LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


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Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XXXIII

Quel peccatore sollevò dal pasto feroce la bocca, pulendola con i capelli della testa che egli aveva roso nella parte posteriore.

Il canto XXXII si è chiuso su una nota di cupa attesa: dal modo in cui il Poeta si è rivolto al dannato che rodeva il teschio del suo compagno, e soprattutto dalle ultime parole da lui pronunciate (se quella con ch’io parlo non si secca), si è sprigionata un’intensa, trattenuta commozione. Il canto XXXIII inizia con un’intonazione epica, solennemente scandita, che riscatta l’orrido dei singoli particolari. "La bocca, così in cima al verso, ha un gran rilievo. E bocca, dove potrebbe dirsi anche testa, ha una convenienza particolare: l’anima di Ugolino è tutta nella bocca, e il pensiero di Dante spettatore e di noi lettori è tutto a quella bocca, che smette un’operazione orribile e si dispone a un racconto terribile... Quel forbirsi la bocca, che in sé sarebbe cosa non solo da uomo ma di galateo, e quei capelli, che pur essi ci richiamano all’umano, ci fanno inaspettatamente sentire ancor più l’inumano del pasto stesso e volgon poi in nuova inumanità l’accessorio che parea tornarci all’umano." (D’Ovidio). Il modo in cui la chiusura del canto XXXII si lega all’esordio del canto XXXIII ripropone, da un punto di vista formale, la soluzione adottata da Virgilio per legare il I al Il libro dell’Eneide. Anche l’inizio del secondo racconto di Francesca (canto V, versi 121-126) deriva dal Il libro dell’Eneide (versi 3-13), "ma - rileva il D’Ovidio - i due esordi danteschi hanno accenti diversi tra sé, e diversi rapporti col modello. Francesca mantiene il tono elegiaco di Enea, sebben lo faccia più molle e accorato, come pure più sobrio. Enea e Francesca son sedotti a parlare dal sentimento pietoso che muove la curiosità di chi gl’interroga, cedono per non saper resistere all’altrui simpatia amorevole, chiamano amore o affetto quella curiosità. Ugolino chiama con parola più violenta disperato il suo dolore, e dice energicamente che gli preme il cuore, al solo pensarci; ma cede all’odio, alla speranza d’infamare peggio il suo nemico".

Poi incominciò a dire: "Tu vuoi che io rinnovi un dolore disperato che mi opprime il cuore al solo pensarci, prima che io ne parli.

Ma se le mie parole devono essere causa d’infamia per il traditore che io rodo, mi vedrai al tempo stesso parlare e piangere.

Non so chi sei né in quale maniera sei arrivato quaggiù; ma quando ti odo parlare mi sembri davvero fiorentino.

Devi sapere che fui il conte Ugolino, e questo è l’arcivescovo Ruggieri: adesso ti dirò perché sono per lui un vicino siffatto.

Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, signore di numerosi castelli nella Maremma pisana e in Sardegna, fu uno dei personaggi più in vista nelle vicende che travagliarono la vita politica pisana tra il 1270 e il 1289. Appartenente ad una famiglia ghibellina, favorì, insieme col nipote Nino Visconti, l’instaurazione nella ghibellina Pisa di un governo favorevole ai Guelfì e, raggiunta una posizione di predominio nella direzione degli affari della città, comandò la flotta pisana che fu sconfitta dai Genovesi alla Meloria (1284).
Nel 1285~1286, essendosi Genova alleata con Lucca e con Firenze, cedette a queste ultime alcuni castelli pisani, nella speranza di indurle a separarsi da Genova. Nel 1288 tentò di far cadere in disgrazia presso il popolo Nino Visconti, con il quale aveva governato fino allora, per accentrare nelle sue mani tutta la direzione della cosa pubblica, ma, catturato con l’inganno dai Ghibellini, capeggiati dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, fu imprigionato, accusato di tradimento e lasciato morire di fame insieme con due figli (Uguccione e Gaddo) e due nipoti (Anselmuccio e Nino, detto il Brigata) nella torre dei Gualandi nel febbraio 1289.
Ugolino si trova nel nono cerchio non tanto per la cessione dei castelli ai Lucchesi e ai Fiorentini . cessione che gli fu imputata a tradimento dai suoi avversari politici - quanto, più probabilmente, per le sue mene ai danni del partito ghibellino e del nipote Nino Visconti, giudice di Gallura, di cui Dante fu molto amico, come dimostrano i versi 53 sgg. del canto VIII del Purgatorio. Ma, come ha ben mostrato il De Sanctis, nell’episodio che lo ha per protagonista "Ugolino non è il traditore, ma il tradito. Certo, anche il conte Ugolino è un traditore e perciò si trova qui; ma per una ingegnosissima combinazione, come Paolo si trova legato in eterno a Francesca, Ugolino si trova legato in eterno a Ruggiero, che lo tradì, legato non dall’amore, ma dall’odio... Il traditore c’è, ma non è Ugolino; è quella testa che gli sta sotto a’ denti... che non mette un grido, dove ogni espressione di vita è cancellata, l’ideale più perfetto dell’uomo petrificato".
L’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, nipote del cardinale Ottaviano menzionato nel canto X (verso 120), capeggiò, nella seconda metà del secolo XIII, il partito ghibellino a Pisa; dopo l’imprigionamento di Ugolino assunse il governo della città col titolo di podestà.

