LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa

Paradiso: canto XXXIII

"Vergine madre, figlia del tuo figlio, la più umile e la più alta di tutte le creature, termine immutabile del decreto divino (per la redenzione dell’umanità),

La celebre preghiera alla Vergine che apre il canto XXXIII ha innumerevoli fonti storiche, dai testi evangelici a quelli liturgici, dagli scritti degli innografi medievali a quelli di San Bernardo (Benvenuto da Imola, il Buti e altri antichi commentatori sostengono che Dante, nella sua preghiera, avrebbe addirittura copiato una pagina di San Bernardo). Essa si può sostanzialmente dividere in due parti: la lode ( versi 1-21 ) e la supplica (versi 22-39). Le prime tre terzine alludono al ruolo terreno della Vergine nella storia della redenzione umana: i versi 1-3, che contengono l'invocazione. riassumono questo aspetto storico. Nei versi 10-13 Dante passa dall'aspetto storico a quello eterno, dagli atti di Maria alle sue virtù, contrapponendo al suo ruolo celeste (meridiana face di caritate) il suo ruolo terreno (di speranza fontana vivace) Le terzine seguenti (introdotte da un movimento graduale: se' tanto grande e tanto cali..., paragonabile a quello del verso 4 ) si riferiscono all'aspetto permanente della Vergine come madre di grazia e mediatrice; i versi 19-21, che concludono l'elogio vero e proprio, sintetizzano quest'ultimo compito, elencando le virtù di Maria: la misericordia verso l'umanità, la pietate verso Dio e l'umanità, la magnificenza nel suo operare.
Da questa breve analisi risulta chiaramente che nei versi di questo elogio le immagini e le figure presentano, in un movimento ampiamente comprensivo, il destino del mondo. Per tale motivo la seconda parte, quella della supplica, che a una prima lettura può sembrare autobiografica, non deve essere considerata una lirica confessione di debolezza e di sconforto ( come sarà la preghiera alla Vergine del Petrarca ), bensì un'altra affermazione che la vicenda del pellegrino-Dante e la vicenda esemplare dell'umanità, dal peccato alla salvezza.
Non crediamo utile insistere sui vari aspetti di questi due momenti o di vedere la poesia solo "dal punto in cui l'inno si fa preghiera" (Bacchelli), ma piuttosto porre in rilievo che "Dante è nella prima parte sobrio, rapido nelle sintesi, disdegnoso dei passaggi larghi ed esplicativi; mentre nella seconda... si concede ad una cantante amplificazione, quasi ad una narrazione sofferta e gaudiosa insieme" (Vallone), cosicché c'è nella sua preghiera "l'eloquenza di una iscrizione su un monumento alla vittoria" (Bianchi) e la "dolcezza d'un poema d'amore" (Auerbacht).

Ogni verso della prima terzina è la sintesi di quegli attributi che costituiscono l'eccezionalità della figura di Maria, di quegli aspetti umanamente paradossali che ne rivelano la misteriosa, divina maestà, Come Dio è misteriosamente uno e trino, così Maria è vergine e madre, creatura di Dio e, attraverso la persona del Verbo, che in lei assunse l'umanità, madre del suo Creatore. Il secondo verso ripropone le espressioni antitetiche del Magnificat (Luca I, 46-49): "L'anima mia magnifica il Signore... Perché ha rivolto i suoi sguardi all'umiltà della sua serva... Poiché grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, e Santo è il suo nome", mentre il terzo, anch'esso di origine scritturale (cfr. Proverbi VIII, 22-30), scandisce con il vigore essenziale di ogni sua singola parola, il concetto della predestinazione, ab aeterno, dell'incarnazione e della Redenzione.

tu sei colei che nobilitasti tanto la specie umana, che il suo Creatore non disdegnò di farsi umana creatura.

Nel tuo ventre si accese l’amore ( di Dio per gli uomini) per il cui calore è germogliata nell’eterna pace del paradiso la rosa dei beati.

L'amore di Dio verso l'umanità, spento dopo il peccato di Adamo, ha riaperto alle creature, attraverso l'incarnazione e la passione di Cristo, e, quindi, attraverso la mediazione della Vergine, le porte dell'Empireo.

