Beatrice, quel sole che ancor fanciullo mi aveva
acceso il cuore d’amore, mi aveva rivelato, portando prove e confutando
opinioni erronee, il dolce volto della bella verità ( sulle macchie
lunari);
e io, per dichiararmi corretto (del mio errore)
e persuaso (della verità), levai il capo più diritto tanto quanto
conveniva per parlare (a Beatrice con la dovuta riverenza);
ma mi apparve uno spettacolo che tenne la mia
attenzione così strettamente legata a se, per vederlo, che non
mi ricordai di fare la mia dichiarazione.
Come attraverso vetri trasparenti e chiari,
oppure attraverso acque limpide e tranquille, ma non così profonde
che il loro fondo non possa essere visto i lineamenti dei nostri
volti si riflettono così tenui, che una perla su una bianca fronte
non è percepita con minore difficoltà dai nostri occhi,
altrettanto indistinti vidi molti volti nell’atteggiamento
di chi sta per parlare; per cui io caddi nell’errore contrario
a quello che fece nascere l’amore fra Narciso e la fonte.
Dante scambia i volti delle
anime beate, che ora gli appaiono, per immagini riflesse, commettendo
così l'errore opposto di Narciso, che, specchiandosi nell'acqua
di una fonte, credette di essere di fronte ad una persona vera
e si innamorò di quell'ombra riflessa (Ovidio - Metamorfosi III.
versi 413-510). Il ritorno, all'inizio del canto III, ad un contenuto
più decisamente sentimentale e descrittivo di contro a quello
scientifico-morale delle macchie lunari, recupera l'esperienza
delle Rime giovanili: l'impalpabile atmosfera di quel tempo felice
(quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto), la stessa ricchezza
affettiva capace di conferire un tono intimo e raccolto all'espressione
(di bella verità m'avea scoverto... il dolce aspetto), l'identico
uso di immagini incorporee, vaghe, sognate (quali per vetri trasparenti
e tersi ... ), nelle quali la realtà sembra pronta a dissolversi
in notazioni pittoriche (debili sì, che perla in bianca fronte)
o in esiti musìcali (non sì profonde che i fondi sien persi) fatti
di suoni senza stridore, trasparenti come acque nitide e tranquille.
Anche la tecnica espressiva è uguale: "Una sintassi sempre limpida
e lineare, senza artificiosa tensione retorica, senza inversioni
e tortuosità di costrutti, senza innaturali fratture o chiasmi
e stacchi" (Marti). Nel ritorno alle suggestioni, alle delicatezze
e alla sensibilità raffinata della lirica giovanile, il Poeta
chiederà aiuto per rendere in modo concreto il mondo nel quale
la materia si scorpora nello spirito o diventa una vibrazione
luminosa. Su questo ritorno, che gli anni e le vicende della vita
hanno arricchito di esperienza e approfondito, il Poeta verrà
costruendo non solo I'episodio di Piccarda, ma tutta la poesia
del Paradiso.
Non appena io m’accorsi di loro, ritenendole
immagini riflesse in uno specchio, volsi indietro gli occhi, per
vedere di chi fossero;
ma non vidi nulla, e tornai a volgerli davanti
a me fissandoli negli occhi della mia dolce guida, la quale, sorridendo,
ardeva nelle sue sante pupille.
“ Non ti meravigliare se io sorrido ” mi disse
“ a causa del tuo pensiero puerile, poiché esso non poggia ancora
saldamente sulla verità,
ma, come al solito, ti riconduce verso ipotesi
vane: ciò che tu vedi sono anime vere (non immagini riflesse ),
relegate in questo cielo per inadempimento dei loro voti.