Non occorre che io racconti come, avendo fiducia in lui, fui fatto prigioniero e poi ucciso, in conseguenza dei suoi intendimenti malvagi;

ma udrai quello che non puoi avere udito, cioè come la mia morte fu crudele, e potrai giudicare se egli non è stato colpevole nei miei riguardi.

Una piccola feritoia nel luogo chiuso (dentro dalla muda: muda era chiamato il luogo chiuso dove venivano tenuti gli uccelli nel periodo in cui cambiavano le penne) che a causa mia è soprannominato torre della fame, e nel quale altri devono ancora essere chiusi,

mi aveva già mostrato attraverso la sua apertura più lune (erano passati diversi mesi), quando io feci il sogno cattivo che mi svelò il futuro.

Costui (l’arcivescovo Ruggieri) mi sembrava capocaccia e signore degli altri cacciatori, mentre, cacciava il lupo e i suoi piccoli su per il monte (San Giuliano) a causa del quale i Pisani non possono vedere Lucca.

Egli aveva messo davanti a sé, sul fronte dello schieramento degli inseguitori, Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi (le tre principali famiglie ghibelline di Pisa) insieme con cagne fameliche (simbolo, secondo il Buti, del popolo minuto, "che comunemente è magro e povero"), sollecite a cacciare ed esperte.

Dopo una breve corsa il lupo e i lupicini mi sembravano stanchi, e mi sembrava di vedere lacerati i loro fianchi dalle zanne affilate.

Il sogno di Ugolino è una trasfigurazione simbolica del modo in cui fu catturato insieme con i figli e i nipoti e costituisce al tempo stesso un presagio della prossima fine. Osserva il D’Ovidio: "A Lucca ricorrevano per rifugio e per aiuto i Guelfi di Pisa, e l’ostacolo a toccar presto la terra amica era quel monte che ne sbarra la via... Tutta la caccia è come una proiezione campestre della... cattura [di Ugolino] in città, una trasformazione bucolica del fatto politico. E la più calzante rappresentazione topografica della sua mancata fuga a Lucca, era l’impacciata corsa del lupo al monte di San Giuliano... Questa viva immagine del suo passato, apparsagli con tanta evidenza, con un così stretto intreccio di persone vere e di chiari simboli, lo turba, gli sembra di pessimo augurio; e gli sembra che sia altresì una prefigurazione di un prossimo avvenire, in ispecie per quella lacerazione che ai fianchi dei lupi fanno le terribili cagne. Ugolino legge così chiaramente in ciò la sorte sua e dei suoi, che gli vien fatto di chiamare con vocabolo umano, lo padre e i figli, il lupo e i lupicini, e di esprimere con stanco e mesto ritmo la loro vana corsa, e di descrivere con passionata efficacia di parole e d’armonia imitativa lo squarciamento dei fianchi, come se si sentisse quei denti nelle proprie carni".

Quando fui sveglio prima dei mattino, udii piangere nel sonno i miei figli (Ugolino chiama così anche i suoi nipoti Anselmuccio e Nino), che erano con me, e chiedere del pane.

Sei davvero crudele, se fin da questo momento non provi dolore immaginando quello che il mio cuore presagiva a se stesso; e se non piangi, per che cosa sei solito piangere?

Erano ormai svegli, e si avvicinava l’ora in cui il cibo soleva esserci portato, e a causa del proprio sogno ciascuno aveva timore;

e udii inchiodare la porta inferiore della spaventosa torre; allora guardai negli occhi i miei figli senza pronunciare parola.

