Un
cupo tuono interruppe il profondo sonno
nella mia testa, così ripresi coscienza
come una persona che è destata
violentemente;
Un
greve truono: quasi tutti gli
interpreti moderni respingono
l'identificazione del greve truono con
il truono... d'infiniti guai del verso
9. Mentre il primo, per svegliare Dante,
deve avere un carattere di subitaneità,
il secondo è continuo, ininterrotto.
"Inoltre, il prodigio atmosferico
del lampo, che provoca l'immediato
addormentamento di Dante, richiede -
allegoricamente e poeticamente - un
altro prodigio, laddove il preteso
fragore infernale sarebbe uno stato di
fatto normale, permanente e invariabile.
" ( Chimenz )
Gli antichi hanno visto, tanto nel lampo
che addormenta il Poeta alla fine del
canto precedente quanto nel truono che
qui lo ridesta, due manifestazioni della
Grazia (in particolare della Grazia
illuminante, in relazione al bagliore
improvviso che rischiara le tenebre
infernali: balenò una luce vermiglia:
Inferno canto III, 133-134), la quale
dapprima assopisce la concupiscenza del
Poeta e poi lo risveglia nella
condizione di giudicare rettamente i
propri peccati.
allora,
levatomi in piedi, volsi intorno gli
occhi riposati, e guardai attentamente
per rendermi conto del luogo dove ero.
Il
fatto è che mi trovai sul margine della
profonda voragine del dolore, che in sé
contiene il fragore di innumerevoli
lamenti,
Vero
è che: l'espressione è meno
prosaica di quanto a una prima lettura
può apparire; infatti essa
"conserva in parte l'originario
valore di attestazione solenne, e sta
spesso a sottolineare la stranezza o
l'importanza della verità rappresentata
o asserita" (Sapegno).
Che truono accoglie d'infiniti guai: non
esprime una reale sensazione del Poeta
in quel momento, ma è una perifrasi per
indicare l'inferno, in una sua qualità
permanente. Le grida dei dannati,
tuttavia, cominceranno a farsi sentire
soltanto a partire dal cerchio dei
lussuriosi (ora incomincian le dolenti
note a farmisi sentire; Inferno canto V,
25-26).
(La
voragine) era buia e profonda e fumosa
tanto che, per quanto tentassi di
penetrarvi fino in fondo con lo sguardo,
non riuscivo a distinguervi nulla.
"Ora
scendiamo quaggiù nel mondo delle
tenebre" cominciò a dirmi
Virgilio, che era impallidito, "io
andrò per primo, e tu mi seguirai.
"
Ed io,
che avevo notato il suo pallore, dissi:
"Con quale animo potrò seguirti,
se tu, che sempre mi infondi coraggio
allorché sono preso dal timore, hai
paura? "
Ed
egli: "La tragica sorte dei dannati
diffonde sul mio volto quel pallore che
tu interpreti come un segno di paura.
Muoviamoci,
poiché il lungo cammino (che dobbiamo
percorrere) ci costringe a non perdere
tempo". Dicendo questo si avviò e
mi fece entrare nel primo cerchio che
chiude tutt’intorno il baratro.
Virgilio manifesta
profonda pietà per quei dannati di cui
egli si trova a dividere le sorti. Il
pensiero angoscioso delle pene infernali
gli fa troncare il discorso: Andiam, ché
la via lunga ne sospigne. Il poeta
latino ha perduto la sicurezza e la
baldanza dimostrate nella risposta a
Caronte e negli incitamenti a Dante del
canto precedente. Un'ombra di tristezza
vela le sue parole.
Qui,
per quel che si poteva arguire
dall’udito, non vi era altra
manifestazione di dolore fuorché
sospiri, che facevano fremere
l’atmosfera infernale.
Sospiri,
che l'aura etterna facevan tremare:
questi " sospiri " si
contrappongono idealmente all'incomposto
bestemmiare delle anime del canto
precedente, e individuano una nuova
tonalità: elegiaca, non più tragica.
Ciò
avveniva a causa del dolore non
provocato da tormenti corporali che
colpiva schiere, numerose e folte, di
bambini e di donne e di uomini.