Nel canto IV (versi 28-39),
Dante spiegherà l'ordinamento morale del paradiso, rilevando la
distinzione fra un paradiso fisico e un paradiso spirituale. Poiché
ogni anima è collocata nel cielo che con la sua influenza ne ha
determinato l'indole al momento dei concepimento o della nascita,
quelle che non hanno adempiuto completamente i voti fatti appaiono
nel cielo della Luna. Infatti a coloro che sono sottoposti al
suo influsso deriva, secondo il Buti, una certa "mutabilità" nel
loro desiderio di fronte al bene.
Perciò parla con loro e ascoltale e credi (a
quanto ti diranno); perché la luce divina che le appaga non permette
che esse si allontanino da lei.”
Ed io mi rivolsi all’ombra che sembrava più
desiderosa di parlare, e incominciai, quasi nello stesso modo
di colui che è turbato da un intenso desiderio:
“ O spirito creato per la tua salvezza, che scaldandoti
ai raggi della vita divina provi quella dolce beatitudine che,
se non la si gusta direttamente, non potrà essere mai capita,
mi sarà gradito se vorrai soddisfare il mio desiderio rivelandomi
il tuo nome e la vostra condizione”.
Per questo essa, prontamente e con occhi sorridenti:
“ Il nostro amore non si nega ad un desiderio legittimo allo stesso
modo dell’amore divino che vuole simile a se tutta la corte celeste.
Nel mondo io fui monaca; e se la tua memoria
ricorda con attenzione, l’essere io diventata più bella ( passando
dalla vita terrena a quella celeste ) non mi nasconderà a te,
ma riconoscerai che sono Piccarda, che, posta
qui con queste altre anime elette, godo della beatitudine nel
cielo che gira più lentamente.
Piccarda, figlia di Simone
Donati e sorella di Forese, il caro amico di gioventù di Dante,
e di Corso, l'odiato capo della fazione dei Neri a Firenze, è
stata ricordata anche nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15).
Sappiamo che entrò in giovane età nell'ordine delle Clarisse e
che ne uscì per sposare un nobile fiorentino, Rossellino della
Tosa, uno dei più turbolenti rappresentanti dei Neri. Secondo
alcuni cronisti del tempo sarebbe stata rapita dal chiostro dal
fratello Corso, che la costrinse con la forza a sposare il della
Tosa. Questa è pure la versione fornita da Dante, anche se si
può pensare, invece che a un rapimento vero e proprio, a una serie
di forti pressioni esercitate su Piccarda perché abbandonasse
il convento. Non si sa l'anno in cui il fatto avvenne (forse tra
il 1283 e il 1293), ma l'Ottimo tramanda una notizia secondo la
quale Piccarda, subito dopo essere stata rapita dal chiostro,
"infermò e finì li suoi dì e passò allo sposo del cielo... E dicesi
che la detta infermità e morte corporale le cancedette Colui ch'è
datore di tutte le grazie, in ciò esaudiendo li suoi devoti preghi".
I nostri sentimenti che si infiammano soltanto
per ciò che piace allo Spirito Santo, gioiscono perché conformati
all’ordine universale stabilito da Dio.
E questa condizione che appare tanto umile (essendo
noi nell’ultimo dei cieli), ci è stata assegnata per questo, perché
i voti da noi fatti rimasero inosservati, e non furono adempiuti
in qualche parte”.
Per questo io le risposi: “Nelle vostre mirabili
sembianze traspare una luce sovrannaturale che vi trasfigura rispetto
a quello che eravate in terra: perciò non fui sollecito nel ricordare;
ma ora ciò che mi dici (di te) mi aiuta, così che mi è più facile
riconoscerti.
Un quadro "muto, pallido,
immobile, ma animato da un segreto movimento spirituale" (Momígliano)
ha presentato le prime anime beate nei versi 10-16: esse sembrano
emergere da uno spazio ìnfinito, nel quale alla fine torneranno
a dissolversi (versi 122-123), mentre si sta realizzando in loro
quel processo di smaterializzazione o di dissolvenza, che le porterà,
nei cieli seguenti, a trasformarsi in un mobile tripudio di luci,
in una vibrazione di canti e preghiere, in un inarrestabile movimento
di danza. I beati della prima sfera conservano ancora qualcosa
della primitiva figura umana (le postille debili del volto), che
permette dì intuire la incorporea leggerezza di quei visi "appena
profilati e affioranti" (Grabher), che già riflettono la quieta
trasparenza del cielo e la pace distesa dello spirito (verso 85).
