Purgatorio: canto XII
Io camminavo con Oderisi oppresso dal peso, curvo come lui, come procedono i buoi aggiogati, finché lo permise il mio dolce maestro;
ma quando disse: «Lascia i superbi e procedi oltre, perché nel purgatorio è necessario che ciascuno, quanto più può, con ogni mezzo porti avanti la sua barca (cioè il suo cammino)»,
mi raddrizzai nella persona così come si deve fare per camminare, sebbene i miei pensieri continuassero a restare umili e privi del turgore della superbia.
Io mi ero incamminato, e seguivo con gioia i passi della mia guida, ed entrambi già mostravamo (camminando spediti) quanto eravamo privi di ogni peso;
ed egli mi disse: «Abbassa gli occhi a terra: ti sarà utile, per distrarti dalla fatica del cammino, osservare il pavimento sul quale appoggi i piedi »,
La nota altamente umana e pensosamente soggettiva con la quale si era chiuso il canto precedente si dispiega lungo tutto l'arco di questi quindici versI, nei quali è in evidenza il personaggio lirico-drammatico di Dante. Ha fatto propria la sofferenza dei superbi fino ad accettare lo stesso modo di procedere (come buoi che vanno a giogo), la sua meditazione continua a svolgersi ansiosamente intorno alla necessità dell'umiltà
(avvegna che i pensieri mi rimanessero e chinati e scemi), per approfondirsi ulteriormente in quel volgi li occhi in giù
e, con un significativo moto progrediente dall'astrattezza di una dimensione interiore - i pensieri - alla concretezza di una proiezione esteriore - lo letto delle piante tue - che inserisce subito il lettore nella linea del canto, dove il tono morale non diviene sentenza o discussione retorica, ma si trasforma in evidenza di esempi. Dante dunque sarà costantemente « attore » in questo canto, nel quale ha volutamente eliminato ogni incontro con anime penitenti, affermando fin
dall'inizio, lascia loro e varca; farà riaffiorare, nel silenzio profondo della cornice, le immagini di luoghi familiari, le chiese con le tombe terragne e le scalee per salire da Firenze a San Miniato; diventerà, "fattosi in margine e come sulla soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti... l'oratore che nei versi or superbite, e via col viso altero, fIglioli d'Eva assale veemente e con fiera ironia" (Marzot), ma soprattutto procederà da solo sopra quegli esempi di superbia punita, attirerà a sé, a proprio tormento e contrizione, quei quadri: non la schiera dei superbi, ma uno solo, Dante, di fronte allo spettacolo di un male che si
distende nel tempo fIn dalle origini. Il canto, chiuso in un giudizio negativo da parte di molti critici a causa della parte centrale (versi 25-69), ha invece, come ogni altro, "una sua fisionomia ed una sua unità di tono morale e di modi espressivi, gli uni e gli altri informati ed incentrati sul valore dell'umiltà, sulla rinuncia ad ogni atto di passione scomposta, sulla celebrazione di un rito dinanzi alla prima ascesa. Cosa nuova è certo aver realizzato questo stato d'animo senza ricorso al colloquio. al modi
gesticolati, all'usata abilità ritrattistica, ma se mai affrontando il più difficile compito di smuovere le cose e farle parlare... Ne viene fuori un canto altamente impegnato, gravemente mosso, dantesco e medievale in ogni sua parte" (Vallone).
Come le pietre sepolcrali a livello del suolo, per ricordare i morti, recano effigiato quello che il sepolto era prima di morire,
per cui lì si torna spesso a piangerlo per la fitta dolorosa del ricordo, il quale però fa soffrire (dà delle calcagne: come il cavaliere pungola il cavallo con il calcagno che porta lo sprone) solo gli animi pietosi,
allo stesso modo io potei lì osservare coperto di sculture, ma con un migliore risultato rispetto all'esecuzione artistica, tutto il piano che sporge dal monte per servire da strada.