D'infanti
e di femmine e di viri: oltre
ai bambini non battezzati, si trovano
qui le anime di coloro che conobbero e
praticarono le quattro virtù cardinali,
senza aver avuto conoscenza delle tre
virtù teologali; l'unica loro colpa è
il peccato originale, retaggio comune
del genere umano. San Tommaso sostiene
che il peccato originale, ove non si
accompagni ad altre manifestazioni
peccaminose dovute al libero arbitrio,
non riceve nell'al di là una punizione
in senso proprio, ma soltanto il
"danno" derivante dalla
privazione della visione di Dio. Gli
adulti virtuosi, morti prima della
venuta di Cristo o senza che ne siano
giunti a conoscenza, vengono definiti
generalmente dai teologi ''infedeli
negativi". in particolare San
Tommaso sostiene che di per sé
l'infedeltà negativa non è peccato, ma
nega che, ove non soccorra la fede, il
peccato originale possa sussistere da
solo, senza indurre l'adulto in altri
peccati. Soltanto i bambini non
battezzati e i patriarchi dell'Antico
Testamento sarebbero nella condizione di
non avere in sé altro peccato fuorché
quello originale. Dante, su questo
punto, si allontana dalla tradizione più
rigorosa e autorevole, per accogliere
nel suo limbo anche gli infedeli
negativi adulti, dell'antichità pagana
e dello stesso Medioevo, seguaci di
altre religioni.
l buon
maestro mi disse: "Non mi chiedi
che sorta di anime sono queste che si
offrono al tuo sguardo? Voglio dunque
che tu sappia, prima di procedere oltre,
che
non hanno commesso peccato; e se hanno
meriti, questi non bastano (a
redimerli), perché furono privi del
battesimo, che è la parte essenziale
della fede in cui tu credi.
E se
vissero prima dell’avvento del
Cristianesimo, non adorarono nel modo
dovuto Dio (come invece avevano fatto i
patriarchi dell’Antico Testamento): e
io stesso sono uno di loro.
Per
tale mancanza, non per altra colpa,
siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo
tormentati in questo soltanto, che
viviamo nel desiderio (di conseguire la
visione beatifica di Dio) destinato a
restare inappagato".
I
chiarimenti che dà qui Virgilio,
prevenendo la domanda del suo discepolo
e quasi intuendone lo smarrimento hanno
uno sviluppo nobilmente didascalico e si
concludono in un verso che sintetizza la
condizione degli spiriti privati della
visione di Dio. Questo verso, tuttavia,
pur nella sua concisione, non ha nulla
della tensione drammatica che vibra in
altri endecasillabi della Commedia, nei
quali la compattezza della forma pare
venire sedata dall'urgenza del
contenuto. Qui lo svolgimento logico è
chiaro, riposato, e il tono sentimentale
che ad esso corrisponde è anch'esso
sereno, disteso. Se nelle parole di
Virgilio c'è nostalgia per il Bene
Supremo, dal quale è destinato ad
essere per sempre lontano, questa
nostalgia non ha nulla di drammatico e
si inquadra armoniosamente in quello che
deve apparire anzitutto come il discorso
di un "saggio". Solo se si
considera questo verso a sé, senza
tener conto di quelli che precedono, si
può vedere in esso "un verso
disperato". E' stato detto che le
parole di Virgilio si smorzano, nella
definizione dello stato delle anime nel
limbo, come in un sospiro. "Ma,
come la tristezza di quelle anime è in
certo modo placata dalla consolante
memoria di una vita terrena vissuta
senza peccato e dal confronto con i
terribili martiri infernali di cui sono
esenti, così quel verso, nel discorso e
nel punto del discorso in cui si trova,
non esprime più che una dolente, ma
composta e consapevole
rassegnazione." (Chimenz)
Provai
un grande dolore nell’udire queste
parole, poiché seppi che alti ingegni
(gente di molto valore) si trovavano in
una condizione intermedia fra la
disperazione dei dannati e la felicità
dei beati in quell’orlo estremo (della
voragine infernale).
La
terzina rende esplicito quello che è il
sentimento animatore di tutto il canto.
Più ancora che di pietà, si tratta di
"perplessità della ragione, che al
tempo stesso avverte la sua grandezza e
la sua insufficienza, allorché non
l'assista il lume della Grazia, e alla
fine s'arrende, sebbene riluttante, al
mistero del dogma" ( Sapegno) . Il
dolore del Poeta per la sorte degli
" spiriti magni ", qui appena
accennato, non è destinato ad assumere
neppure in seguito rilievo drammatico.
