Paradiso: canto
IX
O bella Clemenza, dopo che il tuo Carlo mi ebbe
chiarito (il dubbio manifestatogli), mi predisse le ingiustizie
che avrebbero subito i suoi figli;
Clemenza potrebbe essere
la figlia di Carlo Martello, che sposo nel 1315 Luigi X di Francia
e mori nel 1328, oppure la moglie, Clemenza d'Asburgo, morta nel
1295 subito dopo il marito. I più ritengono che Dante qui si rivolga
alla figlia, che nel 1300 era ancora viva. Tuttavia, tenendo presente
che l'espressione Carlo tuo è " appellativo essenzialmente coniugale"
(Del Lungo) e che la moglie, non la figlia, " ebbe comuni col
suo Carlo i danni recati loro", è più verosimile che il Poeta
intenda riferirsi alla giovane sposa del principe angioino. Li
'nganni che ricever dovea la sua semenza: Roberto d'Angiò nel
1309, con l'appoggio di Bonifacio VIII e di Clemente V, usurpò
il regno di Napoli a Carlo Roberto, figlio di Carlo Martello.
Contro Roberto Dante ebbe particolari motivi di risentimento,
perché questi osteggio l'impresa di Arrigo VII in Italia e sostenne
il partito dei Neri a Firenze. Proprio mentre egli era vicario
in Toscana, nel novembre 1315 fu riconfermato il bando con il
quale Dante era stato esiliato nel 1302.
ma soggiunse: “ Taci, e lascia che passino gli
anni ”; così che io non posso dire se non che ai torti da voi
subiti seguirà un giusto castigo.
Pianto giusto verrà di
retro ai vostri danni: la profezia è volutamente generica, perché
al Poeta interessa far pronunciare a Carlo Martello la condanna
della sua stirpe, più che specificare determinate circostanze
storiche. Tuttavia già Pietro di Dante vedeva in questa profezia
un accenno alla battaglia di Montecatini ( 1315 ), dove i Guelfi
sostenuti dagli Angioini furono sconfitti e dove morirono un fratello
e un` nipote di Roberto.
E
già l’anima di quella santa luce si era rivolta a Dio che la appaga
pienamente, poiché Dio è il bene capace di soddisfare ogni desiderio.
Ahi anime ingannate (dai beni mondani) e creature empie, che distogliete
i vostri cuori da un bene siffatto, rivolgendo le vostre menti
a cose vane!
Ed ecco un’altra di quelle anime luminose si avvicinò a me, manifestando
il desiderio di compiacermi col diventare più luminosa esternamente,
Gli
occhi di Beatrice, che erano fissi sopra di me, come già prima,
mi fecero certo del suo gradito consenso al mio desiderio (di
parlare).
Dissi: “ Deh, spirito beato, soddisfa subito il mio desiderio,
e dammi la prova che io posso riflettere in te (come in uno specchio)
il mio intimo pensiero (senza esprimerlo)! ”
Perciò
quella luce che m’era ancora sconosciuta, dall’interno del suo
splendore, da dove prima traeva la voce per cantare, continuò
con lo stesso atteggiamento di colui al quale piace fare del bene
(agli altri);
La seconda anima del cielo
di Venere che appare a Dante e quella di Cunizza, nata da Ezzelino
Il da Romano e da Adelaide degli Alberti di Mangona verso il 1198.
Sposò nel 1222 Riccardo di San Bonifazio, signore di Verona, ma
poco dopo fuggi con il trovatore Sordello da Goito, con il quale
convisse alcuni anni. In seguito si unì in matrimonio ancora due
volte e scandalizzò i contemporanei con la sua condotta immorale,
tanto che tutti i cronisti del tempo sono concordi nel ricordare
i suoi costumi dissoluti. Dopo il crollo della potenza della sua
famiglia (1260), Cunizza si ritirò a Firenze, dove condusse una
vita di penitenza e di carità, morendo dopo il 1279. Dante salva
dunque una donna che era diventata famosa per la sregolatezza
dei suoi costumi. Tuttavia non circonda la figura di Cunizza di
quella stima e di quella simpatia che gli hanno dettato accenti
particolarmente commossi di fronte a Francesca, a Pia, a Piccarda.
