evocazione delle ninfe, ove l'idea centrale della concezione dantesca del paradiso terrestre - quella di una - non contrastata realizzazione dei desideri, i quali, come natura non intaccata da malizia, concorrono, insieme a tutto il creato, alla glorificazione di Dio - è sottolineata dall'opposizione istituita, al verso 6, tra i modi in cui si afferma l'assoluta spontaneità delle ninfe (qual di veder, qual di fuggir lo sole). Il loro pieno appagamento è dato dalla partecipazione immediata alla vita della natura. Di qui la loro solitudine, presentata come una raggiunta felicità che non ha bisogno di espandersi nella comunicazione, nel rapporto sociale. Il solo rapporto concepibile nel paradiso terrestre è infatti quello tra l'anima e Dio, tramite le opere del creato.
In due non avevamo ancora fatto cento passi, quando le sponde svoltarono formando lo stesso angolo in modo che (seguendo la curva) di nuovo mi volsi verso levante.
Non avevamo ancora percorso molta strada in quella direzione, quando la donna si volse verso di me con tutta la persona, dicendo: « Fratello mio, guarda e ascolta ».
Ed ecco una luce improvvisa balenò da ogni parte nella grande foresta, tale, che mi fece dubitare che fosse un lampo.
Ma siccome il baleno, appena giunto, cessa, e invece quello, perdurando, splendeva sempre più, dentro di me dicevo: «Che cosa è mai questo? »
Intanto per l'aria luminosa si diffondeva una dolce melodia; per la qual cosa un giusto sdegno mi indusse a biasimare l'ardimento di Eva,
la quale proprio là (nel paradiso terrestre) dove la terra e il cielo ubbidivano (alla volontà di Dio), donna sola e creata soltanto allora, non sopportò di stare sotto il velo (che limitava la sua conoscenza del bene e del male);
se fosse stata sottomessa a quel velo, io avrei gustato quelle ineffabili delizie fin dalla nascita e per lunghissimo tempo (più lunga fiata: per tutta la durata della vita).
Mentre io procedevo totalmente assorto in tante anticipazioni della beatitudine celeste, e desideroso inoltre di maggiori gioie,
davanti a noi l'aria sotto i verdi rami si fece rosseggiante, come viva fiamma; e la dolce melodia già si distingueva composta di canti.
O sacrosante Muse, se talvolta per amor vostro ho sofferto fami, freddi o veglie, un alto motivo mi spinge ad invocare il vostro aiuto.
Ora è necessario che il monte Elicona (sede delle muse) effonda per me l'acqua delle sue fonti (Aganippe e Ippocrene), e che la musa Urania (simbolo della scienza delle cose sovrannaturali) mi aiuti con le sue compagne a mettere in versi cose difficili anche solo a pensarsi,
Poco più avanti, il grande tratto di aria che ancora correva tra noi e il punto dove erano le apparizioni, faceva falsamente apparire l'immagine dì sette alberi d'oro;
ma quando mi fui avvicinato ad essi tanto, che la loro figura, la quale (come ogni corpo soggetto alla loro percezione) può ingannare i sensi, per la distanza (abbreviata) non nascondeva più nessuna sua caratteristica,
la facoltà percettiva che prepara alla ragione la materia su cui può esplicare la sua attività, vide chiaramente che essi erano candelabri, e distinse nelle voci del canto la parola « osanna ».
Inizia la descrizione della mistica processione che si svolge lungo la riva del Letè e che vuole presentare "in sintesi la storia ideale della Chiesa, in quanto essa coincide, secondo l'interpretazione patristica, con la storia dell'umanità tutta e la illumina facendola convergere nel suo complesso al momento culminante della Rivelazione, preannunziata e preparata dal Vecchio Testamento, attuata nell'avvento dell'Uomo-Dio, perpetuata infine attraverso la predicazione apostolica in un istituto depositario e interprete della dottrina e amministratore dei doni della Grazia" (Sapegno).
Il corteo è aperto dall'apparizione dei sette candelabri, le cui fiammelle lasciano dietro di sé sette strisce luminose e lunghissime, sotto le quali avanzeranno tutti i partecipanti alla processione. I candelabri (la cui immagine Dante ha derivato dalla visione iniziale dell'Apocalisse I, 12) rappresentano i sette doni dello Spirito Santo o, secondo un'altra interpretazione, i sette Sacramenti, oppure ancora le sette Chiese dell'Asia, come nell'Apocalisse: tuttavia la maggior parte dei critici antichi e moderni propende per la prima spiegazione.
