LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XXXI

Una stessa lingua (quella di Virgilio) dapprima mi rimproverò, in modo da farmi arrossire, e poi mi ridiede conforto:

così sento dIre che la lancia di Achille e di Peleo soleva essere causa in un primo tempo di una offerta dolorosa e in un secondo tempo di una offerta buona.

Secondo Ovidio (Remedia amoris 44-48) la lancia che Achille ebbe dal padre Peleo aveva la proprietà di rimarginare le ferite da essa stessa prodotte. Nella lirica medievale questa immagine ricorre di frequente per indicare lo stato d’animo, duplice e contrastante, dell’amante alla vista della donna amata. Per il Malagoli fra i termini su cui è basata la elaborata ma vigorosa struttura metaforica della prima terzina (lingua... morse... tinse) non è possibile stabilire un rapporto logico: "c’è in Dante solo il gusto dell’espressione sensibile in se stessa". Questo giudizio è sostanzialmente giusto: fortissima è in Dante l’esigenza di tradurre nel concreto anche le esperienze psicologiche o intellettuali più astratte. Occorre tuttavia ricordare che tra metafora e metafora corrono in Dante rapporti analogici strettissimi, per cui un gruppo di immagini raramente presenta un carattere di casualità.

Noi voltammo le spalle alla decima bolgia lungo !’argine che la circonda, attraversandolo senza parlare.

Qui era meno buio ché di notte e meno chiaro che di giorno, così che la mia vista si spingeva avanti di poco; ma udii un corno dal suono così fragoroso,

che avrebbe fatto sembrare debole qualunque tuono, il quale suono, continuando a percorrere il suo cammino, fece rivolgere attentamente la mia vista verso un unico punto in direzione opposta a quella da cui proveniva.

Dopo la grave disfatta, quando Carlo Magno perdette i paladini della fede, non suonò in modo così terribile Orlando.

In un’ambigua atmosfera di crepuscolo, che nega alle cose la nettezza dei loro contorni, pur senza abolirli del tutto (e l’incertezza di questo crepuscolo, simbolicamente, prelude allo spegnersi totale della vita che caratterizzerà la condizione, morale e fisica, dei traditori imprigionati nel ghiaccio di Cocito), il cupo suono di un corno diffonde, come una minaccia, un dolore lancinante e incontenibile. Il Poeta ripensa all’agonia di Orlando nella gola di Roncisvalle nei Pirenei (la disfatta ad opera degli Arabi della retroguardia dell’esercito franco comandata da Orlando ebbe luogo nel 778 d. C.): quando il paladino, già ferito, si risolse a suonare il corno per chiedere aiuto, la maggior parte dei suoi compagni era morta. Ecco come la sua morte è descritta nella Chanson de Roland (versi l753-1767): "Rolando ha messo l’olifante alle labbra, l’imbocca bene e lo suona con grande forza. Alti sono i poggi e lunga è la sua voce; trenta gran leghe l’odono rispondere. Carlo l’ode e tutto il suo esercito... Il conte Rolando con pena ed affanno a gran dolore suona il suo olifante. Dalla bocca sgorga il chiaro sangue. Le sue tempie si rompono per lo sforzo. Altissimo è il rimbombo del corno: l’ode Carlo... il duca Namo lo ascolta, l’ascoltano i Franchi".
La morte di Orlando é - nota V. Rossi - uno degli episodi "che più profondamente colpirono fa fantasia e il cuore degli uomini dei Medioevo". Nella terzina 16 "è l’eco gagliarda di questa commozione: nel primo verso, arduo di ritmo, sanguina il dolore cristiano (la bella osservazione è del Torraca) per quella sconfitta; nel terzo, dominato, da una lunga e sonora e suggestiva parola e chiuso dal più gran nome della leggenda epica, corre un fremito tra di sgomento e di ammirazione".

Avevo per poco tempo tenuto la testa volta in quella direzione, allorché mi sembrò di scorgere numerose alte torri; per cui dissi: "Maestro, dimmi, che città è questa? "

E Virgilio a me: " Poiché tu ti spingi con lo sguardo attraverso il buio troppo da lontano, accade poi che tu confonda nel raffigurarti ciò che vedi.

Tu vedrai bene, se arriverai in quel luogo, quanto il senso (della vista) possa errare da lontano; perciò sprona maggiormente te stesso".

Poi mi prese affettuosamente per mano, e disse: " Prima che noi giungiamo più innanzi, affinché la cosa ti appaia meno sorprendente,

devi sapere che non sono torri, bensì giganti, e che stanno tutti nel pozzo lungo la sua parete circolare dall’ombelico in giù ".

