A metà della nostra
esistenza terrena mi trovai a vagare in una buia foresta, nella condizione
di chi ha smarrito la via del retto vivere.
Nel
mezzo del cammin di nostra vita: " {la
nostra vita] procede a imagine... di arco, montando e discendendo... lo
punto sommo di questo arco... io credo, che... sia nel trentacinquesimo
anno"` (Convivio IV, XXIII, 6 e 9).
Mi ritrovai per una selva oscura: la
selva oscura ("la selva erronea di questa vita: Convivio IV. XXIV,
12), che ciascuno di noi singolarmente, e il genere umano nel suo
complesso, è costretto ad attraversare, simboleggia il peccato e le
difficoltà che dobbiamo superare per vincerlo. Per aver ceduto alle
lusinghe di una vita che lo ha allontanato da Dio, il Poeta si accorge
all'improvviso, con terrore, di non aver più alcun saldo punto di
riferimento che possa guidarlo nelle sue azioni, cammina nel buio, e le
passioni, non più frenate da un principio razionale, Io dilaniano
crudelmente. La sua vicenda è quella di ognuno di noi. Fin da questi
primi versi Dante trasferisce quindi la sua esperienza personale su un
piano di validità universale.
Mi è
assai difficile descrivere questa selva inospitale, irta di ostacoli e
ardua da attraversare, che al solo pensarci risuscita in me lo sgomento.
Il
tormento che provoca è di poco inferiore all’angoscia della morte; ma
per giungere a parlare del bene incontratovi, dirò prima delle altre cose
che in essa ho vedute.
Tant'è
amara che poco è più morte: allegoricamente:
il peccato è vicino alla dannazione, la morte dell'anima.
Non sono
in grado di spiegare il modo in cui vi entrai, tanto la mia mente era
ottenebrata dall’errore, quando abbandonai il cammino della verità.
Tant'era
pieno di sonno: l'abbandono della via del
bene è graduale e progressivo, e perciò non può essere determinato il
momento in cui si comincia a peccare.
Ma,
giunto alle pendici di un colle, dove terminava la selva che mi aveva
trafitto il cuore di angoscia,
volsi lo
sguardo in alto, e vidi i declivi presso la cima già illuminati dai raggi
dell’astro (il sole) che guida secondo verità ciascuno nel suo cammino.
Per
Dante, come per tutti i dotti del suo tempo, che seguivano su questo punto
la teoria dell'astronomo egiziano Tolomeo, vissuto nel Il sec. d. C.,
centro dell'universo era la terra ( teoria geocentrica ).
Nel sistema tolemaico il sole era un pianeta come gli altri e come gli
altri ruotava intorno alla terra.
Qui, sul piano allegorico, il sole è simbolo della grazia divina ('Nullo
sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi esempio di Dio che 'l
sole"; Convivio III, XII, 7). È Dio, che, a un certo momento, nella
sua infinita misericordia, si manifesta al peccatore; le cose, rischiarate
da questa luce, riacquistano un senso, il loro vero senso: chi disperava
intravede finalmente la via della salvezza.
Allora la
paura che, per tutta la notte da me trascorsa in così compassionevole
affanno, mi aveva attanagliato nel profondo del cuore, placò in parte la
sua violenza,
La
notte ch'i' passai con tanta pièta: naturalmente
le tenebre. contrapposte alla luce, hanno in Dante, e particolarmente in
questo canto introduttivo, una portata simbolico-allusiva che, al di là
della lettera, ci pone in presenza di quello che è il dramma della
coscienza impegnata a vivere moralmente. Esse stanno a significare il
caotico contrastare degli istinti, laddove la luce, principio ordinatore,
rappresenta il sorgere di un'armonia, di un'equa contemperazione del bene
concepito secondo il principio dell'unicuique suum.
Lago del cor: la parte
più interna del cuore. Si tratta di quella parte che lo stesso Dante,
nella Vita Nova (II), chiama "la secretissima camera" del cuore.