In cielo sei, per noi beati, una fiaccola di carità ardente come sole meridiano, e in terra, fra i mortali, sei sorgente inesauribile di speranza.

La grandezza di Maria viene espressa, come nei versi 1-6, attraverso due opposti aspetti della sua infinita virtù: dal calore della carità (meridiana face) alla freschezza ( fontana vivace) della speranza. Intermediaria fra Dio e gli uomini, la Vergine è il simbolo vivente dell'amore divino, che per i beati è ardore e appagamento e per i viventi è speranza di salvezza eterna.

Signora (donna: dal latino domina, "padrona", "signora"), sei tanto grande e hai tanto potere (presso Dio), che chiunque voglia la grazia divina e non ricorra a te, nutre un desiderio vano, come di chi voglia volare senza ali.

In questi versi Dante ribadisce la dottrina fondamentale di San Bernardo, quella, cioè, della intercessione universale di Maria. Da lei, dove il Verbo ha preso carne, ha avuto inizio la redenzione e da lei deriva, per gli uomini, ogni grazia (anche Dante, infatti, ha attribuito la propria salvezza all'intervento di Maria: cfr. Inferno II, 94-96).

La tua bontà non solo viene in aiuto a chi l’invoca, ma molte volte previene spontaneamente la preghiera.

In te si raccolgono misericordia, pietà, munificenza, tutto ciò che di buono può esserci in una creatura.

Ora questi (Dante), che dal luogo più basso dell’universo (cioè: dall’inferno) fino all’Empireo ha visto, ad una ad una, le diverse condizioni delle anime separate dal corpo,

Poiché lacuna (laguna) indica il luogo in cui ristagnano le acque, alcuni interpreti moderni ritengono che il Poeta, con l'espressione infima lacuna dell'universo, alluda non a tutto l'inferno, ma solo al fondo di esso, occupato dal Cocito, 'l più basso loco e 'l più oscuro (Inferno IX, 28). Poiché dal Cocito Dante è salito subito nel purgatorio, le vite spiritali designerebbero solo le anime del secondo e del terzo regno, mentre appare chiaro che il Poeta vuole qui poeticamente riassumere le due tappe estreme del suo viaggio, l'inferno e il paradiso. Non può, infatti, sfuggire il valore significativo di questo ritorno di Dante al cammino percorso nel momento in cui sta per giungere al suo termine, di questa rievocazione di tutta la storia della Commedia, rievocazione assorta nella preghiera e nella preghiera fissata nel suo significato essenziale: or questi che dall'infima lacuna dell'universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una. Contemplate da questa altezza, scompaiono tutte le forme particolari. Rimane solo un luogo remotissimo, indicato con una espressione indeterminata quanto grandiosa, il luogo dove la sua esperienza ha avuto inizio ( l'infima dell'universo). Secondo il Fubini sarebbe sconveniente "in un momento come questo e a uno spirito quale Bernardo fermare il pensiero e lo sguardo su di un luogo particolare dell'inferno... Che altro è invece l'inferno ormai per il santo contemplatore se non un vano che s'apre nell'aiuola terrestre, una vera e propria lacuna...?"

ti supplica (il verbo è costruito, come in latino, con il dativo) affinché, per grazia divina, gli sia concessa tanta virtù, da poter contemplare la visione suprema di Dio.

Ed io, che non arsi mai dal desiderio di vedere Dio più di quanto ardo ora perché sia concesso a lui (Dante) di vederLo, innalzo a te tutte le mie preghiere, e supplico che non siano insufficienti,

affinché tu, con la tua intercessione, lo liberi da ogni impedimento terreno, così che possa apparirgli in tutta la sua grandezza Dio, la suprema beatitudine.

Ancora ti prego, o regina, che puoi ciò che vuoi, di mantenere puri, dopo una simile visione, i suoi sentimenti.