Il Porena, dopo aver affermato che il Poeta "non fa certo di Cunizza
una figura che dal lettore si faccia amare ed ammirare", osserva
che in lei manca una vera ricchezza interiore. La sua conversione
è sottintesa, non dà luogo ad una rappresentazione concreta; la
dichiarazione d'indulgenza verso i suoi peccati (versi 34-36)
dovrebbe essere un elemento di trascendenza paradisiaca, ma "per
essere apprezzata come tale bisognerebbe che Cunizza mostrasse
una simile trascendenza in tutti i suoi discorsi, che considerasse
le cose umane da un punto di vista in tutto più che umano", mentre,
a proposito di Folchetto da Marsiglia, mostra di apprezzare la
gloria terrena e nel biasimare i suoi concittadini e predire loro
le future punizioni "più che alto e accorato sdegno ella ha una
specie di canzonatoria ironia e quasi un maligno gusto". Tuttavia
le ultime affermazioni del Porena sono viziate da eccessiva severità,
mentre d'altra parte appaiono troppo indulgenti quei critici che
vedono in Cunizza soprattutto la donna pronta a confessare la
sua femminile fragilità nell'arrendevolezza agli influssi di Venere.
In realtà l'intonazione fondamentale dell'episodio che ha per
protagonista Cunizza è il profondo sdegno morale di fronte alla
degenerazione dei suoi concittadini, l'amarezza (uguale a quella
di un Guido del Duca o di un Marco Lombardo) che nasce dal costatare
come gli uomini non sappiano volgere verso il bene le loro inclinazioni
naturali. In questa intonazione morale è da cercare il motivo
ispiratore dell'apparizione di Cunizza. Non un sentimento di particolare
ammirazione ha spinto Dante a scegliere questa nobildonna trevigiana,
ma una ragione di opportunità: egli vuole fare di Cunizza il portavoce
della propria condanna nei confronti della Marca Trivigiana e,
più in generale, di tutto il Veneto (cfr. nota alla terzina 46
), poiché la condanna pronunciata da un'anima beata, le cui parole
rispecchiano il pensiero di Dio (cfr. versi 61-63), acquista il
valore di un giudizio insindacabile.
“ In quella parte della corrotta terra italica
situata tra l’isola di Rialto e le sorgenti del Brenta e del Piave,
sorge, ma non è molto alto, un colle, dal quale un tempo scese
una fiamma di guerra che causò gravi danni alla regione.
La Marca Trivigiana è indicata
per mezzo dei suoi confini: a sud Venezia (Rialto è una delle
isole principali su cui sorge la città), a nord le Alpi del Trentino
e del Cadore, dalle quali scendono i fiumi Brenta e Piave. Il
colle al quale Dante fa riferimento nel verso 28 è quello di Romano
(presso l'attuale Bassano del Grappa), dove sorgeva il castello
degli Ezzelini. Lì nacque Ezzelino III; che tiranneggiò a lungo
non solo la Marca Trivigiana. ma anche il Veneto, giungendo fino
a Trento e a Mantova. Pietro di Dante spiega l'espressione facella
riferendo una leggenda diffusa in quel tempo: prima che Ezzelino
nascesse la madre sogno di partorire una fiamma che incendiava
tutta la regione.
Io ed Ezzelino nascemmo dagli stessi genitori
: fui chiamata Cunizza, e risplendo nella sfera di Venere perché
(in vita) fui dominata dall’influsso di questo pianeta;
ma ora con gioia perdono a me stessa l’inclinazione
amorosa che mi ha fatto assegnare a questo cielo, e non me ne
affliggo; il che ai comuni mortali sembrerà forse arduo a comprendersi.
Nelle parole di Cunizza,
come più tardi in quelle di Folchetto (versi 95-105), non c'è
condanna per le passioni e i peccati della vita terrena, perché
le anime beate costatano ora come dal male possa sempre nascere
il bene e come la grazia divina possa volgere alla virtù quelle
inclinazioni naturali che erano state precedentemente causa di
peccato.
(Sulla terra)
è rimasta grande fama di questo spirito che più degli altri mi
è vicino, e che rappresenta una luminosa e preziosa perla del
nostro cielo e prima che la sua fama si spenga, questo centesimo
anno ( che chiude il secolo) si ripeterà ancora per cinque volte;
vedi dunque che
l’uomo deve cercare di diventare famoso (per opere virtuose),
in modo che la vita mortale lasci dietro di se un’altra vita (quella
della buona fama).