Nei tre canti dedicati ai superbi, il Poeta ha dapprima descritto la loro pena, poi le immagini di umiltà che essi devono meditare (come stimolo a praticare questa virtù), in un terzo momento li ha uniti nella preghiera corale del «Pater Noster» (per riconoscere come unica gloria quella di Dio), infine riporta davanti a loro le immagini del male (come freno, nato dal timore, per non ricadere nel peccato). Ma Dante deve osservare gli esempi di superbia punita per tranquillar la via: non per godere del male lì raffigurato, ma per avvertire la distanza tra il suo spirito, ormai pronto e forte, e lo spettacolo del vizio superato, poiché, osserva il Marzot, dinanzi ai quadri della superbia punita torna la situazione del pellegrino nei cerchi infernali, con la differenza, però, che c'è tra la rappresentazione diretta della colpa, che fa guerra ai sentimenti e li turba, e la visione di essi, rifatta coi mezzi dell'arte, che dà alla materia, anche triste, una specie di superiore diletto. Senza dubbio l'aver trasferito il peccato dalla materia vivente della creatura umana al marmo del monte, anche se con visibile parlare, accentua il distacco e la superiorità morale da Dante raggiunta, ma è indubbiamente eccessivo quanto afferma il Croce, e, sulla sua linea, in parte il Marzot, riguardo a una potenza catartica del bello - del resto lontana dalla dottrina estetica del Medioevo - per cui risulterebbe, più che un insegnamento morale, un'ammirazione per l'arte trionfatrice che, sciogliendosi da ogni materialità e da ogni possibile riflessione, si fa linea, ombra, colore, odore, suono. Se il Poeta si compiace di un proposito d'arte raffinata (da lui stesso dichiarato nei versi 22-23 e 64-68), di una prova di bravura nella ricerca di simmetria e di richiami, l'ordito si viene svolgendo attraverso un commento morale e ricco di sentimento, e si risolve in una tecnica formalmente perfetta perché cosciente dei suo effetto didascalico.
Vedevo da una parte della via Lucifero, che fu creato più perfetto di ogni altra creatura, precipitare dal cielo come una folgore.
Il primo esempio di superbia punita rappresenta Lucifero che, dopo la sua ribellione, viene precipitato dal cielo, "come folgore" secondo la stessa espressione del vangelo di Luca (X, 18).
Vedevo dall'altra parte Briareo, trafitto dalla freccia divina, giacere, gravando sulla terra con il suo corpo senza vita.
Briareo è il gigante dalle cento braccia (Inferno XXXI, 98) che partecipò con i Titani al tentativo di rovesciare Giove dall'Olimpo e che, come gli altri, fu trafitto dalla saetta degli dei.
Vedevo Timbreo, vedevo Pallade e Marte, ancora con le armi in mano, guardare, stando intorno a Giove, i corpi dei giganti sparsi sul campo di battaglia.
Timbreo è il nome con cui veniva indicato Apollo, dalla città di Timbra (nella Troade), dove sorgeva un tempio a lui dedicato. Ora, insieme a Pallade Atena e Marte, osserva il campo di Flegra, dove è appena terminata la battaglia contro i Titani.
Vedevo Nembrot stare come smarrito ai piedi della grande torre, e osservare coloro che a Sennaar ebbero la sua stessa superbia.
Nembrot, da Dante già presentato nell'Inferno (canto XXXI, versi 58-81), è il biblico cacciatore responsabile dei tentativo di costruzione della torre di Babele nella pianura di Sennaar (Genesi X, 8-9; XI, 1-9).
O Niobe, con quali occhi pieni di dolore io ti vedevo raffigurata sulla via, tra i tuoi quattordici figli morti!
Il quinto esempio di superbia punita è ispirato dalle Metamorfosí di Ovidio (VI, versi 146-312). Niobe, moglie di Anfione, re di Tebe, si vantò dei suoi quattordici figli (sette maschi e sette femmine) di fronte a Latona, madre di due soli figli, Apollo e Diana, i quali vendicarono la madre uccidendo i quattordici giovani, mentre Niobe venne trasformata in una statua.