Dopo le parole di lode (versi 1-21), che già hanno trasportato il tono del canto ad un'altezza sovrumana, più intenso e appassionato si fa il moto dell'animo verso l'altissimo termine di ogni desiderio (la visione di Dio) e motivo esplicito della preghiera diventa l'incommensurabile distanza fra l'uomo e la divinità. La parola di San Bernardo, il quale alla tacita preghiera di Dante, di cui si fa interprete, aggiunge la sua (ed è evidente - scrive il Fubini - "il contrasto fra l'umile " supplica " del vivo, e tutti miei prieghi ti porgo del beato anzi del fedele della Vergine ), ascende di terzina in terzina, con un giro ritmico amplissimo. Le interruzioni dei relativi ( or questi, che dall'infima lacuna... e io, che mai per mio veder...), e degli incisi (per grazia... e priego che non sieno scarsi), il ritorno continuo delle finali (che possa con li occhi levarsi... perché tu ogni nube li disleghi... che conservi sani...), rallentano il ritmo rendendo sensibile lo sforzo dell'animo che si inarca verso l'alto e, quindi, il senso della sublimità dell'oggetto a cui esso tende. Pur nella compostezza e nella consapevolezza del modo oratorio (tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi ) la seconda parte della preghiera è pervasa dalla tiepida sollecitudine di San Bernardo, che chiede per Dante una grazia cosi straordinaria da sembrare superiore al suo stesso ardore di carità (versi 28-29): nei versi 28-30 non solo si realizza il precetto evangelico sulla carità dei beati (Matteo XIX, 19), ma, quasi al termine della sua preghiera, trova coronamento la raffigurazione della paterna figura di San Bernardo. Per quanto riguarda i versi 34-36 si ritiene, solitamente, che il Santo rinnovi la preghiera di Dante a Beatrice. perché gli sia concesso di vivere e di morire nella grazia di Dio, dopo il raggiungimento della visione finale (canto XXXI, versi 88-90). In realtà le parole di San Bernardo, che si preoccupa di ricordare esplicitamente l'onnipotenza della Vergine, sembrano rivestire un significato più preciso, per cui l'espressione dopo tanto veder non ha più soltanto il valore di una designazione cronologica. Dante poteva ritenere che le parole bibliche "un uomo non può vedere me e restar vivo" (Esodo XXXIII, 20) ammettessero, per una concessione straordinaria, un'eccezione, ma doveva pensare con un senso di sgomento allo stato di colui che dalla Grazia è stato levato così in alto. Come poteva un uomo, dopo aver visto Dio, staccarsi dal bene supremo per continuare a vivere fra gli uomini? Non c'era forse, in quella sua condizione di privilegio, un maggior pericolo di peccato ( il peccato di Lucifero, il peccato della superbia, cioè della conoscenza non più consapevole dei suoi limiti) ? Per questo nell'imminenza della visione il Poeta sente come non mai la sua debolezza d'uomo e invoca, attraverso San Bernardo, il soccorso di chi può proteggerlo dai pericoli ai quali è soggetta l'umanità.

La tua tutela raffreni (in lui) le umane passioni: guarda Beatrice e quanti beati congiungono le mani in atto di preghiera per avvalorare la mia domanda!"

Dopo l'accorata preghiera dei versi 34-37, in cui maggiormente abbiamo avvertito l'umiltà dell'uomo di fronte alla divinità, i beati, e prima fra tutti Beatrice, si uniscono in un'immensa, corale, unita preghiera all'invocazione di San Bernardo per Dante, quasi a colmare, con un impeto di carità, l'infinita distanza che separa la creatura dal suo Creatore. L'Empireo, che era stato intravisto durante l'assorta preghiera alla Vergine con un'immagine appena accennata (verso 9), ricompare con una figurazione precisa, che un nome (ed è, ancora una volta, il nome di Beatrice) e un gesto tacito e unanime bastano a fissare al nostro sguardo. In questo quadro così semplice e potente (una "scena da affresco giottesco", per usare l'espressione del Croce), l'affetto, contenuto e dominato nella orazione, può manifestarsi nella pienezza del suo ardore. In questo momento "il silenzio è più eloquente del canto; e quegli immensi e salienti cerchi di mani supplicanti riportano un'altra volta sulla pagina, con due versi semplicissimi rilevati dal largo sfondo musicale della preghiera, la distesa di quell'eterna pace" (Momigliano).

Gli occhi da Dio amati e venerati, fissi sulla figura dell’orante, ci mostrarono quanto le fossero giunte gradite le devote preghiere;

poi si rivolsero alla luce eterna di Dio, nella quale non si deve credere che alcun’altra creatura possa penetrare tanto a fondo con uno sguardo così limpido (come quello della Vergine) .