Canizza addita lo spirito
di Folchetto d i Marsiglia, che sarà protagonista della seconda
parte del canto IX. Questo centesimo anno ancor s'incinqua: "ritornerà
l'anno ultimo di cento cinque volte" spiega il Buti, ricordando
che Dante immagina di compiere il suo viaggio oltremondano nel
1300.
E a questa conquista della giusta gloria non
pensa la turba che vive oggi nel territorio compreso tra il Tagliamento
e l’Adige e neppure si pente per quanto colpita da castighi;
ma presto accadrà che i Padovani faranno cambiare
(col loro sangue ) il colore all’acqua delle paludi formate dal
Bacchiglione che bagna Vicenza, essendo gente restia a compiere
il loro dovere (verso l’Impero).
Non solo la Marca Trivigiana,
ma tutto il Veneto subirà tra poco la giusta punizione per la
sua ostinata resistenza prima di fronte all'imperatore Arrigo
VII, sceso in Italia per ridurre all'obbedienza le città guelfe,
e poi di fronte al suo vicario, Cangrande della Scala. Infatti
nell'autunno del 1314 i Padovani, guelfi, subirono una sanguinosa
sconfitta ad opera dei Vicentini, ghibellini, aiutati da Cangrande.
La battaglia avvenne presso le paludi che il Bacchiglione forma
vicino a Vicenza.
E a Treviso, dove si congiungono le acque del
Sile e del Cagnano, Rizzardo da Camino tiranneggia e procede superbo,
mentre già si sta apprestando la rete per farlo cadere.
Rizzardo da Camino divenne
signore di Treviso nel 1306. La sua crudele tirannide e le sue
simpatie per il partito ghibellino fomentarono una congiura di
nobili guelfi, che lo fecero assassinare nel 1312.
Anche Feltre piangerà per la colpa del suo empio
vescovo, la quale sarà così turpe, che mai per un delitto simile
alcun condannato entrò in Malta.
Il
trevisano Alessandro Novello, Vescovo di Feltre, nel 1314 consegnò
quattro fuorusciti ghibellini di Ferrara, che si erano rifugiati
presso di lui, a Pino della Tosa, governatore di Ferrara per conto
di Roberto d'Angiò, vicario della Chiesa. Il della Tosa li fece
poi decapitare. Non s'entrò in Malta: nell'isola Bisentina del
lago di Bolsena sorgeva la torre di Malta, "nella quale lo papa
metteva li chierici dannati senza remissione...; e quanti vi se
ne mettevano mai non n'uscivano" ( Buti ) . I commentatori antichi
ricordano, tuttavia, che prigioni di questo nome esistevano anche
a Viterbo e a Cittadella, non lontano da Romano ( quest'ultima
prigione fu fatta costruire proprio da Ezzelino III). Il termine
Malta era usato anche come nome comune, per indicare una prigione
oscura e umida, perché il significato primitivo di questa parola
era quello di " fango ".
Troppo grande dovrebbe essere la bigoncia per contenere il sangue
dei Ferraresi, e si stancherebbe chi volesse pesarlo a oncia a
oncia, sangue che questo prete generoso (verso i Guelfi) donerà
per mostrarsi fedele al suo partito;
e
simili doni saranno conformi al costume diffuso in questa regione.
Lassù (nell’Empireo) ci sono intelligenze angeliche che voi chiamate
Troni, dalle quali come da specchi è riflessa su di noi la luce
della giustizia divina:
sì
che questi discorsi (pur nella loro durezza) ci appaiono giusti
(perché ispirati da Dio stesso). ”
Qui
Cunizza tacque; e mi mostrò d’aver rivolto la sua attenzione ad
altro, per il fatto di essere ritornata alla danza circolare come
faceva prima di parlarmi.
L’altro spirito gioioso, che mi era già noto come una perla preziosa,
si offerse alla mia vista come un fine rubino balascio in cui
il sole rifletta i suoi raggi.
Il
balasso (balascio) era il nome di un rubino che abbondava particolarmente
nella regione di Balascam, in Asia.