L’episodio, mantenuto inizialmente entro una cornice epica nella quale il solo personaggio di Ugolino ha avuto modo di imporsi alla nostra fantasia, come una "colossale statua dell’odio" (De Sanctis), acquista intimità di risonanze per il contrapporsi dei dolore dei figli, innocentemente pieni di fiducia nel padre, alla cupa e consapevole disperazione di costui.
Come ha osservato il De Sanctis, l’offesa arrecatagli dai suoi nemici non è rappresentata per Ugolino dalla sua morte, ma da quella dei suoi figliuoli. Il peccatore roso dall’odio e al quale l’odio stesso accresce a dismisura la pena ("Ugolino ha sotto i suoi denti il nemico, e rimane insoddisfatto, e non perché desideri una vendetta maggiore, ma perché non c’è vendetta che possa saziare il suo dolore, essere eguale al suo odio") si rivela un padre tenerissimo. "Ma in seno all’odio si sviluppa l’amore, e il cupo e il denso dell’animo si stempra ne’ sentimenti più teneri. Quest’uomo odia molto, perché ha amato molto... Ve ne accorgete al tono così tenero e molle del suo dire, quando per la prima volta mette in iscena i figli... Questa vista lo commuove tanto, che provoca la sua sdegnosa e brusca apostrofe a Dante, non commosso del pari al pensiero di ciò che "si annunziava" al cuore del padre. Quello che si annunziava era non il dover morire lui, ma il dover vedersi morire i figliuoli. E quando sente chiavar l’uscio di sotto all’orribile torre, il primo suo atto è guardare in viso i figliuoli, che non avevano sentito nulla ed erano ignari della loro sorte.
Una vena di tenerezza penetra in questa natura selvatica; l’amore paterno abbella la sua figura e raddolcisce anco il suo accento. Quella musica scabra ed aspra nel principio e nella fine, quella musica dell’odio ferino prende qui la morbidezza e la soavità quasi dell’elegia."

Io non piangevo, a tal punto l’animo divenne impietrito: piangevano loro; e il mio Anselmuccio disse: "Tu guardi in modo così strano, padre! che hai ?"

"Anselmuccio non sa definire, né spiegare - scrive il De Sanctis a proposito del verso 51 - quel modo di guardare... Lo strazio è tutto nella coscienza di quello sguardo senza parola e nell’innocenza di quello che hai? accompagnato con lacrime... E se un pittore dovesse scegliere un’attitudine sintetica che ti ponesse avanti i tratti sostanziali di questa poesia, sarebbe quest’essa: perché qui sei proprio al momento decisivo del racconto; ed hai già nella attitudine del padre e de’ figli tutt’ i motivi del più alto patetico."

Perciò non piansi né risposi tutto quel giorno e la notte successiva, finché non spuntò un’altra alba.

Sempre del De Sanctis, espositore ed interprete insuperato della poesia di quest’episodio, sono le seguenti osservazioni: "Se il padre prima non lacrimò e non fe’ motto perché rimase impietrato, ora non parla e non lacrima per non addolorare più i figli. L’amore gli vieta ogni espansione... quel padre dovrà divorare in silenzio il suo dolore, comprimere la natura, forzare la faccia ed il gesto, essere statua e non uomo, la statua della disperazione... La compressione è tanto più violenta, quanto maggiore è la tenerezza di quello che hai?, e quanto è più commovente quell’Anselmuccio mio, che ricorda tante care gioie di famiglia in tanto mutata situazione".

Non appena un po’ di luce riuscì a penetrare nella cella dolorosa, ed intravidi su quattro volti il mio stesso aspetto,

mi morsi entrambe le mani per il dolore; ed essi, credendo che lo facessi per desiderio di mangiare, si alzarono immediatamente in piedi,

e dissero: "Padre, sarà per noi un dolore assai minore se tu ti cibi delle nostre membra: tu (generandoci) ci facesti indossare queste carni infelici, tu privacene".