La lezione s'invii è quella accolta dalla maggior parte dei commentatori moderni, mentre quelli antichi preferivano inii: "è tanto a dire come diventare simile di quella cosa ch'è considerata" (Lana). Secondo il Buti, invece, "iniare" significherebbe "far entrare", "mettere dentro".
Ogni figurazione, ogni nome, anche il più augusto e il più sacro, non risultano più appropriati per la Vergine, della quale il Poeta ricorda solo lo sguardo, li occhi da Dio diletti e venerati, che ne rivelano l'intimo come nessuna parola di lode, nessuna rappresentazione poetica aveva finora fatto, Non una parola, non un sorriso, non un cenno d'assenso: "soltanto uno sguardo sovrumano, col quale e per il quale si compie il desiderio di Dante. Dio resta e resterà... nascosto in tutto il canto: né era possibile al nostro Poeta significare il consenso divino in un'immagine, ma quel consenso egli ha rappresentato indirettamente con questo sguardo, che ci dà il senso di trovarci di fronte al mistero della divinità'' (Fubini). Nulla può adeguarsi alla "eloquente regalità di quegli occhi lontani e misericordiosi... Beatrice, dal suo altissimo scanno, sorride - e non potrebbe non sorridere - all'estrema devota apostrofe di Dante: è l'ultima risposta di amante ad amante. La Vergine non può sorridere: è troppo distante e regale per un gesto di tenerezza umana: bastano quegli occhi fissi, a significare il suo assentimento" (Chimenz) e a riportare gli sguardi del pellegrino e di tutti i beati sulla luce di Dio, sfolgorante nella sua eterna immobilità, nella sua inattingibile profondità.


Ed io che mi avvicinavo al fine di tutti i miei desideri, portai al grado massimo di intensità, così come era giusto, l’ardore del mio desiderio.

Bernardo mi faceva cenno e sorrideva perché guardassi in alto; ma io mi ero già messo spontaneamente nella disposizione d’animo che egli voleva ( cioè: pronto a contemplare Dio ),

perché il mio sguardo, diventando limpido, penetrava sempre di più nel raggio della luce divina che è vera per sua propria essenza (diversamente dalle altre che sono un suo riflesso).

Da questo momento in poi la mia di vedere fu maggiore della nostra possibilità di esprimere con le parole ( ciò che vediamo), perché ogni linguaggio umano viene meno (di fronte a tale visione), e (anche) la memoria cede di fronte a ciò che va al di là delle nostre capacità.

Come colui che vede in sogno qualcosa, e dopo il sogno gli rimane impressa (nell’animo) l’emozione provata, ma il contenuto della visione non ritorna alla sua memoria,

in questa condizione mi trovo io, perché è scomparsa dal ricordo quasi tutta la mia visione, ma ancora sopravvive (distilla: fa piovere qualche stilla) nel mio cuore la dolcezza del sentimento che da essa si generò.