Nel paradiso
per manifestare la letizia si accresce lo splendore, come in terra
si accresce il sorriso; ma in terra (poiché non c’è sempre gioia,
ma anche dolore) l’immagine esteriore si rabbuia, in proporzione
alla tristezza dell’animo.
Io dissi: “ O
spirito beato, Dio vede ogni cosa, e la tua conoscenza penetra
in lui, in modo che nessun desiderio può rimanere nascosto a te.
Dunque la tua
voce, che sempre rallegra il cielo insieme al canto dei Serafini,
gli angeli che s’ammantano di sei ali.
Fuochi
pii: infatti i Serafini, nella gerarchia angelica, rappresentano
l'amore (secondo l'etimologia ebraica, il termine serafino significa
" ardente "; Cfr. Paradiso XI, 37). Essi, secondo la visione di
Isaia (VI, 2), sono sempre rappresentati con sei ali, che li avvolgono
come in un saio monacale ( coculla: tonaca).
perché non soddisfa
i miei desideri (con una risposta)? Se io mi immedesimassi nei
tuoi pensieri, come tu ti immedesimi nei miei, già non attenderei
la tua domanda ”.
Allora così incominciarono
le sue parole: “ Il Mare Mediterraneo, il bacino più grande in
cui si riversi l’acqua dell’oceano che circonda la terra emersa,
tra le sponde opposte (d’Europa e di Africa),
tanto si distende
da occidente verso oriente, che (all’estremità orientale: a Gerusalemme)
fa da meridiano là dove prima (all’estremità occidentale: alle
colonne di Ercole) si suole vedere come orizzonte.
Folco
indica la sua città d'origine attraverso una complessa designazione
geografico-astronomica, che introduce allo stile elaborato e concettuoso
della prima parte del suo discorso, una magistrale auto-presentazione
distribuita in nove terzine ( quattro per indicare la sua patria,
quattro per la storia della sua anima, dagli eccessi amorosi alla
redenzione finale, una sola, quella centrale, per rivelare il
proprio nome ) . Senza dubbio Dante intende qui richiamare i modi
poetici e la raffinata cultura di Folco, ricostruendo, con questi
mezzi, le caratteristiche specifiche del personaggio storico.
Tuttavia simili costruzioni artificiose non sono mai perseguite
da Dante come fini a se stesse. Esiste dunque una ragione più
profonda che spinge il Poeta a conferire un particolare risalto
alla figura di questo trovatore e solo la parte finale del canto
permette di precisarla: a Folco toccherà il compito di porre sotto
accusa quella che Dante considera la causa del traviamento del
mondo, la avidità di guadagno, il maledetto fiore c'ha disviate
le pecore e li agni. A poco a poco il suo discorso perderà ogni
ornato letterario, acquisterà sempre di più il calore conferitogli
dal sentimento, e mentre la figura dell'elegante poeta di un tempo
cederà il posto a quella dell'inflessibile vescovo persecutore
degli eretici, le sue parole assumeranno le maestose cadenze profetiche
che Dante sa trovare allorché il suo animo si ribella di fronte
al male del mondo. Seguendo la geografia del tempo, il Poeta spiega
che il Mediterraneo è la più grande fra le depressioni dei mari
circondati dall'Oceano (quest'ultimo, secondo la credenza medievale,
chiudeva in un cerchio tutte le terre emerse ). Secondo le rappresentazioni
cartografiche del Medioevo esso si estende per 90 gradi di longitudine
(in realtà la sua estensione è di soli 42 gradi), cosicché il
cerchio celeste che per Gerusalemme è meridiano, per lo stretto
di Gibilterra ( all'estremità opposta ) è orizzonte.
Io
vissi sulla riva di quel mare compreso tra le foci dell’Ebro (
in Spagna ) e quelle della Magra, che per un breve tratto fa da
confine tra la Liguria e la Toscana.
Avendo
quasi in comune il tramonto e il sorgere del sole giacciono(sullo
stesso meridiano) Bugia e la città dove sono nato Marsiglia, la
quale un tempo riscaldò le acque del suo mare con il sangue dei
propri cittadini.
Folco
specifica ora che la sua città. Marsiglia, e Bùgia (sulla costa
algerina) si trovano quasi sullo stesso meridiano, poiché per
e ntrambe il sole nasce e tramonta quasi nel medesimo istante.