Il Boccaccio, nel suo commento ai primi diciassette canti dell'inferno.
riferisce l'opinione dei suoi contemporanei, secondo cui, in questa cavità,
abiterebbero "gli spiriti vitali" ed aggiunge: "è quella
parte ricettacolo di ogni nostra passione: e perciò [Dante] dice che in
quella gli era perseverata la passione della paura avuta".
E con
l’aspetto del naufrago che, appena raggiunta con affannoso respiro la
terraferma, si volge ad abbracciare con lo sguardo crucciato l’immensità
degli elementi scatenati,
mi volsi
indietro, con l’animo ancora atterrito, a rimirare la impervia plaga da
cui nessun essere vivente riuscì mai a venir fuori.
Così
il paragone del naufrago rivive nella partecipe interpretazione di un
poeta: "... ancora fora è senza storia, se non latente, ancora a se
stesso il naufrago è solo, il naufrago che ancora non s'è riavuto
d'essersi dibattuto con la burrasca; è ancora l'assonnato, il "
pieno di sonno " che si sta sbrogliando dalla notte, trattenuto nella
sorpresa del risveglio. E' l'ora deserta, in mezzo alla quale, solo, sta
un uomo" (Ungaretti ) .
Lo passo: il luogo
attraverso il quale Dante era passato, cioè la selva, ma anche, sul piano
allegorico, il passaggio che congiunge il peccato alla dannazione.
Dopo aver
riposato un poco il corpo stanco, ripresi ( senza interruzioni) la mia
salita lungo il pendio desolato, in modo che il piede fermo era sempre più
basso rispetto a quello in movimento.
Ma,
giunto quasi all’inizio della salita vera e propria, ecco apparirmi una
lince snella e veloce, dal manto chiazzato:
essa non
si allontanava dal mio cospetto, ma al contrario ostacolava a tal punto il
mio procedere, che più di una volta fui sul punto di tornarmene indietro.
Più
che un animale reale, la lonza, il cui nome ci ricorda quello della lince
(lonce francese antico), è una fantasiosa creazione del Poeta. Questi ce
la presenta come un felino di singolare eleganza, snello e quasi
attraente; il suo aspetto piacevole alla vista può forse alludere alle
multiformi (il pel maculato e, più sotto, la gaetta pelle) tentazioni del
peccato. Terribile sarà invece l'aspetto del leone: forza, ostinazione,
furore si sprigionano dalla sua statuaria figura, tanto che lo sgomento
sembra da essa propagarsi a tutto il paesaggio circostante. Nella terza
delle tre fiere, la lupa, il male supremo l'allegoria sembra quasi
soverchiare la evidenza plastica, mentre s'infittisce l'alone di mistero e
di angoscia che la circonda. Ma anche la lupa, la bestia sanza pace, vive
ai nostri occhi di vita poetica propria, al di là di ogni angusta
determinazione concettuale; né può parlarsi al riguardo di una
raffigurazione "lievemente grottesca" (Rossi). Proprio la sua
famelica magrezza, il controsenso logico che in essa s'incarna, l'aspetto
irreale, continuamente contraddetto dalla sua viva presenza e in cui pare
configurarsi una minaccia che non e di questo mondo, costringeranno alla
fine il Poeta a tornarsene sui propri passi, a disperare. Che le tre fiere
propongano una lettura in chiave allegorica è chiaro. Non facile è
apparsa tuttavia ai commentatori l'identificazione delle tre inclinazioni
al male che esse simboleggiano. Gli antichi hanno visto nella lonza la
lussuria, nel leone la superbia, nella lupa l'avarizia, intesa in senso
lato come cupidigia, avidità: "tre vizi che comunemente più
occupano l'umana generazione" (Ottimo). Dei moderni alcuni hanno
visto in esse le tre faville c'hanno i cuori accesi ( Inferno VI, 75 ),
cioè superbia, invidia, avarizia; altri, le tre disposizion che 'l ciel
non vole ( Inferno XI, 81 ), cioè malizia, matta bestialità e
incontinenza.
Era
l’alba e il sole saliva in cielo nella costellazione dell’Ariete, con
la quale si era trovato in congiunzione allorché Iddio
creò,
imprimendo loro il movimento, gli astri; per questa ragione erano per me
auspicio di vittoria su quella belva dalla pelle screziata
l’ora
mattutina e la primavera (la dolce stagione: il sole è nel segno
dell’Ariete appunto in questa stagione), non tanto tuttavia da far si
ch’io non restassi nuovamente atterrito all’apparizione di un leone.