Anzi, nella scena dell'incontro con i
poeti, Dante sarà tutto preso da un
sentimento opposto e soverchiante: la
gioia di potersi trovare in presenza dei
grandi che hanno incarnato un ideale di
civiltà, da lui giudicato non più
raggiungibile.
Desiderando
avere da lui la conferma (per volere
esser certo) delle verità di quella
fede che è al di sopra di qualsiasi
dubbio, gli chiesi: "Dimmi,
maestro, dimmi, signore,
uscì
mai di qui alcuno, o per merito proprio
o per merito altrui, per assurgere poi
alla beatitudine?"
Dimmi.
maestro mio, dimmi, segnore:
modo particolarmente affettuoso in cui
c'è come un'eco del gran duol della
terzina precedente. "La compassione
dello stato di Virgilio sentita da Dante
rende ragione di questo doppio titolo,
ch'è una lode ' delicata e
pietosa." (Tommaseo)
Ed
egli, che comprese il significato
nascosto delle mie parole, rispose:
"Mi trovavo da poco in questa
condizione, quando vidi scendere quaggiù
un potente (Cristo), circonfuso dello
splendore della sua divinità.
Un
possente, con segno di vittoria
coronato: il Redentore non è mai
nominato nell'Inferno, ma la perifrasi,
più che trovare la sua spiegazione in
un rispetto che resta estraneo alla
poesia di questo passo, mira a rendere,
velandolo di mistero, un carattere
essenziale della divinità:
l'onnipotenza, la serenità con cui essa
esercita il suo impero anche là dove
ostacoli insormontabili si oppongono
all'intervento degli uomini. Quanto al
segno di vittoria può essere o
interpretato in senso generico, come fa
ad esempio il Boccaccio ("non mi
ricorda d'avere né udito né letto che
segno di vittoria Cristo si portasse al
limbo, altro che lo splendore della sua
divinità" ), oppure riferito alle
rappresentazioni di Cristo trionfante
nell'arte figurativa medievale, in cui
appare incoronato dell'aureola
crocifera", ossia dell'aureola
traversata dal segno della croce. Altri
ancora ricollegano questo verso a una
frase del Vangelo apocrifo di Nicodemo
("e il Signore pose la sua croce,
che è segno di vittoria, in mezzo
all'inferno" ), e alla iconografia
che ad essa si ispira: il Figlio di Dio,
visto come "re forte", come un
possente... coronato, calpesta le porte
schiodate e abbattute dell'inferno
tenendo in mano la sua croce.
Portò
via di qui l’anima di Adamo, il
capostipite del genere umano (primo
parente: primo genitore), quelle del
figlio di lui Abele e di Noè, quella
del legislatore Mosè, sempre sottomesso
ai voleri di Dio;
e
inoltre portò via il patriarca Abramo e
il re Davide, Giacobbe (Israèl) col
padre Isacco e i suoi dodici figli e la
moglie Rachele, per ottenere la mano
della quale tanto si adoperò;
e
molti altri ancora, e li rese beati; e
voglio che tu sappia che, prima di loro,
nessun altro era salito in
paradiso" .
L'elenco
dei protagonisti della storia del popolo
eletto, resi beati, inizia col
capostipite Adamo per proseguire col suo
secondogenito, col patriarca scampato al
diluvio universale e a cui si deve il
ripopolamento della terra, col grande
condottiero e legislatore, che sul Sinai
ebbe da Dio la rivelazione dei principii
ai quali il suo popolo avrebbe dovuto
attenersi per trionfare sugli avversari
e raggiungere la Terra Promessa. Esso
continua con la figura del patriarca che
non esitò, per obbedire al Signore, a
preparare il sacrificio del figlio
Isacco, del re guerriero e poeta, autore
dei Salmi, che, altrove, nella Divina
Commedia è chiamato il cantor dello
Spirito Santo (Paradiso XX, 38) e sommo
cantor del sommo duce (Paradiso XXV,
72), di Isacco e del figlio Giacobbe,
che dopo la lotta con l'angelo (Genesi
XXXII, 25-29) fu chiamato Israele
("forte con Dio"), dei dodici
capostipiti delle tribù d'Israele, di
Rachele, andata sposa a Giacobbe dopo
che questi ebbe servito per quattordici
anni il padre di lei, Labano (Genesi
XXIX, 18-30).
Per il
fatto che egli parlasse non
interrompevamo il nostro procedere,
continuando ad aprirci un varco nella
selva, nella selva, intendo, costituita
da un numero sterminato di anime
vicinissime le une alle altre.