Nella parte superiore l'insieme dei candelabri fiammeggiava assai più luminoso della luna piena (quando splende) nell'aria limpida nel cuore della notte a metà del mese lunare.
Io mi rivolsi pieno di meraviglia al valente Virgilio, ed egli mi rispose con uno sguardo non meno stupito del mio.
Poi volsi di nuovo gli occhi a quegli oggetti mirabili che si muovevano verso di noi così lentamente, che sarebbero stati superati anche dal lento passo delle spose novelle (nel corteo nuziale, o quando la sposa lascia la casa paterna o quando entra in chiesa).
La donna mi rimproverò: « Perché guardi con tanto ardore soltanto lo spettacolo delle vive luci (dei candelabri), e non guardi quello che viene dietro ad esse? »
Allora vidi figure biancovestite seguire i candelabri, quasi questi fossero le loro guide; e qui sulla terra non ci fu mai un candore pari a quello delle loro vesti.
Al mio lato sinistro l'acqua (del Letè) risplendeva (per la luce dei candelabri), e se io mi volgevo a guardarla, mi rimandava anche, come uno specchio, l'immagine della parte sinistra del mio corpo.
La compattezza di una natura che esprime il divino nei modi della creazione, mostrandosi cioè come realtà ignara del corrompersi fisico nella vecchiaia e nella morte, e che ha trovato le sue trascrizioni simboliche nella divina foresta e nella sua unica abitatrice, si incrina, a partire dal verso 16, ad opera di una manifestazione del divino che esorbita dal quadro della natura medesima. Dopo la glorificazione di Dio nel suo aspetto di Creatore, il Poeta si appresta, infatti, a considerare l'opera di redenzione compiuta da Dio per riscattare il peccato originale. Non più la natura sarà quindi oggetto della meditazione del Poeta, ma la storia, conseguenza del folle ardimento d'Eva, ed il soccorso da Dio portato all'uomo condannato a conoscere il tempo, la vecchiaia, la morte. Se la natura è stata figurata, nella sua innocenza, dalla foresta della primavera eterna, la storia - nel suo dispiegarsi verso l'attuazione di un disegno inteso a riscattare dalla condizione temporale la natura che il peccato ha corrotto - apparirà a Dante nei simboli personificati di una processione, i quali riempiranno della loro presenza allusiva gli spazi deserti della foresta. Questo corteo di figurazioni è preceduto dal dilagare improvviso di una luce folgorante, che segna il momento a partire dal quale la realtà ancora "terrestre" dell'Eden comincia ad integrarsi in un ordine di significati che avranno la loro piena conferma nella terza cantica. Scrive in proposito il Di Pino: "Con la luce naturale ed indeterminatamente metafisica [quella di cui è stata fatta menzione in tutto il poema fino a questo punto e che, nel Purgatorio, ha dato luogo ad una tematica varia e densa di riferimenti alla vicenda dell'anima] si fonde già, per lo splendore del bell'arnese, una luce di operazioni celesti... Nel giro di canti che descrivono il paradiso terrestre, il XXIX ha il suo significato specifico nella resa di questo misterioso trapasso da un «senso» all'altro della luce". Dopo aver premesso che, in realtà, "fin dal canto precedente stiamo assistendo all'aggiustarsi del linguaggio dantesco nella direzione delle esigenze stilistiche della terza cantica", il critico esemplifica la sua tesi con alcuni riferimenti diretti al testo, osservando ad esempio che, nel complesso costituito dai canti XXVIII-XXIX, si passa da un luminismo corposo (la gran variazion di freschi mai, la via pinta di fiori... ) "a trasparenze pure, quali sono quelle degli ostendali che - come tratti pennelli - lasciano dipinto l'aere di quei colori onde fa l'arco il sole e Delia il cinto". Tutta la prima parte del canto XXIX - dopo la ripresa del tema della donna felice che manifesta col canto e col ballo la propria adorazione di Dio, a lei visibile nello splendore della creazione - è occupata da una serie di variazioni sul motivo della luce. Nella seconda parte su tale motivo prevarrà invece uno derivato da esso, quello dei contrasti cromatici, per cui il bianco, simbolo della purezza della fede, sarà accostato al verde, simbolo della speranza, e al rosso, simbolo della carità.