Ma la presenza del divino che si scopre all'anima, opera una trasfigurazione
(trasmuta), per cui Piccarda può ben affermare di esser più bella:
"In quella poeticissima incapacità di precisare - non so che divino
- senti lo smarrimento contemplativo di Dante" (Grabher) di fronte
all'anima che è fissa in Dio, completamente appagata dalla sua
visione. Siamo lontani ormai dalle figure e dalle scene costruite
di materia e di violento realismo dell'Inferno come da quelle
fatte di ombre e di contorni ammorbiditi e sottili del Purgatorio.
Ma sciogli un mio dubbio: voi che dimorate felici
in questa sfera, non desiderate un grado di beatitudine più alto
per contemplare più da vicino Dio e per diventare più intimamente
amici con Lui ( cioè: per amarlo ed essere amati di più ) ?
Piccarda dapprima. sorrise lievemente con quelle
altre anime; poi mi rispose illuminata da tanta letizia, che ben
mostrava di ardere nel fuoco dell’amore divino:
Dio è il primo loco, cioè
il primo amore, per la sublimità del suo sentimento e perché da
Lui deriva ogni amore particolare. Una interpretazione meno recente
e "mai accettabile per la degradazione del motivo ch'essa comporta
nel paragone" (Mattalia), propone per il verso 69 questa spiegazione:
come arde una fanciulla nella fiamma del primo amore.
“ Fratello, la nostra volontà è appagata dalla
potenza dell’amore; divino, che ci fa desiderare solo ciò che
possediamo, e non suscita in noi il desiderio di altro.
Se desiderassimo essere collocate in un grado
più alto, i nostri desideri discorderebbero dalla volontà di Colui
che ci ha giudicate degne del cielo della Luna;
cosa che vedrai non aver luogo in queste sfere
celesti, se qui è necessario vivere sotto il segno dell’amore,
e se tu esamini attentamente la natura di questo amore.
Anzi è condizione essenziale a questo stato di
beatitudine mantenersi nell’ambito del divino volere, in virtù
del quale le nostre volontà singole diventano una sola, così che,
il modo in cui in paradiso le anime beate sono distribuite di
cielo in cielo, piace a noi tutti come piace a Dio che ci infonde
desideri conformi al suo volere.
E nella volontà divina è la nostra pace: questa
volontà è simile a un mare verso il quale ritornano tutti gli
esseri che essa crea direttamente e che la natura ( come causa
seconda) produce”.
Allora compresi chiaramente come ogni parte
del cielo è pienezza di beatitudine, sebbene la grazia divina
non scenda nella stessa misura in ogni luogo.
Anche la dimostrazione
di Piccarda è di carattere dottrinale-didascalico come quelle
precedenti di Beatrice (canto I, versi 103-141 e canto Il, versi
61-148), che tale dimostrazione richiama per una identica solennità
di argomento e dignità di stile, ma che, poeticamente, supera
in virtù di una maggiore vibrazione lirica: il tema trattato -
la beatitudine intesa come il confluire armonico di tutti gli
esseri in Dio - diventa sentimento, anzi non è altro che il sentimento
d'amore che investe ed illumina in ogni parte l'anima di Piccarda.