Non
avevamo ancora percorso molta strada dal
margine più alto del cerchio, quando
vidi una sorgente di luce che per mezzo
cerchio intorno a sé dissipava le
tenebre.
Ch'emisperio
di tenebre vincìa: L'espressione
risulta figurativamente e poeticamente
più persuasiva se si da a vincìa il
significato di " vinceva ",
invece che di " avvinceva ",
" legava", come vogliono
taluni interpreti, e si pone quindi,
come soggetto, foco invece che emisperio.
Questa interpretazione tiene conto del
modo di sentire del Poeta, della sua
emozione "colma del pathos
dell'intelligenza e concorde
istintivamente con la vulgata metafora
che parla di luce dell'ingegno e di
tenebre dell'ignoranza ( fede dunque,
nei grandi uomini della scienza e della
poesia che appaiono come una luminosa
visione, un'accolta capace di dissipare
e vincere con la luce della cultura le
simboliche tenebre della barbarie)"
(Getto).
Ci
trovavamo ancora un poco lontani da
questa sorgente di luce, non tanto
tuttavia, che io non potessi intuire che
una schiera di anime degne di onore
occupava quel posto.
"O
tu che onori scienza e arte, chi sono
costoro che hanno tanta dignità, che li
distingue dalla condizione degli altri?
"
E Virgilio a me:
"La fama onorevole di cui godono
nel mondo dei vivi, ottiene (per essi)
un particolare favore presso Dio che
conferisce loro un tale privilegio.
In
quell’istante fu da me udita una voce:
"Onorate il sublime poeta: la sua
anima, che si era allontanata, torna fra
noi ",
Onorate
l'altissimo poeta: la parola
"onore" e quelle da essa
derivate ritornano con singolare
frequenza in questi versi, quasi a
ribadire il carattere di entusiastica,
celebrazione che l'incontro coi poeti
riveste, Questa è una delle pagine
della Commedia ove più compiutamente si
esprime la venerazione, quasi religiosa,
che Dante aveva per i supremi valori
dell'intelligenza, oltre ai quali non è
dato all'uomo di alzarsi con le sole sue
forze.
Dopo
che la voce si arrestò e ci fu
silenzio, vidi venire verso di noi
quattro ombre maestose: il loro aspetto
non era né triste né lieto.
Sembianza
avean né trista né lieta:
un antico commentatore spiega: "non
erano tristi, perché non aveano
martirio; né lieti, perché non aveano
beatitudine" (Buti). Ma più che a
precisare uno stato d'animo, il verso
serve a conferire a ciascuna delle
quattro grand'ombre l'aspetto
tradizionale del saggio, nel suo
raccoglimento meditativo e solenne.
Virgilio
prese a dire: " Guarda, quello che
ha in mano la spada, e precede gli altri
tre come un sovrano.
È
Omero, il sommo di tutti i poeti; dietro
di lui viene Orazio, poeta satirico;
Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano.
Il
Momigliano ha indicato in questa scena
una difformità, sul piano della cultura
e del gusto, tra lo spirito umanistico
che la pervade e i particolari in cui si
traduce, ancora medievali: "questo
poeta che esce con una spada in mano da
un nobile castello, cerchiato da sette
mura per cui si entra da sette porte, è,
nel complesso, una figurazione lontana
dal gusto antico; e quello che c'è di
fantastico nello scenario e quello che
in esso è infuso di allegorico, ci
trasportano nel Medioevo cavalleresco e
simbolico".
Di Omero Dante aveva soltanto notizia
indiretta, poiché non conosceva il
greco e non erano ancora state tradotte
in latino l'Iliade e l'Odissea.
Di Orazio apprezzava probabilmente,
secondo il gusto dell'epoca, soprattutto
la produzione moraleggiante (Satire ed
Epistole); di Ovidio, vissuto a Roma ai
tempi di Augusto, come Orazio e
Virgilio, dovevano essergli care in
particolar modo le Metamorfosi, da cui
trasse quasi tutte le sue conoscenze
sull'antica mitologia. Anneo Lucano fu
poeta epico del periodo argenteo della
letteratura latina ed è considerato
oggi un minore. Diversa era l'opinione
che di lui si aveva nel Medioevo.