Questo
sembrava venirmi incontro rabbioso e famelico, col capo eretto, e
diffondeva intorno a sé tanto spavento che l’aria stessa sembrava
rabbrividirne.
E (oltre
al leone) una lupa, nella cui macilenta figura covavano brame insaziabili,
e che già molte genti aveva reso infelici,
mi
oppresse di tale sbigottimento con il suo aspetto, che disperai di
raggiungere la cima del colle.
La
Lupa simboleggia probabilmente la avarizia, intesa nel suo significato
originario, come avidità, brama smodata di possesso. Per San Paolo, che
la definisce "radice di tutti i mali, l'avidità è il vizio che ha
più contribuito ad allontanare gli uomini da Dio (I Timoteo VI, 10).
In questi versi, come altrove nella Commedia, l'allegoria riflette un
pensiero della Sacra Scrittura. Occorre tuttavia aggiungere che qui, come
quasi ovunque nel poema, Dante non precisa l'allegoria fino a farla
corrispondere, in tutti i suoi particolari, a un concetto. Una simile
puntuale corrispondenza non farebbe che immeschinire la poesia, privandola
di quell'alone di indefinito che è ad essa essenziale. In questa pagina,
ad esempio, la viva presenza delle tre fiere si ripercuote di continuo in
un mondo di sublimi significati, tanto più ricco e universale quanto meno
precisato. Dio, la legge morale, l'ordine del creato pervadono ogni
aspetto della realtà, ma si manifestano per cenni, per balenanti
illuminazioni; non possono essere imprigionati nella pochezza dei nostri
concetti. Questo ha sentito Dante, questo più volte ha ribadito
esplicitamente, questo è riuscito a far dire ai suoi versi, anche là
dove questi sembrano più gravati da intenti dottrinali o di edificazione.
E come
colui che, avido di guadagni, quando arriva il momento che gli fa perdere
ciò che ha acquistato, si cruccia e si addolora nel profondo del suo
animo,
tale mi
rese la insaziabile lupa, che, dirigendosi verso di me, mi respingeva
nuovamente verso la selva, là dove il sole non penetra con i suoi raggi.
Mentre
stavo precipitando in basso, mi apparve all’improvviso colui che, per
essere stato a lungo silenzioso, sembrava ormai incapace di far intendere
la sua voce.
Ruvinava:
precipitavo. "Ma il sovrassenso si fonde col
significato letterale perché in quel "ruinare" - che
rappresenta piuttosto l'entità che la velocità della caduta - e in quel
basso loco, che si riferisce ugualmente bene alla bassura della selva e
alla bassezza della vita viziosa, c'è l'immagine della doppia caduta:
materiale e morale. " ( Grabher )
Chi per lungo silenzio parea fioco: allegoricamente:
la voce della ragione, dopo un lungo silenzio, stenta a farsi intendere.
Ma, al di là di ogni intento allegorico, quest'ombra ingigantita dal
silenzio, isolata in uno spazio vuoto, si annuncia come portatrice di un
mistero ed esercita una profonda suggestione.
Quando lo
scorsi nella grande solitudine, implorai il suo aiuto: " Abbi pietà
di me, chiunque tu sia, fantasma o uomo in carne ed ossa !"
Miserere:
la forma latina conferisce tragica solennità
all'invocazione del Poeta.
Mi
rispose: " Non sono vivo, ma lo sono stato, e i miei genitori furono
entrambi lombardi, originari di Mantova.
Non
omo, omo già fui: la risposta di Virgilio
"articolata, intorno a quella realtà umana, in negazione rispetto al
presente e in affermazione rispetto al passato, sembra definitivamente
ribadire la distinzione tonale del canto fra mondo infraumano e sovrumano,
metafisico e simbolico, trascendente e biblico, e mondo umano, della
storia e della poesia" ( Getto) .