In questa tragedia priva di dialogo - che non sia quello muto degli occhi - e aliena da ogni forma di amplificazione (il racconto procede scandito dalle notazioni brevi che contrappongono al dolore del protagonista le misure di un tempo disumano, privo di speranza), i versi 58-63 rappresentano il momento di più accesa evidenza drammatica. Per intenderne l’intera portata occorre, tuttavia, non considerarli unicamente in rapporto alla funzione che svolgono nel quadro dell’episodio - quella di dare un’espressione visibile, disperatamente emblematica, alla sua più intima tensione (il motivo della fame, brutalmente accennato nel verso 127 del canto XXXII, si ripercuote qui. trasfigurato, nel gesto del padre, nella concorde offerta che i figli fanno delle loro misere carni) - ma ricollocarli, come fa ad esempio il Gallardo, nella cornice degli svolgimenti etico-religiosi della prima cantica. "Quel gesto di mordersi le mani suscita nei figli, nei giovani che la fame ha resi orinai quasi disumani, cui ha tolto fiducia e vitalità, un sentimento che è di affetto ancora per il padre, di disperato e disumano affetto, nel quale si riflette però istintiva la loro stessa fame, che li rende crudeli verso se stessi, e verso il misero padre al quale offrono le loro carni. Un atto di dedizione ispirato, più che dalla coscienza della sofferenza del padre, dalla loro stessa sofferenza fisica. A questo più veramente il momento culminante della tragedia, e quello che più duramente rispecchia l’atroce colpa di chi ha condannato esseri umani, teneri, affettuosi ed innocenti, a questa alienazione da se stessi: la colpa di chi freddamente ha deliberato su uomini, peggio, su giovani e innocenti. Una colpa che consiste nell’avere spinto esseri umani ad una degradazione, ad uno stato disumano: fino a rendere possibile anche il solo pensiero che un padre possa cibarsi delle carni dei figli."

Allora mi quietai per non renderli più tristi; rimanemmo in assoluto silenzio quel giorno e il giorno successivo: ahi, terra crudele, perché non ci inghiottisti?

Quando giungemmo al quarto giorno, Gaddo si gettò disteso ai miei piedi, dicendo: "Padre, perché non m’aiuti?"

Nota il Momigliano come il racconto di Ugolino sia "tutta un’alternativa di interminabili silenzi e di scatti improvvisi: di quando in quando la vita giovanile, lentamente soffocata dal destino, prorompe in un impeto inutile... E questo isola tragicamente il padre nel suo dolore, invocato invano dai giovani che cercano uno scampo verso la vita, oppresso, più che dalla sciagura, da quelle invocazioni a cui non può dar soccorso e da quelle parole di disperazione a cui non può dar risposta".

Morì lì; e così come tu vedi me, vidi cadere gli altri tre uno dopo l’altro tra il quinto e il sesto giorno; per cui incominciai,

ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di loro, e li chiamai per due giorni, dopo che furono morti: poi, più del dolore, ebbe potere su me il digiuno ".

Nella sua concisione il verso 75 stende un velo d’ombra sull’agonia di Ugolino, rimasto solo in mezzo ai corpi dei figli morti. "Verso letteralmente chiarissimo - osserva il De Sanctis - e che suona: più che non poté fare il dolore, fece la fame. Il dolore non poté ucciderlo; lo uccise la farne. Ma è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’ sentimenti e delle immagini che suscita, pei tanti " forse " che ne pullulano, e che sono così poetici. Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è un sentimento di disperazione. Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame più potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la voce. E’ un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti sulle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il delirio nell’inferno, perpetuando quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. E un sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile; ‘tutto questo può esser concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche parola, in qualche accessione d’idea."

Ciò detto, con gli occhi biechi, afferrò nuovamente il misero cranio coi denti, i quali furono, sull’osso, forti come quelli di un cane.

Ahi Pisa, onta dei popoli appartenenti all’Italia (del bel paese là dove ‘1 sì sona: dove la lingua usa come particella affermativa il "sì"), dal momento che le città vicine tardano a punirti,

si muovano la Capraia e la Gorgona (due isole del Tirreno, situate in corrispondenza della foce dell’Arno), e formino uno sbarramento allo scorrere dell’Arno nel punto in cui si versa nel mare, in modo che esso sommerga tutti i tuoi abitanti!

Poiché se correva voce che il conte Ugolino ti aveva tradita riguardo ai castelli (ceduti a Lucca e a Firenze), non dovevi sottoporre ad un tale supplizio i suoi figli.

La giovane età rendeva innocenti, o nuova Tebe (per la ferocia dei delitti in te perpetrati, non meno orribili di quelli compiuti dai discendenti di Cadmo), Uguccione e il Brigata e gli altri due che il mio canto ha menzionato in precedenza.