Dopo la preghiera alla Vergine, la figura di San Bernardo, - non diversa da quella che il Poeta si è trovata vicino al momento della scomparsa di Beatrice, sorridente come allora di un sorriso paterno, pronta ad allontanare dall'animo del suo discepolo ogni titubanza, ogni smarrimento - resta solo un attimo al fianco di Dante, ormai disposto alla contemplazione di Dio. Assolto il suo compito, il Santo scompare e la sua scomparsa segna, al tempo stesso, il momento del distacco di Dante da tutto ciò che non è la visione di Dio. Inizia anche la seconda parte del canto, dominata da due motivi: la sublimità della visione che attira a se l'animo di Dante e l'ansia dell'anima che a quel momento ritorna per tentare - invano - di ritrovare quella visione che gli è stata concessa, non riuscendo se non a fissare il sentimento di quell'oltraggio, di quella grandezza superiore a qualsiasi umana capacità. Che la parola e la memoria siano vinte dalla visione del paradiso è concetto espresso fin dall'inizio della terza cantica (essendo il senso dell'ineffabile il fondamento stesso della poesia del Paradiso), ma, di volta in volta, è stata presente la coscienza di un superamento continuamente possibile, il richiamo a qualcosa di ancora terreno: desideri, passioni, polemica, dottrina ecc. Qui ora si attinge l'assoluto dall'ineffabile. Il Sapegno, sintetizzando il giudizio di molti critici a proposito della seconda parte del canto XXXIII, cosi scrive: "Le tensione drammatica di queste pagine finali del poema... si determina nel contrasto fra la maestà superba del tema e la consapevolezza dell'insufficienza ad esprimerla con umane parole. In questa consapevolezza, che puntualmente si rinnova, la tesa volontà di vedere e di dire avverte il suo limite, ma al tempo stesso attinge di volta in volta lo stimolo a un ulteriore sforzo, a uno slancio più vasto. La poesia qui non sta, e non potrebbe stare, nella rappresentazione materiale di una realtà che è al di là di ogni figurazione sensibile e che Dante stesso non si stanca di dichiarare ineffabile; sì nell'espressione appunto di una situazione dell'anima, nella lucida e ferma attenzione con cui il Poeta illumina i momenti della sua drammatica conquista, del suo eroico sforzo di adeguare la propria vista al valore infinito, in una suprema esaltazione di tutte le sue facoltà intellettuali e delle sue energie volitive (direttamente opposta all'atteggiamento di rinunzia e di annichilamento dei mistici). E' chiaro che le immagini o le definizioni di cui Dante si serve per dare un'idea dell'oggetto della sua visione non sono più che suggerimenti e pretesti e stimoli all'illustrazione di questo dramma dell'intelligenza, validi soltanto per il residuo emozionale, che attraverso di essi riesce a sopravvivere, di un'esperienza esaltante (versi 58-66). Ma l'accento poetico batte, non certo su quegli accenni sommari e provvisori di rappresentazione, bensì sulla presenza strenua del protagonista, sui versi che scandiscono il tema eroico della sua lotta e del suo parziale trionfo (versi 52-54, 67-75, 79-84, 97-99, 133-138), in un ritmo di solenne epopea, dove anche le note malinconiche suonano grandi e persino le dichiarazioni di insufficienza artistica e di umile rinunzia si coloriscono di una luce superba di antica favola (versi 94-96)".

(Come viene meno, a poco a poco la visione) così la neve si scioglie (si distilla: perde la sua forma) al sole; così si perdevano al vento i responsi della Sibilla scritti sulle foglie leggiere.

La sentenza di Sibilla: la Sibilla Cumana scriveva i suoi enigmatici responsi su foglie subito disperse dal vento che penetrava nel suo antro (Virgilio - Eneide III, 441-452), così che di essi non restavano che singole parole, confuse, e di senso inafferrabile.
I versi 58-66 possono considerarsi il nodo centrale del canto XXXIII, perché il Poeta tenta di definire la sua visione: non il contenuto, ma quello che di essa, vivissimo, attuale, perenne, è rimasto nel suo cuore: il ricordo dell'impressione, o, come egli dice, della passione, con un latinismo di cui nessun vocabolo dell'uso moderno rende la pregnanza dei significati e il valore sentimentale. Questo tentativo trova la sua giustificazione in un passo di San Tommaso, il quale, parlando di San Paolo che, rapito al terzo cielo, vide l'essenza di Dio, afferma che "dopo che cessò di vederla, si ricordò di quelle cose, che in quella visione aveva appreso... rimaste, dopo il fatto, nell'abito del suo intelletto", sebbene "né potesse pensare tutto quel che aveva conosciuto, né esprimerlo con le parole" (Summa Theologica II, II, CLXXV, 4). A questa mirabile esperienza psicologica, un'estasi che ha lasciato dietro di se un'indefinita dolcezza, un gioioso stupore - si adegua perfettamente lo stile. L'esattezza dell'osservazione di un fatto umano (qual è colui che somniando vede) è subito trasfigurata dalla rarefazione della parola (l'altro alla mente non riede), la concretezza dei riferimenti precisi (cotal son io) si scioglie e si perde nell'incanto musicale di certe espressioni (mi distilla... il dolce che nacque da essa).