O Saul, come qui apparivi morto, ucciso dalla tua stessa spada a Gelboè, che dopo questo fatto non ebbe più il dono della pioggia e della rugiada!
Saul, primo re d'Israele, a causa della sua superbia fu abbandonato da Dio e, sconfitto dai Filistei, si uccise gettandosi sulla sua spada sul monte Gelboè (I Samuele XXXI, 1-4). Contro il monte, Davide, piangendo la morte di Saul, scagliò la maledizione: "O monti di Gelboè, né rugiada, né pioggia non cada più su di voi, o monti fatali!" (Il Samuele I, 21).
O folle Aracne, così io ti vedevo gìà diventata ragno per metà, (giacere) angosciata sui resti della tela che era stata da te tessuta per il tuo male.
Ancora una volta Ovidio offre il tema della leggenda (Metamorfosi VI, versi 5-145), che Dante già ha ricordato nel canto XVII dell'Inferno (verso 18).
Aracne, una tessitrice della Lidia, orgogliosa per la sua abilità, osò sfidare Minerva, e, vinta, fu trasformata in ragno.
O Roboamo, davvero qui la tua figura non sembra più minacciare; ma un carro la trasporta piena di spavento, senza che alcuno la insegua.
Roboamo fu uno dei figli dì Salomone e suo successore; con la sua prepotenza e la sua severità provocò la rívolta del popolo, che lo costrinse ad abbandonare Gerusalemine (I Re
XII)
Il pavimento di marmo mostrava ancora come Almeone fece sembrare pagata a caro prezzo (perché pagata con la morte) a sua madre la infausta collana.
Almeone uccise la madre Erifile per vendicare l'uccisione del padre Anfiarao. Quest'ultimo, avendo presagito, come indovino, la sua morte durante la guerra di Tebe, si era nascosto, ma Erifile, corrotta col dono di una preziosa collana, svelò il suo nascondiglio e Anfiarao, costretto a prendere parte alla guerra, vi trovò la morte. Il peccato di Erifile non è peccato di vanità, ma di superbia, poiché il monile di cui voleva impadronirsi era di origine divina, essendo stato fabbricato da Vulcano; però esso fu sventurato, perché chi lo possedette (Giocasta, Semele, Argia) incontrò sempre una fine infausta.
Mostrava come i figli si gettarono su Sennacherib all'interno del tempio, e come lo abbandonarono lì morto.
Sennacherib, re degli Assiri, mosse guerra agli Ebrei, oltraggiandone il re Ezechia; per punizione il suo esercito venne distrutto e Sennacherib, ritornato a Ninive, fu ucciso dai suoi figli durante una funzione religiosa (II Re XVIII, 13-37; XIX, 1-37; Isaia XXXVI; XXXVII, 1-38).
Mostrava la strage dell'esercito e il crudele scempio del cadavere di Ciro che fece Tamiri, quando gli disse: « Fosti assetato di sangue, ed io ti sazio di sangue ».
Tamiri, regina degli Sciti, dichiarò guerra a Ciro, re di Persia, poiché le aveva ucciso il figlio che aveva fatto prigioniero. Sconfitti i Persiani e impadronitasi del re, Tamiri lo fece decapitare e ne gettò la testa in un otre pieno di sangue umano (Orosio - Adversus Paganos Il, 7, 6).
Mostrava come gli Assiri fuggirono sconfitti, dopo la morte di Oloferne, e (mostrava) anche i resti dello scempio fatto
(relíquie del martiro: cioè il cadavere decapitato di Oloferne).
Oloferne, a capo dell'esercito assiro, assediava Betulia, città della Giudea, allorché venne ucciso da una donna del luogo, Giuditta; dopo tale fatto il suo esercito si ritirò in fuga disordinata (Giuditta VII, 1-3; VIII-XV).
Vedevo Troia ridotta in cenere e in rovine: o rocca di Ilio, come ti presentava distrutta e degna di derisione la raffigurazione che lì si vedeva!
Come ultimo esempio di superbia punita, Dante ricorda la distruzione di Troia e del suoi orgogliosi cittadini, ripetendo un giudizio che era stato dato da Virgilio (Eneide III, 2-3).