Vidi la
luce mentre era ancora in vita Giulio Cesare, benché troppo tardi (per
esserne conosciuto e apprezzato), e vissi a Roma al tempo di Ottaviano
Augusto, principe di gran valore, in un’età in cui vigeva il culto di
divinità non vere e ingannevoli.
Virgilio
nacque nel 70 a.C. ad Andes, presso Mantova. Giulio Cesare morì nel 44
a.C. Non poté quindi conoscere ed apprezzare l'autore dell'Eneide.
Fui
poeta, e celebrai in versi le imprese di quel paladino della giustizia
(Enea), figlio di Anchise, che venne da Troia ( a stabilirsi in Italia ),
dopo che la superba città fu incendiata.
Ma tu
perché vuoi ridiscendere a tanta pena, giù nella valle? Perché non
ascendi invece il gaudioso colle, dispensatore e origine di ogni perfetta
letizia? "
La
risposta di Virgilio contrasta, nella sua distaccata serenità, che è
quella del saggio, dell'anima ormai immune da ogni passione - con la
concitata ammirazione di Dante. Già in queste prime battute si delinea il
rapporto da maestro a discepolo che caratterizzerà i dialoghi dei due
personaggi.
"Sei
proprio tu " risposi reverente ed umile " il grande Virgilio,
sorgente copiosa d’inesauribile poesia?
O tu che
onori e illumini chiunque coltivi l’arte del poetare, mi acquistino la
tua benevolenza l’assidua consuetudine e il grande amore che mi ha
spinto ad accostarmi alla tua opera.
Tu sei lo
scrittore e il maestro che ha avuto su di me autorità indiscussa; sei
l’unico dal quale ho appreso il bello scrivere che mi ha arrecato fama.
Guarda la
lupa che mi ha fatto tornare sui miei passi: chiedo il tuo aiuto, famoso
sapiente, poiché essa mi fa tremare di paura in ogni fibra."
Famoso
saggio: per Dante il poeta deve anzitutto
essere un maestro, un sapiente.
I polsi: le arterie,
nell'atto di pulsare.
Virgilio,
reso pietoso dalle mie lagrime: "Tu devi, se vuoi uscire da questo
luogo impervio, seguire una altra strada:
perché
la belva, per la quale tanto ti lamenti, ostacola il cammino a chiunque in
essa si imbatte, perseguitandolo senza tregua sino ad ucciderlo;
e tanto
perversa e malvagia è la sua indole, che nulla può placarne le smodate
cupidigie e, invece di saziarla. il cibo ne accresce gli appetiti.
Numerosi
sono gli animali ai quali si accoppia, e il loro numero è destinato a
crescere, fino alla venuta ( in veste di liberatore) di un Veltro, che la
ucciderà crudelmente.
Animali:
esseri animati in genere e quindi anche uomini.
'l Veltro: per aver
ragione della lupa, occorre un veloce cane da caccia. In quest'allegoria
dobbiamo vedere l'attesa messianica di un papa riformatore o di un
imperatore giusto.
Tutta l'umanità per Dante avrebbe dovuto essere ricondotta sotto una sola
autorità nel campo temporale, sotto un solo magistero in quello
spirituale. Ma ai suoi tempi egli vedeva questi due poteri, da Dio
ordinati alla guida degli uomini, degradarsi in abusi e compromessi,
offuscarsi nella mediocrità di coloro che li rappresentavano.
L'interpretazione dei fatti politici di cui fu testimone è in Dante
improntata al più deciso pessimismo. Da qui, da questa considerazione
negativa del presente, prendono l'avvio alcune delle sue pagine di più
alta poesia, animate da un ardore profetico che trova riscontro soltanto
nell'Antico Testamento. I commentatori hanno dissertato a lungo nella
speranza di giungere ad una plausibile identificazione del personaggio
storico che si celerebbe dietro l'allegoria del Veltro. Ma anche a
proposito del Veltro giova ricordare che la poesia ha una sua vita
autonoma, e che l'allegoria può trasfigurarsi in lirica, nella misura in
cui dà voce a un sentimento. La figura della lupa e quella del Veltro
esprimono una profonda ansia di rinnovamento morale, una fede saldissima.