O somma luce che tanto ti innalzi al di sopra della possibilità dell’umano intelletto, ridona alla mia memoria un’immagine, sia pur tenue, di quello che sei apparsa alla mia vista,

e fa che le mie parole siano tanto capaci, da poter descrivere per le genti future almeno una piccola parte della tua gloria,

perché ( coloro che leggeranno la mia opera) potranno avere un concetto più chiaro della tua trionfante grandezza se essa tornerà in parte alla mia memoria e potrò celebrarla in piccola misura in questi versi.

Io credo che, a causa dell’intensità del fulgore divino che la mia vista sopportava, sarei rimasto abbagliato, se i miei occhi non si fossero distolti da quel fulgore.

E mi ricordo che proprio per questo ( per il timore di rimanere abbagliato se avessi distolto subito lo sguardo ) mi feci ardito a sopportare ( l’intensità della luce divina ), tanto che congiunsi il mio sguardo con Dio.

O abbondante Grazia, per la quale osai penetrare con lo sguardo nella luce eterna di Dio, tanto che esaurii in essa ogni capacità di vedere!

Tutta l'ultima parte del canto si svolge per episodi drammatici, costituiti dalle successive tappe della visione e seguiti da un accompagnamento lirico, che è il commento degli episodi stessi, nel quale, accanto al rendimento di grazie a Dio, è espresso il sentimento del Poeta, l' "ansietà di dire e sgomento di non potere e pur ardimento di dire" (Del Lungo).
L'inizio del dramma è costituito dalla sopraffazione della luce divina, la quale, a differenza della luce solare che abbaglia, fortifica l'occhio e lo rende capace di una maagiore, contemplazione (versi 76-78). "Qui è l'impostazione del dramma: il seguito non sarà che lo sviluppo di questo momento. Sentite la sofferenza del raggio che penetra, perfora le pupille mortali di Dante; ma a tanta sopraffazione Dante non cede. non si atterrisce, non s'annienta [il suo atteggiamento è, dunque, l'opposto di quello del mistico, che si abbandona nel mistero divino]; con un'istantanea determinazione della volontà, reagisce facendosi ardito a sostenere, con gli occhi aperti, l'insostenibile luce. E all'ardimento risponde immediato il premio: gli occhi suoi, per entro la luce, vedono l'essenza divina." (Chimenz). A questo prologo del dramma sacro segue il commento lirico dei versi 82-84, nei quali, alla balda e lieta consapevolezza della prima vittoria, si unisce il sentimento della gratitudine.


Nel profondo della luce divina vidi che era contenuto, legato in un amoroso vincolo d’unità, ciò che nell’universo appare diviso e sparso;

ciò che sussiste per sé e ciò che sussiste in dipendenza dalle sostanze e i loro rapporti, come fusi fra di loro, in modo così mirabile che le mie parole possono esserne una vaga illustrazione.

Credo di aver visto il principio costitutivo dell’unione di tutte le cose perché, dicendo queste cose, sento maggiormente dilatarsi di gioia il mio cuore.

In questa terzina il Poeta applica quanto ha già affermato nei versi 58-66: anche se la memoria non ricorda tutto, la certezza della visione nasce dal sentimento di gioia rimasto impresso nel suo cuore.
Nei versi 85-93 Dante tenta di esprimere, servendosi della terminologia scolastica, il concetto metafisico-teologico dell'unità, in Dio, delle infinite forme dell'universo. Ciò che è disperso nello spazio e nel tempo del mondo, ciò che è diverso e limitato, è tutto riunito in Dio. Il vincolo che lega le cose a Dio e le cose tra loro, è un vincolo d'amore, fondato sull'amore creativo di Dio, che ha tratto dal nulla ogni cosa perché ciascuna, tendendo a Lui, trovi la sua perfezione. Nell'essenza divina, le sostanze, gli accidenti, le loro proprietà e i loro rapporti coesistono senza che sia possibile distinguerli.


Un solo attimo ( il momento della visione divina) è per me causa di maggior oblio che non i venticinque secoli passati dall’impresa ( degli Argonauti), quando l’ombra proiettata dalla nave Argo suscitò lo stupore di Nettuno.