Il verso 33 si contrappone idealmente a quello che, nel canto X. definiva lo energico ergersi di Farinata (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai). La grandezza dell’eroe ghibellino era anzitutto forza morale (com’avesse l’inferno in gran dispitto), carattere indomabile che si esprimeva, plasticamente, nel suo atteggiamento statuario. Quella dei giganti, è bruta materialità, porta in sé i segni della sconfitta e del disfacimento. Osserva il Chiari: "chiunque ricorda il canto X dell’Inferno sa che per Farinata la condanna, che lo imprigiona nell’arca rossa di fuoco, è superata dalla grandezza spirituale e dalla nobiltà del magnanimo difensore a viso aperto di Firenze, e sente che qui invece si insiste sul lungo distendersi dei corpi immensi al disopra della ripa e nella profondità del pozzo, e che l’accenno alla loro mole non è accompagnato da nessun tratto di libera vigoria, ma anzi è unito e superato dall’accenno dell’immobilità che impone una forza divina, trionfante di essi, i superbi, in eterno".
Posti a guardia dell’ultimo cerchio dell’inferno, i giganti si distinguono dai custodi dei cerchi superiori per la loro immobilità cieca ed ottusa. Il Poeta si compiace di sottolineare, lungo tutto l’arco dell’episodio che li ha per protagonisti, il contrasto fra la maestà del loro apparire e la loro forza umiliata, resa inerme dalla confusione che ha invaso le loro menti. Simboli di una superbia dissennata, portata al parossismo (vollero misurarsi con la divinità, pretesero di debellare con la forza l’intelligenza), occupano ora, il gradino più basso nella gerarchia infernale.

Come quando la nebbia si dissolve, l’occhio gradatamente distingue quello che nasconde il vapore che rende densa l’aria,

così, penetrando con lo sguardo nell’aria spessa e buia, a mano a mano che mi avvicinavo all’orlo del pozzo, si dileguava il mio errore e aumentava la mia paura;

poiché come il castello di Montereggioni è cinto di torri nella cerchia delle mura che lo circondano, così la sponda che gira intorno al pozzo

soverchiavano come torri con metà del loro corpo i mostruosi giganti, che Giove sembra ancora minacciare col tuono dal cielo.

Munita di quattordici torri, la fortezza di Montereggioni era stata costruita dai Senesi nel 1213 nella Val d’Elsa, per difendersi dagli attacchi dei Fiorentini. La vigorosa similitudine dei versi 40-41 suggerisce l’idea di una forza compatta ed impassibile (ma appunto per questo confinata entro i limiti di una inanimata materialità). La sfida dei figli della terra a Giove (cfr. canto XIV, versi 52-59) si propone qui non come un’azione cosciente e volta ad un fine, ma come semplice esistenza dello smisurato, che, in quanto tale, minaccia l’armonico coesistere delle cose e il regolare svolgersi degli eventi.

E io già di uno di costoro intravedevo il viso, le spalle e il petto e gran parte del ventre, e le due braccia abbandonate lungo i fianchi.

Certamente la natura, quando smise di produrre simili esseri viventi, fece cosa molto buona, perché sottrasse a Marte (il dio della guerra) tali esecutori (delle sue volontà).

E se la natura non si pente degli elefanti e delle balene. chi riflette con attenzione, la giudica per questo più giusta e più assennata;

poiché nei casi in cui lo strumento della ragione si aggiunge alla volontà di nuocere e alla forza fisica, gli uomini non possono opporre alcuna difesa.

La faccia di quel gigante mi sembrava lunga, e grossa come la pigna di San Pietro in Roma (questa figura di bronzo ai tempi di Dante si trovava nell’atrio di San Pietro; oggi invece è all’interno del Vaticano, nel cortile detto della, Pigna), e le altre membra erano proporzionate ad essa;

così che la sponda, che gli serviva da veste dalla metà del corpo in giù, lasciava vedere tanto della parte superiore del suo corpo, che di arrivargli ai capelli

tre abitanti della Frisia (rinomati per la loro alta statura) difficilmente avrebbero potuto vantarsi; poiché ne scorgevo trenta palmi (poco più di sette metri) abbondanti dal collo in giù.

Secondo il Grabher "i paragoni di misure mirerebbero a dare maggiore concretezza" alla mole del gigante, mentre "in realtà la sminuiscono". Opportunamente tuttavia il Mattalia osserva: "La minuziosa precisione dì Dante... nella quale va parzialmente perduta la misura fantastica che del gigante il lettore aveva ricevuto dai versi 20-31, ha un suo preciso significato: il Poeta intende mantenere il gigantesco nei limiti del ragionevolmente pensabile e immaginabile, entro i limiti, precisando, in cui è possibile immaginare una figura sufficientemente compatta e distinta nel suo insieme; e fuori dei quali, invece, l’immaginazione " abborra ", abborraccia, tende a sperdersi". L’esigenza del razionale si impone con maggior urgenza a Dante nel momento in cui deve affrontare il tema delle forze e delle dimensioni smisurate che la tradizione attribuiva ai giganti.