La trattazione ha un primo avvio nei versi 43-45: nel paradiso
l'amore che lega le anime beate a Dio e fra di loro prende norma
da quello divino, che vuole simile a sé tutta la sua corte. Per
questo la volontà dei beati si uniforma alla volontà divina, accettando
l'ordine universale stabilito da Dio (versi 52-54), anzi godendo
di quanto Egli ama, vuole e dispone. Ma il dubbio di Dante (non
desiderano le anime che sono poste nel cielo più basso un più
alto loco?) esige una dimostrazione più approfodita, poiché il
modo di pensare terreno e quello puradisiaco sembrano, in questo
momento, opporsi senza possibilità di accordo. Nel mondo, infatti,
la visione di una condizione migliore di vita porta al desíderio
di conquistarla, se non addirittura all'invidia. Poco fa, invece,
Piccarda ha affermato che posta qui con questi altri beati, beata
sono in la spera più tarda. Da un punto di vista oggettivo esiste
nel mondo celeste una maggiore o minore felicità (versi 89-90),
corrispondente ad un maggiore o minore merito, ma da un punto
di vista soggettivo ogni anima è assolutamente felice, perché
il grado di felicità ad essa assegnato è proporzionale alla sua
capacità di acquisto e di godimento, Ma l'ampio distendersi delle
parole di Piccarda trova il suo momento di più intensa liricità
allorché la beatitudine che risplende nei mirabili aspetti delle
anime viene definita come l'adempimento, in ciascuna, della volontà
divina, per cui le singole volontà desiderano solo ciò che desidera
Dio. In questa suprema. volontà, che è acquietamento di ogni aspirazione,
trova pace ogni creatura che si muove affannosamente per lo gran
mar dell'essere (canto I, 113): anche, il tormentato pellegrino
che dalle fiere della selva oscura è giunto al sommo ben. La poesia
dell'episodio di Piccarda emerge, oltre che dal velato racconto
della sua vita, anche da questa zona che il Croce definirebbe
"strutturale", e che un critico attento come il Cosmo ha considerato
addirittura "la sostanza dell'episodio". Certamente queste terzine,
pur essendo sostenute, come ogni parte, dottrinale nella Commedia,
dalla terminologia della Scolastica, si svolgono secondo le commosse
cadenze di un inno religioso: l'inno del supremo abbandono della
creatura in Dio. La forza interiore che appoggia questi versi
è rivelata dalla presenza della triade fiamma-amore-desiderio:
il motivo del raggio luminoso, che ha aperto il canto, si trasforma,
infatti, nell'immagine della fiamma che arde (verso 69), la luce
di verità del verso 2 diventa ora virtù di carità, che attira
a sé ogni desiderio (fa volerne... li nostri disiri... nostre
voglie... a tutto il regno piace), mentre la ripetizione insistente
di parole uguali o quasi uguali, come se la voce non sapesse staccarsene,
sottolinea la gioia inebriante dell'anima. Si generano così "immagini
di mistico ed annegante struggimento in un ritmo costantemente
acensionale... in un impasto di natura decisamente lirica. Figurazione
felicemente emblematica della perfetta fusione tra verità ed amore,
tra luce ed ardore, è quella che traduce il tenersi dentro alla
divina voglia nell’ampia, infinita vastità del mare. al qual tutto
si muove ciò chella cria e che natura fece (versi 86-87); un’immagine
di naufragio e di beatitudine immensa, di morte anche e d’annegamento
in una vita ebbra d’infinito, ove Iddio è eterno approdo d’etrno
amore...”(Marti).
Ma come accade che, se un cibo sazia e di un
altro rimane ancora il desiderio, si chiede quello (di cui è rimasto
il desiderio ) e si ringrazia per quello ( di cui si è sazi ),
cosi io ringraziai con l’atteggiamento e con
le parole Piccarda, e le chiesi di rivelarmi quale fosse la tela
(cioè il voto) che aveva incominciato ma non finito . “
Una vita virtuosa perfetta e un grande merito
(acquistato presso Dio) collocano in un cielo più alto una donna
” mi disse “ secondo la cui regola giù nel vostro mondo si prendono
l’abito e il velo monacali,
affinché fino alla morte si passi ogni giorno
e ogni notte con Cristo, lo sposo che accetta ogni voto il quale
sia reso conforme al suo volere dall’amore.