L’ira del Poeta contro coloro che hanno fatto morire, insieme con un presunto colpevole, quattro innocenti, prorompe in un’invettiva che si accorda allo stile dell’episodio del quale rappresenta la conclusione. Nella tragedia del conte Ugolino "c’è - scrive il De Sanctis - il colosso, c’è il gigantesco, dove la primitiva antichità esprimeva quei primi moti ancora oscuri della coscienza, quel sentimento della grandezza, dell’infinito, tanto più terribile alla fantasia, quanto... meno analizzato. Tale è il segreto di questi formidabili schizzi danteschi, così scarsi di sviluppi, così pieni di ombre e di lacune, che per sobrietà di contorno e di chiaroscuro ingigantiscono le proporzioni e i sentimenti... Questo è anche l’effetto di quel movasi la Capraia e la Gorgona. A la natura stessa che viola le sue leggi, esce dalla sua immobilità, acquista coscienza, anima e moto, e corre a punire la rea città. Una catastrofe tanto straordinaria di natura, una pena così fuori del corso ordinario delle cose alza la colpa allo stesso livello e le dà proporzioni colossali".

Passammo oltre, là dove il ghiaccio avvolge duramente un’altra moltitudine, non immersa verticalmente, ma tutta quanta supina.

I due poeti entrano nella terza zona di Cocito, nella quale sono puniti i traditori degli ospiti: la Tolomea. Essa prende nome da un personaggio di cui è fatta menzione nella Scrittura (I Maccabei XVI, 11-16): Tolomeo, che fece uccidere, durante un banchetto, il suocero Simone Maccabeo con i suoi due figli Giuda e Mattatia.

Il pianto stesso in quel luogo non consente di piangere, e il dolore che trova sugli occhi un impedimento, rifluisce dentro ad aumentare l’angoscia,

poiché le prime lagrime versate formano un nodo (di ghiaccio), e riempiono tutta la cavità dell’occhio sotto le ciglia, come visiere di cristallo.

E sebbene a causa del freddo ogni sensibilità avesse abbandonato la dimora del mio volto, così come accade per una parte callosa,

mi sembrava già di sentire parecchio vento: per cui dissi: " Maestro, chi lo produce? non è qui inesistente ogni vapore (manca infatti il sole che possa formare e sollevare il vapore per produrre il vento)? "

E Virgilio: " Presto sarai nel luogo in cui l’occhio, vedendo la causa (il movimento delle ali di Lucifero) che fa soffiare dall’alto il vento, risponderà alla tua domanda ".

Ed uno degli sciagurati immersi nella lastra gelata ci gridò: " Anime a tal punto spietate, che vi è assegnata l’ultima dimora,

Ultima posta: è l’ultima zona di Cocito, la Giudecca. Prende nome da Giuda e contiene le anime di coloro che hanno tradito i benefattori.

toglietemi dal volto il ghiaccio, in modo che io possa sfogare un poco (attraverso le lagrime) il dolore che riempie il mio cuore, prima che il pianto geli nuovamente ".

Contro la tesi del De Sanctis, il quale - equivocando tra "vita" naturalisticamente intesa e vita poetica, legittimata cioè sul piano dell’arte, dei personaggi della prima cantica - sosteneva che la vita dei dannati, già morta - secondo lui - fin dal pozzo dei giganti, e risorta poi quasi miracolosamente nell’episodio del conte Ugolino" tornava a morire "e per sempre, in questa terza sezione della gelata", il Chiari sottolinea il significato umano e la riuscita poetica delle parole che il primo traditore incontrato nella Tolomea rivolge a Dante: "par di sentire già in quella parola veli in contrasto con l’aggettivo duri, l’accenno ad una amarezza così sconsolata, che si esprime a volte in forma di fredda ironia, che è però espressione di rabbia e di disperazione, di quell’ironia, che è propria di chi si trova nelle più tristi condizioni e non ha che parole malvagie e per sé e per gli altri, e disperando di tutto e non trovando più lacrime per il suo dolore, si accanisce anche contro quelli stessi, che potrebbero in qualche modo aiutarlo, o commenta sarcasticamente, con sorriso livido e tristissimo, la terribilità della situazione".

Onde io: " Se vuoi che ti aiuti (ti sovvegna), dimmi chi sei, e se non ti libero dall’impedimento (del ghiaccio), possa io scendere fino in fondo a Cocito ".

I critici ritengono generalmente che Dante formuli questa sua promessa al dannato in modo volutamente ambiguo, per poterla poi trasgredire. Fin dall’inizio l’atteggiamento del Poeta sarebbe, secondo questa tesi, duramente polemico. Per il Barbi si tratterebbe invece di Il un giuramento vero e proprio, non mantenuto a ragion veduta quando Dante ha saputo con che razza di traditore aveva da fare".