Gli esempi di superbia punita sono tredici, uno per terzina, con un'alternanza quasi perfetta di esempi biblici e classici, poiché ogni momento della storia, senza distinzione fra mito e realtà, si offre come utile esempio. L'organizzazione dell'insieme è grandiosa e la corrispondenza dei particolari precisa, secondo un tipo di cultura e un gusto d'arte, resistenti al giudizio estetico moderno, ma caratteristici del Medioevo, per il quale la ricerca di struttura era espressione di una suprema chiarezza mentale e la poesia si qualificava come "invenzione elaborata secondo retorica e musica" (De Vulgari Eloquentia Il, VI, 2), cioè manifestazione di un gusto dello "ornato".
L'ordinamento strutturale e sintattico di questa parte divide le terzine in tre gruppi di quattro terzine ciascuno: quelle del primo gruppo iniziano con vedea, quelle del secondo con o seguita (tranne che nel terzo esempio) da un nome proprio, quelle del terzo con mostrava, finché la terzina 61-63 ripete le tre formule all'inizio dei suoi versi. Si forma in tal modo un'acrostico (gli acrostici sono comunissimi nella poesia medievale e ne avremo altri esempi nel Purgatorio e nel Paradiso) :
VOM, cioè UOM (poiché la V corrisponde alla U secondo la grafia del tempo), essendo l'uomo in questo momento sigla e sintesi di folle superbia. A questi tre gruppi di terzine corrisponderebbero, secondo il Parodi, tre categorie di superbi: i colpevoli contro la divinità, i colpevoli contro se stessi, i colpevoli contro il prossimo; i primi puniti da Dio, i secondi dal loro rimorso, i terzi dai loro nemici, mentre la terzina finale dedicata a Troia riassumerebbe quelle tre classi di peccato. Secondo il Medin, il Barbi-Casini e il Porena, gli esempi sarebbero dodici (essendo unico quello di Briareo e dei giganti), sei biblici e sei mitici. Il Marzot ritiene invece che le immagini siano, allineate in due serie - una ebraica e una pagana - ai lati della via e abbinate secondo la linea orizzontale e verticale: così nei primi quattro specchi, a sinistra e a destra, ci sarebbero gli attentatori della sovranità divina (Lucifero e Nembrot, Briareo e i giganti); nei secondi i denigratori della legge civile e degli dei (Saul e Roboamo, Niobe e Aracne); nel terzo quelli che fecero violenza agli altri per cupidigia (Sennacherib e Oloferne, Erifile e Ciro). Per il Vallone i gruppi sono quattro: Lucifero, Nembrot e Saul sono i superbi contro la divinità; Roboamo, Sennacherib e Oloferne i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dalla Bibbia; Briareo con i giganti, Niobe e Aracne i superbi contro la divinità;
Almeone, Tamiri e Troia i superbi contro i simili, gli uni e gli altri tratti dai miti.
Quale pittore o quale disegnatore ci fu mai che sapesse ritrarre l'aspetto e i contorni delle figure, che in quelle immagini desterebbero l'ammirazione anche dell'intenditore più raffinato?
I morti apparivano veramente morti e i vivi veramente vivi: colui che vide realmente quei fatti non vide meglio di me tutto quanto io calcai con i miei piedi, finché procedetti a capo chino.
L'acrostico costringe l'ispirazione del Poeta entro il breve spazio di una terzina, ma in ciascuna ricorre il motivo che la lega alle altre e
all'impostazíone del canto: la realtà del bene che vince il male e della giustizia che si oppone alla violenza. "Quello che qui domina è la solitudine, la devastazione, il silenzio. I protagonisti sono dei vinti. Il loro potere è un segno del passato. Il loro presente è una rovina. Ma non urlano, non s'innalzano pieni d'ira e d'orgoglio. Giacciono umiliati, scoperti in ogni loro errore, tremendamente soli con il loro destino" (Vallone), ma sottoposti ad un diverso giudizio da parte di Dante, che flagella con forza epica i quadri della prima e della terza serie, perché la colpa dei protagonisti si è ripercossa, con tracce dolorose e fatali, sulla storia e sulla natura, mentre il suo sguardo si ferma più compassionevole, o almeno, meno ferocemente irridente, su quelli della serie mediana, dove la creatura umana è più sventurata che colpevole, traviata dalla debolezza e dall'ambizione, più che dalla deliberata coscienza di compiere il male.