Quando dalla riva dove mi trovavo arrivai a una posizione tale, che solo il fiume mi separava dal corteo, fermai i miei passi per poter osservare meglio,
e vidi che le fiamme dei candelabri procedevano in testa (alla processione), lasciandosi dietro l'aria colorata, e sembravano strisce tracciate da pennelli mossi (sopra una tela);
sicché l'aria sovrastante rimaneva segnata da sette liste, tutte formate da quei colori con i quali il sole crea l'arcobaleno e la luna (Delia: così viene chiamata Diana, la luna, essendo nata nell'isola di Delo) il suo alone.
Questi stendardi (formati dalle strisce luminose) si stendevano indietro oltre quanto poteva giungere la mia vista; e, a mio avviso, i due stendardi esterni distavano l'uno dall'altro dieci passi.
Sotto un cielo cosi bello come io lo descrivo, procedevano ventiquattro seniori, a due a due, coronati di gigli.
I ventiquattro seniori sono simbolo dei ventiquattro libri dell'Antico Testamento. La fonte di Dante è ancora un passo dell'Apocalisse (IV, 4) , nel quale San Giovanni racconta di aver visto, intorno al trono di Dio, ventiquattro vecchi vestiti di bianco, con il capo coperto da una corona d'oro. L'interpretazione che Dante dà a queste figure è presa da San Gerolamo, il quale nel Prologus galeatus alla sua traduzione della Bibbia afferma che i libri dell'Antico Testamento sono ventiquattro e sono simboleggiati dai ventiquattro seniori dell'Apocalisse. Il bianco dell'abito e dei gigli ricorda la purezza della fede nel Messia venturo, che sostenne i personaggi dell'Antico Testamento.
Tutti cantavano: «Benedetta tu tra le figlie di Adamo, e benedette siano in eterno le tue bellezze! »
L'inno cantato dai seniori ripete le parole rivolte a Maria dall'angelo dell'Annunciazione (Luca I, 28) e da Elisabetta (Luca I, 42), unendole ad espressioni profetiche bibliche che si riferivano alla Vergine (Giuditta XIII, 18; Cantico dei Cantici IV, 7).
Dopo che lo spazio fiorito e pieno di tenere erbette sull'altra sponda di fronte a me fu lasciato libero da quelle elette persone (che erano andate innanzi),
così come nella rotazione celeste una costellazione segue un'altra, dietro di loro sopraggiunsero quattro animali, ciascuno dei quali era coronato di verdi fronde.
Ognuno era fornito di sei ali; le penne erano cosparse di occhi; e gli occhi di Argo, se fossero ancora vivi, sarebbero altrettanto penetranti.
Non sprecherò più versi, lettore, per descrivere il loro aspetto, perché mi incalza la necessità di spendere parole per un altro argomento, cosicché non posso indugiare in questo;
ma leggi Ezechiele che li descrive come li vide venire da settentrione con vento e con nubi e con fuoco;
e come li troverai nei passi del suo libro, tali erano qui, tranne che riguardo al numero delle ali Giovanni concorda con me e dissente da Ezechiele.
Nella descrizione dei quattro animali Dante si ispira ad Ezechiele (I, 4-14) , e, in alcuni elementi (per esempio, le sei ali invece di quattro), all'Apocalisse di Giovanni (IV, 6-8) . Gli interpreti riconoscono unanimemente nei quattro animali il simbolo dei quattro Vangeli. La verde fronda rappresenta, secondo alcuni, la forza eterna della dottrina evangelica, secondo altri, invece, indica la speranza della salvezza che si apre all'uomo con la buona novella del Vangelo. Le sei ali, attributo particolare dei Serafini, sarebbero, secondo Pietro di Dante, le sei leggi (naturale, mosaica, profetica, evangelica, apostolica, canonica), oppure vorrebbero spiegare la rapidità con cui si diffuse la parola evangelica. Quanto alle penne piene d'occhi, San Gerolamo, commentando Ezechiele, afferma che esse indicano la conoscenza del passato e del futuro, e Dante sottolinea la penetrazione di quegli sguardi ricorrendo all'esempio mitologico di Argo, il custode dai cento occhi, che Giove destinò come guardiano della ninfa Io, e che fu ucciso da Mercurio (Ovidio - Metamorfosi 1, 625 sgg.).
Lo spazio che restò tra i quattro animali accolse un carro trionfale, a due ruote, il quale veniva trascinato legato al collo di un grifone.
Esso protendeva verso l'alto entrambe le ali, le quali passavano tra la lista mediana e i due gruppi delle tre liste laterali, cosicché, fendendo (l'aria), non ne toccava nessuna.