Che fé' Nettuno ammirar l'ombra d'Argo: Argo, che trasportava Giasone e i suoi compagni dalla Grecia verso la Colchide per conquistare il vello doro, fu la prima nave a solcare il mare (nel 1223 a. C., secondo la cronologia medievale), suscitando, con la sua ombra, lo stupore di Nettuno, dio del mare.
La visione di Dio ebbe la durata di un attimo, ma la mente del Poeta si sprofondò in essa tanto da non ricordare più nulla, come se si fosse immersa negli abissi del tempo. L'impresa di Argo, agli albori dell'umanità, giunge ancora a noi, dopo venticinque secoli (si noti come Dante la rievochi efficacemente, descrivendo non la nave, ma lo stupore di Nettuno), mentre della sua visione egli non ricorda se non la dolcezza dell'emozione. Questa rievocazione favolosa non è, come è sembrato al Casella, di danno "alla chiarezza del concetto e alla perspicacità del sentimento"; ma trasporta la narrazione della sacra visione nell'atmosfera dei miti antichissimi, " forse, sì, con una leggera deviazione del sentimento strettamente religioso, ma con un suggestivo accrescimento del senso leggendario della visione stessa" (Chimenz).


(Come l’ombra della nave fece stupire Nettuno) così la mia mente, tutta assorta, mirava fissa, immobile e attenta, e si accendeva continuamente di nuova gioia contemplativa.

Alla luce divina si diventa tali, che è impossibile che qualcuno mai voglia distogliersi da essa per guardare un altro oggetto,

perché il bene, che è l’oggetto verso il quale si muove ogni volontà, è raccolto tutto in quella luce; e fuori di essa non c’è che bene imperfetto (letteralmente: è difettivo ciò che lì è perfetto).

D’ora in poi le mie parole, sia pure limitate a quel poco che ricordo, saranno più insufficienti del balbettio di un lattante.

Non perché ci fosse più di un unico aspetto nella luce divina che io contemplavo, la quale luce è sempre quale era prima, immutabile,

ma, per il fatto che, mentre guardavo, le facoltà visive si rafforzavano in me, uno stesso oggetto (in questo caso: Dio), con il mutare delle mie capacità visive, passava da un aspetto all’altro.

Dopo quattro terzine (versi 97-108) nelle quali il Poeta sembra cercare e non trovare le parole adatte ad esprimere la sovrumana tensione delle sue attività spirituali, inizia, con i versi 109-111, la rappresentazione del secondo episodio, tutto basato su un azione esteriore che si risolve in un processo interiore. Dio è uno e immutabile, ma l'uomo può contemplarlo solo penetrandovi a poco a poco, distinguendovi, in una successione temporale, diversi aspetti. In questo tramutarsi della vista umana di fronte all'essenza immutabile di Dio poteva insinuarsi il pericolo di creare un clima di magiche metamorfosi, ma la potenza e la severità della rappresentazione drammatica, pari alla altezza e alla complessità del concetto, creano un momento poetico di solenne religiosità, che prepara la contemplazione del mistero trinitario.

Nella profonda e luminosa essenza della luce divina mi apparvero tre cerchi di tre colori diversi ma della stessa dimensione;

e uno di essi appariva riflesso dall’altro come un arcobaleno da un altro arcobaleno, e il terzo appariva come un fuoco spirante in uguale misura dai primi due (quinci e quindi: da una parte e dall’altra).

I tre cerchi rappresentano le tre persone della Trinità, uguali fra loro (i giri hanno un uguale contenenza) e distinte negli attributi (i giri sono di tre colori) . Il primo cerchio è il Padre, il secondo, dal primo riflesso, è il Figlio, generato dal Padre, il terzo è lo Spirito Santo, che è amore e "spira" dal Padre e dal Figlio.
Volendo offrire una rappresentazione grafica e dando a contenenza il significato di superficie, si potrebbero pensare i tre giri come superfici concentriche, di cui due anulari e la terza (al centro) a disco pieno, oppure come tre cerchi iscritti, come tre meridiani, in una medesima sfera. In un caso come nell'altro la visione è inafferrabile, in termini umani, perché i tre cerchi sono assolutamente uguali, occupano lo stesso spazio, eppure sono chiaramente distinti. Nell'immagine ridotta all'essenziale, il linguaggio è quello astratto della matematica, ma ciò che suscita la commozione dell'animo non è il disegno, bensì il senso di stupore per quell'incomprensibile rivelazione, per quel mirabile mistero di luci iridate e fiammeggianti.