Tutti i quadri, tuttavia, sono di una grandissima evidenza figurativa, perché vengono dalla fantasia del Poeta fissati nel momento culminante del dramma. Lucifero è visto folgoreggiando scender, i giganti con le membra sparte, Nembrot smarrito, Niobe con occhi dolenti, Saul su la propria spada, Aracne trista, Roboamo pien di spavento, Troia in cenere e in caverne.
Ora insuperbitevi, e continuate pure a camminare a testa alta, o figli d'Eva, e cercate di non meditare in modo da vedere la strada sbagliata che seguite!
Avevamo già percorso una parte del monte e avevamo speso una parte di tempo più grandi di quanto pensasse il mio animo intento (ad osservare i bassorilievi),
quando Virgilio che procedeva attento a guardare sempre davanti a sé, disse: « Solleva il capo; non bisogna più camminare così assorto.
Osserva da quella parte un angelo che si accinge a venire verso di noi; vedi che l'ora sesta se ne torna dopo aver prestato il suo servizio al giorno.
La mitologia classica personificava le ore, presentandole come ancelle al servizio del carro del sole (Ovidio - Metamorfosi Il, versi 118 sgg.). Dante con l'espressione dei versi 80-81 vuole indicare che è già trascorso il mezzogiorno e che si è fermato nella prima cornice circa due ore.
Prepara il tuo volto e il tuo atteggiamento a un sentimento di riverenza, in modo che all'angelo piaccia permetterci di salire; pensa che questo tempo non tornerà più! »
Io ero talmente abituato ai suoi continui ammonimenti intorno alla necessità di non perdere il tempo, che su questo argomento non mi poteva più parlare in modo oscuro.
Veniva verso di noi la bella creatura, vestita di bianco e (cosi splendente) nel volto come appare scintifiando la stella del mattino (Venere).
Aperse le braccia, e poi aperse le ali: disse: « Venite: qui vicino ci sono i gradini della scala, e ormai si può salire facilmente (dopo aver eliminato il peccato della superbia) ».
La voce pacata di Virgilio orienta l'animo di Dante, che pareva essersi fermato alla dura apostrofe contro i superbi del mondo, ad una nuova disposizione, psicologica e stilistica, che si conclude con un richiamo solenne all'importanza dell'ora: pensa che questo dì mai non raggiorna! L'apparizione dell'angelo nella pienezza del fulgore del giorno consacra l'istante più solenne del cammino di Dante nel purgatorio, perché viene liberato dal primo peccato, che è anche la fonte di tutti gli altri, e coincide con il momento più alato del canto, "ove il riso delle poche cose che formano l'angelo - un candore di veste, un moto di braccia a tempo con un moto d'ale; un volto che il Poeta non può descrivere, e rimanda al puro tremolio di stella mattutina - avvolge l'animo di Dante nel mistero gaudioso del Paradiso. Non c'è nulla di veramente descritto, poiché ogni tratto che passa per gli occhi è musicalmente fuso nell'idea di bellezza; e quel movimento modulato rivela, da una lontananza profonda, l'idea della bontà paterna che accoglie il cuore pentito" (Marzot).
Pochissime anime rispondono a questo invito: o uomini, creati per volare in alto, perché vi abbattete così anche davanti a poche tentazioni?
Ci condusse dove la roccia presentava un passaggio: qui batté con le ali la mia fronte; poi mi promise che il cammino sarebbe stato libero da impedimenti.
Con il suo gesto l'angelo cancella dalla fronte di Dante il primo dei sette P che gli erano stati impressi alla porta del purgatorio: scompare così il primo peccato, quello della superbia (base e fonte di tutti gli altri), e di ciò Dante si accorgerà durante la salita al secondo girone (versi 116 sgg.).