In realtà fra le due città c'e non solo una differenza di longitudine.
ma anche di latitudine. Fe del sangue suo già caldo il porto:
durante la guerra civile, Bruto, per ordine di Cesare, espugno
la città di Marsiglia e ne trucidò gli abitanti. Lo spunto per
il verso 93 è offerto da Lucano il quale, nella Farsaglia ( III,
572-573), ricorda che in quell'occasione il mare intorno a Marsiglia
rosseggiò e si gonfiò per il sangue versato.
Quella gente
alla quale fu noto il mio nome mi chiamo Folco, e il cielo di
Venere è ora segnato dalla mia luce, come io sulla terra fui segnato
dal suo influsso amoroso.
poiché Didone,
la figlia di Belo, non arse di maggior passione (verso Enea),
recando oltraggio a Sicheo e a Creusa, di quanto non ardessi io,
finché si convenne alla mia età giovanile;
Folco
riconosce che durante la giovinezza il suo ardore amoroso fu pari
a quello di Didone, che si innamorò di Enea, offendendo la memoria
del marito Sicheo e di Creusa, moglie di Enea, entrambi morti
(Virgilio-Eneide IV, 552; cfr. anche Inferno V, 61-62).
né più di me arse
di passione la rodopea Fillide che fu abbandonata da Demofoonte,
né Ercole quando il suo cuore fu preso da amore per Iole.
Fillide,
figlia di Sitone re della Tracia, la quale abitava presso il monte
Rodope, si uccise per amore di Demofoonte, figlio di Teseo e di
Fedra, il quale non era ritornato da Atene nel tempo stabilito
per le nozze (Ovidio, Eroidi II ) . Ercole, discendente di Alceo,
si innamora di Iole, figlia di Eurito re della Tessaglia, suscitando
la gelosia della moglie Deianira. Questa causò involontariamente
la morte del marito nel tentativo di riconquistarlo con la tunica
intrisa del sangue del centauro Nesso (Ovidio, Eroidi IX; cir.
anche Inferno Xll, 67-69).
In
paradiso non proviamo pentimento per queste cose, ma si gioisce,
non per la colpa commessa, che non torna più in mente, bensì per
la virtù divina che ha disposto ( l’influsso di questo cielo su
di noi) e ha provveduto (alla nostra salvezza eterna ).
Qui
si contempla l’arte divina che produce opere così mirabili, e
si comprende chiaramente il fine benefico per cui i cieli modellano
la terra con i loro influssi.
Ma affinché tutti i desideri che sono sorti in te in questo cielo
siano interamente appagati, devo procedere ancora oltre (col mio
discorso).
Tu desideri sapere chi è lo spirito nascosto in questa luce che
qui accanto a me risplende con lo stesso scintillio di un raggio
di sole in uno specchio d’acqua pura.
Ora
sappi che là dentro gode la sua pace eterna Raab; e poiché ella
è unita alla nostra schiera di spiriti amanti, questa schiera
riceve in sommo grado l’impronta della sua luce.
Raab è la meretrice di Gerico che, con suo
grande pericolo, accolse e nascose nella propria casa gli esploratori
inviati da Giosué, favorendo la conquista della città e la vittoria
del popolo eletto (Giosué II, 1-24; VI, 17-25). La sua salvezza.
in virtù di questo gesto, è affermata nella lettera di San Paolo
agli Ebrei (XI, 31) e nella lettera di San Giacomo (II, 25). La
figura di Raab, nel cielo di Venere, è la più luminosa, come ben
si addice a colei che giunse per prima nella terza sfera, allorché
Cristo, con la sua morte (che è un trionfo sul peccato e sull'inferno)
aperse le porte del limbo (versi 118-123).
Raab fu accolta dal cielo di Venere, in cui termina il cono d’ombra
proiettato dalla terra, prima di qualsiasi altra anima redenta
dal trionfo di Cristo.
In cui l'ombra s'appunta
che 'l vostro mondo face: secondo la teoria astronomica di Alfragano,
la terra proietta nello spazio un cono d'ombra che termina nel
cielo di Venere. Questo fatto spinse Dante a distribuire nei primi
tre cieli le anime beate che avvertirono più di tutte le altre
le debolezze terrene.