Allora rispose: " Sono frate Alberigo; sono quello delle frutta delittuose, che qui sconto la mia colpa con una pena ancora più grave (il dattero è frutto più prelibato del fico)".

Il frate Gaudente Alberigo dei Manfredi di Faenza fece uccidere a tradimento due suoi congiunti mentre erano a banchetto insieme con lui (1285). I due - Manfredo e il figlio di lui Alberghetto - vennero trucidati da alcuni sicari quando frate Alberigo pronunziò la frase: "Vengano le frutta". L’espressione "le frutta di frate Alberigo" divenne proverbiale. Per questo il Poeta presenta il frate come quel dalle frutta del mal orto. Il particolare delle frutta - particolare reale, che assurge ad una funzione di primo piano, in esso manifestandosi per intero la natura malvagia del dannato - serve poi come spunto allo sviluppo metaforico del verso 120, dove la contrapposizione del dattero al figo ha un suono plebeo, di aspro e irriverente sarcasmo. L’abiezione dei peccatori di Cocito è denunciata dal fatto che nessuno di loro sente la maestà della giustizia che li punisce.

" Oh! " gli dissi, " sei già morto? " Ed egli: " In quali condizioni si trovi il mio corpo nel mondo dei vivi, non so.

Questa Tolomea ha il privilegio che spesso l’anima cade in essa prima che la morte (nella mitologia Atropos era quella delle tre Parche che recideva il filo della vita) le imprima il movimento.

E perché più volentieri tu mi raschi dal volto le lagrime congelate, sappi che non appena l’anima tradisce

nel modo usato da me, il suo corpo le è preso da un demonio, il quale poi lo governa finché sia trascorso tutto il tempo assegnatogli per vivere.

L’anima dei traditori degli ospiti - dice frate Alberigo - si trova già all’inferno mentre il loro corpo continua a vivere, governato da un diavolo. "Il fondamento della tetro-allegra invenzione di cui, almeno in questi termini, non pare esistano riscontri anteriori a Dante, sarà stata l’idea corrente dell’invasamento demoniaco, dalla quale, attraverso il ponte dell’idea deIl’impossibilità morale di riscattare davanti a Dio col pentimento un reato del genere... il passaggio all’invenzione di una condanna anticipata si presentava ragionevolmente e dottrinalmente plausibile, se non proprio naturale." (Mattalia)

Essa precipita in questo pozzo (il nono cerchio); e forse è ancora visibile nel mondo il corpo appartenente all’anima che qua dietro a me sverna.

Tu lo devi sapere, se soltanto ora scendi nell’inferno: è ser Branca d’Oria, e vari anni sono trascorsi da quando è stato chiuso in tal modo (nel ghiaccio) ".

Il genovese Branca d’Oria, genero di Michele Zanche (canto XXII, versi 88-89), giudice di Logudoro, volendo impadronirsi di questa regione, "invitò a mangiare seco a uno suo castello questo suo suocero, e ivi finalmente il fe’ tagliare per pezzi lui e tutta sua compagnia" (Anonimo Fiorentino). Branca d’Oria morì dopo il 1325.

" Credo " gli dissi " che tu m’inganni; poiché Branca d’Oria non è ancora morto, è vivo e sano. "

" Nella bolgia" disse " custodita dai Malebranche, dove la pece vischiosa ribolle, non era ancora arrivato Michele Zanche

che costui lasciò nel corpo al posto suo un diavolo, ed altrettanto fece un suo parente che compì il tradimento insieme con lui.

Ma stendi ormai la mano verso di me; aprimi gli occhi. " E io non glieli apersi; e fu atto nobile essere villano nei suoi confronti.

Ahi Genovesi, uomini lontani da ogni buona usanza e pieni d’ogni vizio, perché non siete estirpati dal mondo?

Poiché insieme con l’anima più perversa della Romagna (frate Alberigo) trovai un vostro concittadino tale, che a causa delle sue azioni già sta immerso con l’anima nel Cocito,

e col corpo appare ancora vivente sulla terra.

L’invettiva contro i Genovesi corrisponde simmetricamente, a chiusura dell’episodio di frate Alberigo, a quella contro Pisa, con la quale si conclude l’episodio di Ugolino. La maledizione del Poeta coinvolge così in questo canto "con terribile imparzialità le due rivali repubbliche marinare: i vinti e i vincitori della Meloria" (D’Ovidio).





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