"Raphél may améch zabi almì" cominciò a gridare la mostruosa bocca, alla quale non si addicevano discorsi più gradevoli.

E Virgilio, rivolgendosi a lui: " Spirito sciocco, accontentati del corno, e sfogati con quello quando ti prende l’ira o un’altra passione!

Cerca intorno al tuo collo, e troverai la cinghia che lo tiene legato, o anima ottenebrata, e guardalo come attraversa il tuo petto possente ".

Poi mi disse: " Da solo rivela chi egli sia; costui è Nembrot per il cui empio pensiero nel mondo non si usa più un unico linguaggio.

Lasciamolo stare e non parliamo inutilmente; perché per lui ogni linguaggio è tale (così: cioè incomprensibile) come per altri è il suo, che non è conosciuto da nessuno.

Nel libro della Genesi (X 8-10; XI, 1-9) Nembrot, nipote di Cam e re di Babilonia, è detto "forte cacciatore"; di qui è venuta probabilmente a Dante l’idea di assegnargli il corno col quale esprime la sua rabbia e il suo dolore. La letteratura patristica considera Nembrot responsabile della costruzione della torre di Babele. Per questo Dante lo colloca, insieme con i titani che sì ribellarono a Giove (veduto qui in quanto espressione dell’idea del divino), tra i guardiani dei nono cerchio e gli fa pronunciare la frase incomprensibile del verso 67. Questa espressione risulta dalla storpiatura di alcune parole ebraiche. In merito al suo significato ogni discussione appare superflua dal momento che Dante stesso ci avverte che la lingua che Nembrot parla non è conosciuta che da quest’anima confusa.

Percorremmo dunque un più lungo cammino, diretti verso sinistra; ed a un tiro di balestra incontrammo l’altro (gigante) molto più crudele nell’aspetto e più grande.

Chi fosse l’artefice che lo legò, non so dire, ma egli aveva piegato davanti il braccio sinistro e dietro il braccio destro

per mezzo di una catena che lo teneva legato dal collo in giù, in modo che essa gli si avvolgeva intorno per cinque giri nella parte visibile del corpo.

"Questo superbo volle sperimentare la sua forza contro l’altissimo Giove " disse Virgilio, " per cui ha una simile ricompensa.

Il suo nome è Fialte, e mostrò la sua grande forza al tempo in cui i giganti fecero paura agli dei: ora non muove. più le braccia che egli mosse. "

Figlio di Nettuno, il titano Efialte (o Fialte) fu tra i più accaniti nemici degli dei. Gli antichi poeti gli attribuivano il tentativo di dare la scalata all’Olimpo sovrapponendo il monte Ossa al monte Pelio. Questa pazzesca impresa - che presenta evidenti analogie con il motivo della costruzione della torre di Babele - determinò l’inizio della guerra fra dei e titani, guerra che si combatté nella pianura di Flegra e nella quale lo stesso Giove, preso dal panico, perdette la propria olimpica tradizionale maestà (cfr. canto XIV, versi 57-58). A proposito dei verso 96 acutamente osserva il Sapegno: "La pausa, che isola il verso, sottolinea il contrasto fra quella superbia smisurata e folle del titano, e l’impotenza, assoluta a cui l’ha ridotto l’inesorabile vendetta divina; il presente move, in antitesi con menò, dà risalto all’incolmabile diversità fra la dimensione umana e storica del tempo e quella divina, in cui presente ed eterno coincidono".

E io a lui: " Se fosse possibile, vorrei che i miei occhi vedessero l’immane Briareo ",

Per cui Virgilio rispose: " Tu vedrai qui vicino Anteo, che sa esprimersi e non è legato, il quale ci deporrà sul fondo dell’inferno.

Anteo, figlio di Nettuno e della Terra. non appare incatenato come gli altri giganti perché non prese parte alla lotta contro gli dei. Viveva, secondo quanto narra Lucano (Farsaglia IV, 590 sgg.), in una grotta della Libia, e si cibava di leoni. Fu ucciso da Ercole dopo un lungo e difficile combattimento. Il gigante infatti riacquistava le sue forze ogni volta che toccava terra. L’eroe greco lo fece morire tenendolo a lungo sollevato in aria.

Quello che tu vuoi vedere é molto più distante, ed è incatenato e ha la stessa corporatura di Fialte, tranne che appare più terribile nel volto ".