Ben fu giusto
che Cristo la accogliesse in uno di questi cieli come segno della
grande vittoria (sull’inferno) che Egli consegui con la sua crocifissione,
perché ella favorì
la prima delle imprese gloriose di Giosuè nella Terrasanta, la
quale poco torna alla memoria del pontefice.
La
visione della Terrasanta in mano agli infedeli mentre il mondo
cristiano e, primo fra tutti, il pontefice del momento, Bonifacio
VIII, se ne disinteressano, dà l'avvio al tema dal quale la figura
dello zelante vescovo di Tolosa riceve la sua precipua fisionomia:
una vigorosa e amara protesta di fronte al dilagare del male,
illuminata alla fine da un improvviso lampo di fiduciosa speranza
(versi 139-142).
Firenze, la tua
città natale, che ( per i suoi vizi) è pianta nata dal seme di
Lucifero, colui che per primo si ribellò al suo Creatore e la
cui invidia ( verso il genere umano)
fu causa di tanto
pianto (perché per invidia Lucifero indusse i progenitori al peccato),
conia e diffonde il maledetto fiorino che ha messo fuori strada
il gregge dei cristiani, poiché ha trasformato i pastori in lupi.
Firenze, che Dante fa balenare
attraverso i cupi toni di un linguaggio che ricorda quello di
Ciacco (Inferno VI, 49 sgg.), coniò per prima la moneta d'oro
e diffuse in tutto il mondo il maladetto fiorino (che portava
impresso il giglio fiorentino su una delle due facce). La sua
città, già trista selva (Purgatorio XIV, 64 ) ed ora sferzata
come pianta di Satana, è dunque all'origine del traviamento del
mondo, che davanti alla sfolgorante e vagheggiata immagine del
fiore d'oro, dimentica la via del bene e del dovere. La voce del
Poeta colpisce soprattutto la corruzione ecclesiastica, l'interesse,
da parte degli uomini di Chiesa, volto solo ai beni temporali:
è un'immagine, nella sua dura concretezza, sembra immobilizzarli
nel loro pervertimento: però che fatto ha lupo del pastore.
Per questo sono lasciati in disparte gli insegnamenti
del Vangelo e dei grandi Padri della Chiesa, e si attende solo
allo studio delle Decretali, come appare dai margini (annotati
e consunti dei libri che le contengono ).
Gli sforzi e gli studi
degli uomini di Chiesa si concentrano non più sui testi evangelici
o su quelli dei Padri della Chiesa, ma sui testi delle Decretali,
le quali sono l'insieme delle costituzioni pontificie ordinate
e raccolte come base del diritto canonico da Gregorio IX nella
prima metà del '200. Qui indicano il diritto canonico in genere
e, in particolare, la "scienzia lucrativa" (Lana) necessaria a
sostenere gli interessi materiali degli ecclesiastici. Dante ripete
qui le stesse accuse rivolte al mondo ecclesiastico nell'Epistola
ai Cardinali italiani (XI, 16).
Al fiorino e alle Decretali attendono il papa
e i cardinali: i loro pensieri non vanno a Nazareth, là dove l’Arcangelo
Gabriele diresse il suo volo ( per annunciare a Maria la divina
maternità ) .
Ma il colle Vaticano e gli altri luoghi insigni
di Roma, che furono la tomba dell’esercito dei martiri seguaci
di Pietro, saranno presto liberati da questa profanazione ”.
Negli ultimi versi la città
di Roma viene presentata in tutta la sua sacra dignità: di lei,
infatti, il Poeta non ricorda i maestosi monumenti né le gloriose
memorie della civiltà passata, ma il Vaticano, il colle dove fu
crocifisso e sepolto San Pietro, e tutti gli altri luoghi resi
sacri dal sangue del martiri (la milizia che Pietro seguette),
mentre invoca la liberazione dall'adaltèro con il quale è stata
profanata dal papa e' cardinali smarriti dietro il maledetto fiore.
Nel messianico sogno di un futuro liberatore e risanatore delle
piaghe d'Italia e dei mondo il canto, pur suggellato da quella
dura espressione (adaltèro), sembra ritrovare una più distesa
e fiduciosa tonalità.
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