Per quel che riguarda l'interpretazione degli eruditi, alcuni hanno visto
nel Veltro un capo ghibellino ( Cangrande della Scala, di cui Dante fu
ospite nel suo esilio, o Arrigo VII di Lussemburgo); altri Benedetto XI,
pontefice dal 1303 al 1304. Non esistono però documenti che permettano di
risolvere la questione in modo probante.
Né il
potere né la ricchezza saranno il suo nutrimento, ma soltanto le qualità
della mente e dell’animo, e la sua nascita avverrà tra poveri panni.
Questi
non ciberà terra né peltro: l'azione politica del Veltro non sarà
dettata né da cupidigia di possedimenti (terra) né da brama di denaro
(peltro: lega metallica di stagno, piombo e mercurio ) .
Sapienza, amore e virtute: più
che qualità generiche, suggeriscono le tre persone della Trinità:
virtute (nel senso latino di potenza, capacità ), il Padre onnipotente;
sapienza, il Figlio ("il Verbo si è fatto carne"; Giovanni I,
14); amore, l'afflato di carità dello Spirito Santo.
Sarà la
salvezza di quella Italia, ora umiliata, per la quale si immolarono in
combattimento la giovinetta Camilla, Eurialo e Turno e Niso.
Camilla
e Turno combatterono e morirono in guerra contro l'esercito di Enea
sbarcato nel Lazio. Eurialo e Niso s'immolarono invece per la salvezza dei
Troiani. " L'aver unito nella esaltazione i vincitori e i vinti che
combatterono per la patria è tratto virgiliano, ma anche dantesco."
(Gallardo)
Egli darà
la caccia alla lupa in ogni città, fino a costringerla a tornarsene nella
sua sede naturale, l’inferno, da dove Lucifero, odio primigenio, la fece
uscire.
Perciò
penso e giudico che, per la tua salvezza, tu mi debba seguire, e io sarà
tua guida, e ti condurrò da qui nel luogo della pena eterna,
dove
udrai i disperati lamenti dei malvagi, vedrai gli spiriti di coloro che,
fin dalla più remota antichità, soffrono per l’inappellabile
dannazione;
La
seconda morte ciascun grida:
lamentano la loro condizione di reprobi, la morte dell'anima; secondo
altri interpreti, i dannati invocherebbero, dopo quello del corpo,
l'annullamento anche dell'anima, la loro definitiva estinzione anche come
spiriti. E' questo il primo alto annunzio della condizione morale dei
dannati, del loro tormento spirituale. Alla forza della disperazione
morale dei dannati si contrappone la forza della speranza delle anime
purganti: perché sperano nel paradiso, son contenti nel foco. Le parole
di Virgilio sono già una viva sintesi della fisionomia morale dei due
regni." (Momigliano)
e vedrai
coloro che sono contenti di espiare le loro colpe nei tormenti
purificatori del purgatorio, certi di salire prima o poi al cielo.
Se tu
vorrai giungere fin lassù, un’anima più nobile di me ti accompagnerà:
con lei ti lascerò al momento del mio distacco;
poiché
Dio, che lassù regna, non permette che qualcuno possa penetrare nella sua
città (tra i beati) senza essere stato in terra sottomesso alla sua legge
( cioè cristiano ).
Dio è in
ogni luogo sovrano onnipotente e ha nel cielo la sua sede; qui si trovano
la sua città e l’eccelso trono: felice colui che Dio sceglie perché
risieda in cielo"
Ed io:
" Poeta, ti chiedo in nome di quel Dio che non hai potuto conoscere,
per la mia salvezza temporale ed eterna,
Acciò
ch'io fugga...: perché io eviti "lo
smarrimento presente (questo male) e poi la dannazione, sua naturale
conseguenza (e peggio)" ( Grabher) .
La porta di san Pietro: la
porta del paradiso, a guardia della quale, nella immaginazione popolare,
era posto San Pietro ("a te darò le chiavi del regno dei
cieli"; Matteo XVI, 19).
di
condurmi là dove ora hai detto, tanto che io possa vedere la porta del
paradiso e le anime che dici immerse in così grandi pene".
Virgilio
sì incamminò, e io lo seguii.