Poiché
ciascuno si accomuna a me
nell’appellativo di poeta pronunciato
poco fa da uno di loro (nel nome che sonò
la voce sola), mi tributano onore, e
fanno bene a tributarmelo ( perché in
me onorano la poesia )".
Vidi
così adunarsi il bel gruppo guidato dal
più eccelso dei poeti epici, la cui
poesia si leva come aquila al di sopra
di quella degli altri.
Dopo
aver parlato a lungo tra loro, si
volsero a me con un cenno di saluto; e
Virgilio sorrise per questo segno di
onore:
e mi
onorarono ancora di più, poiché mi
accolsero nel loro gruppo, in modo che
diventai il sesto tra quei così grandi
sapienti,
Procedemmo insieme
fino alla zona luminosa, trattando
argomenti di cui (ora) è opportuno
tacere, non meno di quanto fosse
conveniente parlarne nel luogo ove
allora mi trovavo.
Giungemmo
ai piedi di un maestoso castello,
circondato da sette ordini di alte mura,
protetto tutt’intorno da un leggiadro
corso d’acqua.
Lo
attraversammo come se fosse stato di
terra solida; penetrai con quei sapienti
(nel castello) attraverso sette porte:
arrivammo in un prato verde e fresco.
Il
castello è stato concepito in funzione
chiaramente allegorica. Secondo Pietro
di Dante, figlio del Poeta, esso
simboleggerebbe la filosofia, intesa
genericamente come sapienza; le sette
mura corrisponderebbero alle sette
discipline in cui la filosofia era fatta
consistere: fisica, metafisica, etica,
politica, economia, matematica,
dialettica. Secondo altri commentatori
antichi le sette mura indicherebbero le
sette arti liberali, oppure le quattro
virtù cardinali e le tre speculative
(intelletto, scienza, sapienza). Di meno
agevole interpretazione appare il
significato allegorico del bel
fiumicello. Forse l'opinione più
plausibile è quella del Sapegno, per il
quale esso simboleggia gli ostacoli che
si oppongono all'acquisto del sapere.
Ivi
erano persone dagli sguardi pacati e
dignitosi, di grande autorità nel loro
aspetto: scambiavano fra loro poche
parole, con persuasiva dolcezza.
Allora
ci portammo in uno degli angoli, in una
radura, luminosa e sovrastante il
terreno circostante, in modo che (di
qui) era possibile abbracciare con lo
sguardo tutti gli spiriti (ivi
raccolti).
Là
dirimpetto a me, sul verde compatto e
brillante dell’erba mi vennero
indicati i grandi spiriti, ripensando
alla vista dei quali sento ancora il mio
animo esultare.
Vidi
Elettra con molti dei suoi discendenti,
fra i quali riconobbi Ettore ed Enea,
Giulio Cesare in armi e con occhi
sfavillanti come quelli di un uccello
rapace.
Vidi
Camilla e Pentesilea; dal lato opposto,
vidi il re Latino che sedeva accanto a
sua figlia Lavinia.
Vidi
quel Bruto che cacciò Tarquinio,
Lucrezia, Giulia, Marzia e Cornelia: e
isolato, in disparte, vidi il Saladino.
Il
primo gruppo di " spiriti magni
" è costituito in prevalenza da
eroi e personaggi storici i cui nomi
sono stati tramandati dai grandi
scrittori dell'antichità. L'ammirazione
che Dante prova per questi ultimi si
estende a tutti i personaggi che, per
virtù di poesia, grandeggiano nei loro
scritti. Osserva in proposito il Getto:
"qui si afferma incondizionato il
sentimento dell'aristocrazia della
cultura e della nobiltà che all'uomo
deriva dagli studi e dalla poesia (non
solo quando attivamente li coltivi, ma
ancora quando divenga oggetto di quegli
studi e di quella poesia: tale è
infatti la giustificazione della
presenza nel nobile castello di
personaggi leggendari o politici come
Ettore o Bruto)". Elettra fu
progenitrice della stirpe troiana e
quindi dei Romani; Camilla e l'eroina
italica morta nella guerra che seguì
all'insediamento dei Troiani nel Lazio,
e di cui è già stata fatta menzione
alla fine del canto primo (verso 107).