Salivano così in alto che non era possibile seguirle con gli occhi; le membra di quella parte del corpo che aveva l'aspetto dell'aquila d'oro, e le altre erano bianche, soffuse di colore vermiglio.
Ancora Ezechiele offre a Dante lo spunto di questa visione (cfr. 1, 15-24) , anche se il Poeta stesso avverte che il motivo ispiratore è attinto dal mondo classico più che da quello bìblico (versi 115-120). Il carro
...triunfale è simbolo della Chiesa: le due rote sono, secondo Pietro di Dante, il Vecchio e il Nuovo Testamento, secondo altri, la sapienza e la carità, oppure la pietà e la giustizia, o l'amore di Dio e quello del prossimo o, secondo alcuni interpreti antichi, la vita attiva e quella contemplativa.
Il grifon - nel suo duplice aspetto di aquila nella testa e nelle ali e di leone nel resto del corpo - rappresenta Cristo, nel quale si congiunsero la natura umana e quella divina.
Luna e l'altra ale del grifone si protendono verso l'alto senza toccare le sette strisce luminose che solcano il cielo, e lasciandone tre per parte: viene così richiamato il concetto di Dio uno e trino e contemporaneamente l'assoluto accordo tra l'azione di Cristo (il grifone) e la sapienza dello Spirito Santo (le sette strisce luminose lasciate dai sette candelabri). Tuttavia nessuno sguardo umano può penetrare il mistero dell'Uomo-Dio e per questo le ali sembrano innalzarsi all'infinito.
Nel grifone inoltre la parte aquilina è d'oro per indicare, attraverso il metallo più prezioso, la natura divina di Cristo, mentre il resto del corpo appare di colore bianco per simboleggiare, secondo Benvenuto da Imola, la carne umana nella sua purezza, ma è soffuso di vermiglio per ricordare la passione di Cristo.
Non solo Roma non onorò con un carro così sontuoso l'Africano, o Augusto, ma perfino il carro del sole apparirebbe povero in confronto a questo:
il carro del sole che, essendo uscito dalla sua strada, fu incendiato in seguito alle fervide preghiere della Terra, quando Giove mostrò la sua imperscrutabile giustizia.
Il carro del grifone supera per maestosità e bellezza non solo quelli usati a Roma per celebrare i grandi trionfi militari di Scipione l'Africano o di Ottaviano Augusto, ma anche lo stesso carro del sole, risplendente d'oro, d'argento e di gemme, secondo la descrizione di Ovidio (Metamorfosi II, 107-110). Quest'ultimo ricordo mitologico richiama alla mente di Dante l'episodio di Fetonte, al quale il padre Apollo aveva affidato il carro del sole: ma il giovane se ne lasciò sfuggire di mano la guida e il carro, avvicinatosi troppo alla terra, provocò incendi e distruzioni. Giove, impietosito dalle preghiere degli uomini, fulminò Fetonte (cfr. Ovidio - Metamorfosi II, 150-332; Inferno XVII, 107-108). È probabile che il Poeta, attraverso questo episodio, intenda alludere alla Chiesa male guidata, sulla quale si abbatterà la giustizia divina con le sue "arcane" decisioni (cfr. l'espressione del verso 120) : Dante usa qui quasi le stesse espressioni dell'Epistola XI ai cardinali italiani.
Accanto alla ruota destra tre donne procedevano danzando in tondo: la prima appariva tanto rossa che a stento sarebbe stata visibile nel fuoco;
la seconda era di un colore verde, come se le sue carni e le sue ossa fossero state fatte di smeraldo; la terza appariva bianca come neve appena caduta;
ed ora sembravano guidate nella danza da quella bianca, ora da quella rossa; ma solo dal canto di quest'ultima le altre regolavano il ritmo ora lento e ora veloce.
A destra del carro, nella parte quindi più nobile e più importante, procedono, manifestando la loro gioia attraverso la danza, le tre virtù teologali: la Carità (ricoperta di rosso, simbolo dell'amore), la Speranza (il cui colore simbolico è il verde), la Fede (ricoperta di bianco, simbolo della purezza). Dante si preoccupa di indicare la gerarchia secondo la quale agiscono le tre virtù: la danza è guidata ora dalla Fede e ora dalla Carità, in quanto la Speranza deriva dalle prime due, ma il ritmo è segnato solo dalla Carità, che, secondo le parole di San Paolo, è "la più eccellente di tutte" (I Epistola ai Corinti XIII, 13).