A Briareo, definito "immenso" da Stazio . (Tebaide Il, 596), la tradizíone aveva attribuito cento mani e cinquanta teste. Virgilio, descrivendo questo mostro (Eneide X, versi 565-568), "premette un dicunt, dicono, si dice; e Dante ha fermato questa riserva" (Mattalia). Il Sapegno mette in rilievo che "riducendo Briareo a normale figura di uomo, seppure gigantesco", Dante ci fornisce l’esempio di "una mentalità razionalistica, tipicamente medievale, che s’applicava soltanto ai particolari più inverosimili del dato leggendario, anziché aggredirlo e rifiutarlo nella tua integrità".

Mai vi fu terremoto tanto violento, che scuotesse una torre con lo stesso impeto con il quale fu pronto a scuotersi Fialte.

Allora più che mai ebbi paura della morte, e non vi sarebbe stato bisogno d’altro oltre la paura (perché io morissi), se non avessi veduto le catene.

Allora proseguimmo nel nostro cammino, e giungemmo presso Anteo, che sovrastava la parete rocciosa di oltre sei metri, se non si teneva conto della testa.

Alle: "alla - secondo l’Anonimo Fiorentino - è una misura in Fiandra... ch’è intorno di braccia due e mezzo". Il Poeta ci fornisce le misure del corpo di Anteo con un procedimento analogo a quello da lui usato per definire, nelle sue reali dimensioni, la grandezza di Nembrot: "invece di offrire la misura dell’insieme, Dante la sdoppia ponendo la necessità di una somma di due grandezze di per sé già eccezionali: l’effetto è la nozione visiva dei gigantesco, ma (e questa è la funzione dell’indicazione numerica) contenuto nei limiti" (Mattalia).

"O tu che nella fortunosa valle che fece Scipione erede di gloria, quando Annibale fu volto in fuga col suo esercito,

portasti un giorno innumerevoli leoni catturati, e che se avessi preso parte alla grande guerra dei tuoi fratelli, ancora vi è chi potrebbe credere

che avrebbero vinto i giganti (i figli della terra), deponici, e non sdegnare di farlo, dove il freddo congela le acque di Cocito.

Non ci fare andare né da Tizio né da Tifo (il primo di questi due giganti fu fulminato da Apollo per aver tentato di sedurre Latona, il secondo da Giove): il mio compagno può darti ciò che nell’inferno è desiderato (la fama tra i vivi); perciò abbassati, e non volgere altrove il viso.

Egli ti può ancora dare, gloria nel mondo. poiché egli vive, e attende ancora di vivere a lungo se la grazia divina non lo chiama a sé prima dei tempo. "

La preghiera che Virgilio rivolge ad Anteo "rivela indirettamente - scrive il Grabber - il carattere di questo e degli altri giganti, toccando ciò che può stimolare il loro animo: la superbia della forza e l’ombrosa velleità della fama". Si insinua, nelle parole del poeta latino, una sottile ironia (ancor par che si creda ... ), ma, accanto e al di là di questa ironia, il suo discorso ha un respiro, ampio e solenne. Per il solo fatto di essere vissuto nella valle che vide il trionfo di Scipione, nel 202 a. C. a Zama, sulle milizie cartaginesi dì Annibale, Anteo appare a Dante più nobile del suoi compagni, più degno di essere elogiato, partecipe, sia pure in modo oscuro ed indiretto, del compiersi provvidenziale di un grande disegno storico.

Così parlò Virgilio; e Anteo stese sollecito le mani, di cui Ercole aveva sentito una volta la stretta poderosa, e afferrò la mia guida.

Virgilio, quando si sentì afferrare, mi disse: "Avvicinati, così che io possa prenderti"; poi fece in modo che egli ed io formassimo un solo fascio.

Come appare la Garisenda (la minore delle due famose torri di Bologna) quando la si guarda dalla parte in cui è inclinata, allorché una nuvola passa sopra ad essa, in direzione contraria alla sua pendenza (sì, che ella incontro penda: sembra allora che la nuvola sia ferma e la torre stia per piombare a terra),

così apparve Anteo a me che facevo attenzione per vederlo nell’atto del suo piegarsi, e fu un momento tale che avrei voluto andare per un’altra strada.

Ma dolcemente ci depose sul fondo che imprigiona Lucifero e Giuda; né, così chinato, lì indugiò,

ma si levò diritto come in una nave l’albero.

La similitudine della Garisenda - nella quale la limpida osservazione di un dato reale si congiunge ad un senso allucinante di incubo - ripropone, in termini di movimento e dì miracolo, l’immagine delle torri che aveva fin qui definito staticamente, come masse minacciose ma immote, i giganti. Il carattere miracoloso della discesa dei due poeti dall’argine estremo dell’ottavo cerchio sul fondo del nono è espresso con particolare rilievo - attraverso un’avversativa e la netta contrapposizione, tonale e ritmica, dei due emistichi - dal verso 142. Il sovrannaturale si dispiega poi grandiosamente ai nostri occhi nell’immagine conclusiva del canto, analoga a quella che pone fine alla discesa di Gerione.





2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it