Pentesilea è la mitica regina delle
Amazzoni uccisa da Achille. È ricordata
nell'Eneide (1, 490 sgg.), dove Latino e
sua figlia Lavinia (promessa a Turno, re
dei Rutuli, sposò poi Enea; questo
matrimonio scatenò la guerra fra
Troiani e Italici) sono personaggi di
primo piano. Il primo personaggio
storico dell'elenco è il creatore
dell'impero romano, Giulio Cesare,
" primo prencipe sommo (Convivio IV, V, 12 ), visto in un verso di
straordinario rilievo come il prototipo
del guerriero. Accanto a lui sono i due
eroi più valorosi dell'antica Troia.
Bruto fu il fondatore della Repubblica
romana, dopo aver scacciato l'ultimo re,
Tarquinio il Superbo, e Lucrezia la
donna per vendicare l'onore della quale
Bruto, con Collatino, capeggiò la
rivolta contro i Tarquini. Giulia fu
figlia di Giulio Cesare e moglie di
Pompeo, Marzia moglie di Catone Uticense,
uccisosi in seguito alla sconfitta del
partito pompeiano in Africa ad opera di
Cesare, Cornelia madre di Tiberio e Caio
Gracco.
La rassegna si conclude, dopo questo
elenco di figure del periodo
repubblicano, con un verso divenuto
celebre non meno di quello che
caratterizza Cesare. In esso
Salah-ed-Din, sultano d'Egitto dal 1174
al 1193, celebrato dagli scrittori del
Medioevo come principe di grande
liberalità e giustizia, appare solo e
in disparte. Il suo isolamento, dovuto
al fatto che è di altra stirpe e di
altra religione, conferisce alla sua
figura, nel quadro di questa
enumerazione, proporzioni eroiche. E'
solo un accenno, ma il verso si
arricchisce di risonanze segrete, se
ripensiamo all'isolamento in cui
grandeggiano altre figure eroiche nella
Commedia (come Farinata o Sordello).
Dopo aver sollevato un
poco gli occhi (il gruppo dei filosofi e
degli scienziati si trova più in alto
di quello degli uomini d’azione), vidi
Aristotile, il maestro dei sapienti,
seduto in mezzo ad altri filosofi.
Tutti
hanno gli occhi fissi su di lui. tutti
gli rendono onore: tra gli altri vidi
Socrate e Platone, che, in posizione
preminente rispetto agli altri, sono a
lui più vicini;
Democrito,
che attribuisce al caso la formazione
del mondo, Diogene, Anassagora e Talete,
Empedocle, Eraclito e Zenone;
Democrito,
filosofo greco del V-IV secolo a. C.,
sostenne la teoria degli atomi che
costituirebbero il mondo. Diogene il
Cinico (V-IV secolo a. C.) invece predicò
il disprezzo dei beni materiali.
Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito,
Zenone furono esponenti del pensiero
filosofico presocratito.
e vidi
il sagace classificatore delle qualità
(delle erbe), intendo dire Dioscoride; e
vidi Orfeo, Tullio Cicerone e Lino e
Seneca, autore di scritti di morale;
Dioscoride
( I secolo d. C. ) scrisse un trattato
sulle qualità delle erbe. Orfeo e Lino
sono mitiche figure di poeti greci
Seneca è il famoso scrittore romano del
I secolo d. C.
Euclide
geometra e Tolomeo, Ippocrate, Avicenna
e Galeno, Averroè, autore del grande
commento.
Euclide
(IV-III secolo a. C.) fu ritenuto il più
grande geometra dell'antichità. Di fama
identica godettero, nel campo
dell'astronomia, Tolomeo ( I-II secolo
d. C. ), nel campo della medicina,
Ippocrate e Galeno. L'arabo Avicenna,
morto nel 1036, fu famoso per la sua
scienza medica e filosofica. Averroè,
morto nel 1198, anch'egli medico e
filosofo, fu considerato " il
commentatore " per antonomasia, di
Aristotile durante tutto il Medioevo, il
quale conobbe le opere del grande
pensatore greco attraverso le traduzioni
arabe e i commenti di Averroè.
Non
posso riferire su tutti in modo
esauriente, poiché la lunghezza
dell’argomento (che devo trattare) mi
sollecita a tal punto, che spesso il mio
racconto è insufficiente rispetto al
grande numero di eventi da narrare.
La
schiera dei sei poeti diminuisce
dividendosi in due gruppi: la mia saggia
guida mi conduce per un cammino diverso,
fuori dell’aria immobile (del
castello), nell’aria tremante (per i
sospiri delle anime);
e giungo in un punto
dove, non c’è traccia di luce.