Oh come è insufficiente e debole la mia parola rispetto al concetto! e questo, in confronto a ciò che vidi, è così poca cosa, che la parola "poco" non basta ad indicarlo (perché bisognerebbe dire "nulla").

O luce eterna che sei una sola nella tua sussistenza (sola in te sidi: in te sola ti posi), che sola ti intendi, e nell’essere intesa e nell’intenderti ti ami e gioisci!

Dio, la luce (I Epistola di Giovanni I, 5 e 7) che ha in sé la sua ragione d'essere, può conoscersi compiutamente solo da se stesso (Convivio II, V, II). Questa luce è intendente se stessa, in quanto Padre, è intelletta da se stessa, in quanto Figlio, "ama" e "arride" se stessa in quanto Spirito Santo ( cfr. Matteo XI, 27; Giovanni X, 15). Il Paradiso che si è aperto con l'argomento dell'ordine universale impresso da Dio nelle cose, si chiude con la visione della Trinità nella quale l'ordine è così perfetto che le tre persone sono una sola sostanza, non chiusa nella sua staticità, bensì percorsa nel proprio intimo da un'infinita circolazione di vita.

Quel cerchio che appariva in te generato come luce riflessa (dal primo cerchio), dopo che l’ebbi guardato tutt’intorno per alquanto tempo,

mi apparve dipinto, nel suo interno, con il suo stesso colore, dell’immagine umana; per la qual cosa il mio sguardo si fissava tutto in esso.

Nel secondo cerchio appare, agli occhi di Dante, il mistero dell'incarnazione, per il quale la persona del Verbo, nulla perdendo della sua divinità (del suo colore stesso), assunse anche la natura umana (pinta della nostra effige).
Quanto più la visione assume qui un carattere simbolico, tanto più ciò che di inevitabilmente materiale è in queste immagini, viene completamente assorbito dalla musica della poesia, completamente materializzato nell'atmosfera inesprimibile che la parte precedente del canto ha saputo determinare.


Come il geometra che si concentra con tutte le sue facoltà mentali per trovare l’esatta misura del cerchio, e, per quanto pensi, non trova il principio di cui ha bisogno,

Dante allude, in questa similitudine, all'insolubile problema della quadratura del cerchio, cioè al problema dell'esatto rapporto fra la misura del diametro e quella della circonferenza.

in questa stessa situazione mi trovavo io di fronte a quella visione straordinaria: volevo comprendere come l’effigie umana si adattasse alla forma del cerchio e come potesse trovarvi luogo (cioè: volevo comprendere il mistero della coesistenza in Cristo della natura divina e di quella umana);

ma le mie ali non potevano farmi volare tanto in alto: se non che la mia mente fu percossa da un’illuminazione per mezzo della quale avvenne ciò che essa desiderava.

Incapace di comprendere con il proprio intelletto il mistero dell'incarnazione (il mistero più grande, accanto a quello della Trinità), la mente umana viene illuminata direttamente da Dio, che le infonde l'intuizione dell'unione delle due nature in Cristo.

A questo punto alla fantasia, che si era innalzata a tanto , venne a mancare la forza (di seguire l’intelletto in questa intuizione): ma già ogni mio desiderio e ogni mia volontà, erano mossi come ruota che gira con moto uniforme,

da Dio, l’amore che imprime movimento al sole e alle altre stelle.

Insieme con la fantasia, che, essendo virtù "organica" ( Convivio III, IV, 9 ), non può seguire l'intelletto nella sua intuizione del trascendente, viene meno anche ogni possibilità di rappresentazione poetica nel momento in cui Dante raggiunge il fine ultimo del suo viaggio, quel fine per il quale l'uomo è stato creato: la beatitudine eterna. In questo momento Dio guida l'intelligenza ( disio: ansia del conoscere ) e l'amore della sua creatura imprimendovi il moto uniforme di una ruota che gira intorno al suo perno: "l'intelletto creato e il libero volere, che è fulcro della personalità, non che annientati, sono anzi sublimati in un immutabile atto... di visione e d'amore" (Nardi), con un "moto circolare ed uniforme che esprime la perfetta concordia del volere umano col volere divino".



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