"La storia della vita umana
segue alla descrizione della vita divina" (Malagoli) e viene introdotta
dalla figura di Santa Chiara d'Assisi (1194-1253), che, seguendo
l'esempio di San Francesco, abbandonò il mondo e fondò un ordine
di clausura (l'ordine delle Clarisse). La metafora Cristo-sposo,
che regge nei versi 100-102, prelude a quelle analoghe con le
quali San Tommaso presenterà San Francesco nel canto XI del Paradiso.
Per seguire la via di Santa Chiara abbandonai,
ancora giovinetta, la vita del mondo, e vestii il suo abito, e
promisi di osservare la regola del suo ordine.
In seguito uomini, più avvezzi a fare il male
che il bene, mi rapirono fuori dal dolce chiostro. Dio solo sa
quale fu poi la mia vita.
Piccarda è, con Francesca
e Pia, una delle figure su cui la critica ha amato soffermarsi
per cogliere, attraverso l'esame di ogni sfumatura, l'origine
della commozione da esse suscitate. Se il momento dell'inno sulla
beatitudine è il più acceso e vibrante, i versi 46-48 e 103-108
sono i più umani, i più vicini a noi, perché ricchi di elementi
che, nonostante il loro trasferimento su un piano sovrannaturale,
mantengono intatto il pathos di sentimenti e ricordi terreni.
Il racconto di Piccarda è scarno, chiuso fra due momenti (lui
nel mondo vergine sorella e fuor mi rapiron della dolce chiostra)
che trovano la loro conclusione, il loro porto di pace solo in
Dio (Iddio si sa qual poi mia vita fusi) : è propria di Dante
la "capacità di disegnare una vita con una lìnea e spirarvi attorno
l'aura di un'anima" (Momigliano). La concretezza poetica della
figura di Piccarda nel canto III trova la sua anticipazione nelle
luminose espressioni con le quali il fratello Forese l'ha, presentata
nel Purgatorio (canto XXIV, versi 13-15): la mia sorella, che
tra bella e bona non so qual lesse più, triunfa lieta nell'atto
Olimpo già di sua corona. In questi versi già era prospettata,
accanto al trionfo paradisiaco, la difficoltà della sua conquista,
raggiunta dopo una lotta che ha meritato a Piccarda, come agli
antichi atleti vittoriosi, la corona del premio. Nasce così l'elegia
di Piccarda: una storia tutta terrena, che la luce divina ha ormai
reso fuggevole e velato ricordo. Il Grabber, commentando questi
versi, ha trovato forse gli accenti più suggestivi per illuminare
la figura di questa fiorentina che, apparendo improvvisamente
nel primo cielo del paradiso, sembra riportare a Dante il ricordo
della Firenze della sua giovinezza, di una città fatta di violenze
ma anche di tenaci virtù, nella quale il Poeta aveva vissuto il
suo amore per Beatrice e creato, nella Vita Nova, una raffinata
poesia religiosa. "Un cenno solo - dal mondo per seguirla - e
vedi la terra con le sue lotte e già senti l'anima che se ne allontana
(fuggimi); e basta una parola - giovinetta - per dare alla vergine
sorella quel tanto di umano che la fa sentire unita al « mondo»
ma come una candida, fragile creatura, la cui volontà di rinunzia
si fa per questo più grande. E l'abito la chiude in un totale
isolamento e la mistica « promessa» (verso 105) la invola agli
occhi dei terreni. Ma ecco la violenza umana che la strappa alla
dolce chiostra, a quella vita di smarrimento in Dio, che tanto
rimpianto suscita nel suo cuore, anche se larvatamente espresso
in un aggettivo solo: dolce. Ma tutto qui si sublima in un superiore
dominio di sé che è pudore, raccoglimento in Dio: anche il tormento
e la tristezza del bene perduto, anche la colpa degli, uomini.