Intorno alla ruota sinistra facevano festa (danzando) quattro donne, vestite di un abito del colore della porpora, regolando il ritmo sotto la guida di una di loro che aveva tre occhi nella testa.
Nella parte sinistra del carro appaiono le quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza. Esse sono vestite di porpora, il colore della Carità, perché, secondo San Tommaso, " le virtù morali... non possono esistere senza la carità" (I, Il, 65, 2) . Nella mistica processione esse sono guidate dalla Prudenza, perché. d'accordo con San Tommaso, Dante afferma che essa è "conduttrice de le morali virtù" (Convivio IV, XVII, 8). I tre occhi in testa sono spiegati da un passo del Convivio XIV, XXVII, 5), che traduce una espressione di Cicerone (De inventione II, 53): per "essere prudente, cioè savio... si richiede buona memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le presenti e buona provedenza de le future".
Dopo tutto il gruppo ora descritto scorsi due vecchi diversi nell'abito, ma simili nell'atteggiamento dignitoso e grave.
Il primo rivelava (nell'abito) di essere uno dei seguaci di quel sommo Ippocrate che la natura creò per gli uomini, gli esseri viventi che essa ha più cari;
il secondo, portando in mano una spada lucente e aguzza, mostrava di esercitare un'attività contraria a quella del medico, ed era tale, che mi fece paura, pur trovandomi al di qua del fiume.
I due vecchi in abito dispari, ma di pari dignità, simboleggiano rispettivamente gli Atti degli Apostoli e le Epistole di San Paolo. Il primo mostra nell'aspetto di essere un "famigliare" di Ippocrate, famoso medico greco (da Dante posto nel limbo) che scrisse gli Aforismi, l'opera basilare della scienza medica nel Medioevo: è San Luca, autore degli Atti, il quale fu medico, secondo quanto rivela San Paolo (Epistola ai Colossesi IV, 14). II secondo vecchio è San Paolo, autore delle Epistole: viene rappresentato, nell'iconografia tradizionale, con la spada in mano, sia perché prima della conversione fu persecutore dei cristiani, sia perché la sua azione, per la diffusione della fede, fu condotta con la forza e l'asprezza di una battaglia. Per questo la sua cura è contraria a quella del medico che risana i corpi, laddove la parola di San Paolo penetra nell'anima.
Poi vidi quattro personaggi in atteggiamento di umiltà; e dietro a tutti avanzava un vecchio solo, con gli occhi chiusi, e un viso pieno di penetrante espressività.
Le quattro figure in umile paruta rappresentano i quattro autori delle sette Epistole Cattoliche (San Giacomo, San Pietro, San Giovanni, San Giuda); la umiltà
dell'atteggiamento si spiega con il fatto che queste Epistole sono opere di minore importanza rispetto agli altri libri del Nuovo Testamento, Un'altra interpretazione vede in esse í quattro grandi dottori della Chiesa (Agostino, Gerolamo, Ambrogio, Gregorio Magno), oppure i maggiori profeti (Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele).
Il vecchio solo simboleggia l'Apocalisse di San Giovanni: l'autore ha l'aspetto di un dormiente perché l'opera è presentata sotto forma di visione e la visione, nel Medioevo, è sempre collegata al sonno e al sogno.
E questi ultimi sette personaggi erano vestiti di bianco come quelli della prima schiera (col primaio stuolo: i ventiquattro seniori), ma intorno al capo non avevano una ghirlanda (brolo: significa propriamente "orto". "giardino") di gigli,
bensì di rose e di altri fiori vermigli: un occhio che li avesse osservati ad una certa distanza avrebbe giurato che essi ardessero al di sopra dei cigli.
I sette personaggi (rappresentanti tutti i libri del Nuovo Testamento) che chiudono il corteo hanno lo stesso abito bianco dei ventiquattro seniori, per indicare la concordanza fra Antico e Nuovo Testamento: la loro corona, tuttavia, non è fatta di gigli, ma di rose e di fiori rossi: infatti negli scrittori dell'Antico Testamento fu essenziale la fede in Cristo venturo, in quelli del Nuovo la carità insegnata da Cristo agli uomini.
E quando il carro (sempre rimanendo sull'altra sponda) fu giunto davanti a me, si udì un tuono, e fu chiaro che a quelle sante figure era vietato procedere oltre,
poiché si fermarono qui insieme ai sette candelabri.
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