Anzi per essi c'è, non dico una parola d'accusa, ma un profondo,
sebbene tacito compianto per essere a mal più ch'a bene usi; tanto
che, per un'alta carità, neppure li individua... e, all'infuori
del rimpianto per la dolce chiostra, non ha malinconie per cose
terrene, anzi, superata del tutto la vicenda umana... tutta si
rifugia in Dio: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. Qual poi...
: ... non un cenno al tormento della sua vita qual fu poi, tra
gli uomini, fino alla morte... Ombra e silenzio, come già fece
della giovinetta il monastico velo, chiudono il suo cuore in quello
d'Iddio.
E questo altro spirito splendente che vedi alla
mia destra e che si illumina di tutta la luce del nostro cielo,
considera come riferito anche a se ciò che io dico di me:
fu suora, e le fu strappato dal capo il velo
monacale così come avvenne per me (cioè con la violenza).
Quest'altro splendor: è
Costanza, figlia di Ruggero Il d'Altavilla e ultima discendente
della casa normanna. Nata nel 1154, sposò nel 1185 l'imperatore
Enrico VI di Svevia, portandogli in dote il regno di Sicilia.
Rimasta vedova nel 1197, fu reggente e tutrice del figlio Federico
II. Morì nel 1198. Gli ambienti guelfi, ostilissimi agli Svevi
(Federico II e, poi, Manfredi), raccolsero la leggenda secondo
la quale Costanza si sarebbe ritirata in un monastero di Palermo.
Da qui sarebbe stata fatta uscire per ordine delle autorità ecclesiastiche,
che avrebbero preparato il suo matrimonio con Enrico VI, affinché
il regno normanno, che ultimamente si era mostrato ribelle nei
confronti della Chiesa, entrasse a far parte dei domini dell'Impero
(cfr. Villani I Cronaca V, 16). Il Poeta, pur accogliendo questa
versione dei fatti, elimina ogni asprezza polemica e, come già
nel Purgatorio canto III, verso 113), presenta la figura di Costanza
in un'aura di particolare solennità, che ha spinto alcuni critici
a vedere nello splendore di santità che circonda la gran Costanza
anche lo splendore della dignità imperiale da lei rivestita in
vita.
Ma dopo che fu ricondotta tutta al mondo contro
la su volontà e contro ogni norma morale e giuridica non abbandonò
mai dentro di se il velo monacale.
Questo è lo spirito luminoso della grande Costanza
che dal secondo imperatore della casa di Svevia generò il terzo
e ultimo rappresentante . ”.
Costanza, da Enrico VI,
secondo imperatore della casa sveva, generò Federico Il, terzo
ed ultimo sovrano svevo, il quale fu l' "ultimo, imperadore de
li Romani" (Convivio IV, III, 6), perché dopo la sua morte nel
1250 l'Impero, secondo Dante, restò vacante fino all'incoronazione
di Arrígo VII di Lussemburgo nel 1312. Il termine vento per indicare
i rappresentanti della casa sveva, vuole forse riferirsi alle
vicende di questa famiglia e alla forza sconvolgìtrice con cui
essa passò nella storia europea. Soave è la forma italianizzata,
usata in quel tempo, del tedesco Schwaben, Svevia.
Così mi parlò, e poi incominciò a cantare “ Ave,
Maria ”, e cantando si dileguò come (scompare) nelI’acqua profonda
un oggetto pesante .
I miei occhi, che la seguirono finché fu possibile,
dopo che non la videro più, cercarono Beatrice,
oggetto del loro desiderio dominante, e si volsero
completamente verso di lei; ma ella risplendette davanti al mio
sguardo di una luce così folgorante che dapprima la mia vista
non riuscì a sopportarla;
e ciò mi rese più timido ad interrogarla (intorno
ad altri dubbi ).