Come dalla parte destra, per salire al monte dove si trova la chiesa che domina Firenze (la ben guidata: detto in senso ironico) dalla parte del ponte di Rubaconte,
l'ardito slancio della salita viene interrotto per mezzo di una scalinata che si fece in un tempo in cui i registri pubblici e le pubbliche misure di capacità non venivano falsificati,
La ripidità della scala tagliata nella roccia ricorda a Dante quella della scalinata che da Firenze portava alla chiesa di San Miniato al Monte dalla parte del ponte di Rubaconte, chiamato poi ponte delle Grazie, il quale doveva il suo primo nome al fatto che la sua costruzione era stata iniziata nel 1237 sotto il podestà Rubaconte di Mondello. Riaffiora nel cuore di Dante un motivo polemico contro la sua città, alla quale ha già diretto l'espressione ironica la ben guidata, e contro la sua corruzione, di cui ricorda due episodi. Dei primo fu protagonista Nicola Acciaioli, priore nel bimestre 15 agosto~15 ottobre 1299, il quale fece scomparire in quel periodo alcuni atti o quaderni giudiziari dai documenti di un processo a carico del podestà Monfiorito da Padova (cfr. Compagni - Cronaca I, 19).
Nel secondo fatto, avvenuto nel 1283, un certo Donato dei Chiaramontesi, incaricato della vendita del sale alla cittadinanza, riceveva il sale secondo misure regolari di staio, e lo metteva in commercio dopo aver tolto per ogni staio una doga, facendo quindi diventare più piccola la misura, per rivendere la parte restante per conto proprio. Alla fine venne scoperto e condannato.
allo stesso modo diventa più agevole il pendio che qui scende ripidissimo dal girone superiore; ma (la scala è così stretta che) dall'una e dall'altra parte l'alta parete rocciosa sfiora (chi sale).
Mentre noi ci volgevamo verso quella scala, una voce cantò « Beati i poveri in spirito! » con tale dolcezza, che non si potrebbe esprirnerla con nessuna parola umana.
Le parole e il gesto dell'angelo, accompagnati dal dolente commento di Dante (versi 94-96), hanno compiuto uno dei tanti riti liturgici del Purgatorio, il rito dell'assoluzione, dopo l'impositio (imposizione) dell'angelo portiere e l'executio (esecuzione) espiatoria, ma la conclusione è in quella voce misteriosa che sorge improvvisa, e, all'epilogo della narrazione, si staglia vigorosamente nell'atmosfera trepidante delle anime e là rimane a lungo, oggetto di riflessione, iniziando il canto delle
beatitudini che accompagnerà Dante verso il mondo delle anime sante. La prima delle beatitudini evangeliche (Matteo V, 3) deve essere intesa come esortazione all'umiltà e al disprezzo dei beni terreni. Poiché in tutti gli altri gironi sarà sempre un angelo a cantare le beatitudini, non c'è motivo per pensare che qui cantino i penitenti o più angeli: voci è solo "un plurale meramente stilistico" (D'Ovidio).
Ah quanto sono diverse queste entrate da quelle infernali! perché in queste si procede accompagnati da canti, e in quelle da gemiti di dolore e di ira.
Già noi stavamo salendo lungo i santi gradini, e mi pareva di essere molto più leggiero di quanto non mi sembrava (di esserlo) prima nella parte piana del girone.
Per questo dissi: « Maestro, spiegami, quale peso mi è stato tolto, che quasi non avverto alcuna fatica, mentre procedo?»
Rispose: « Quando i P che sono rimasti ancora sulla tua fronte, anche se quasi svaniti, saranno completamente cancellati come (lo è stato) il primo,
i tuoi piedi saranno così guidati dalla tua buona volontà, che non solo non sentiranno più fatica, ma sarà per loro una gioia essere spinti a salire »,
Allora mi comportai come coloro che camminano portando in testa qualcosa senza saperlo, finché i gesti degli altri li mettono in sospetto;
per cui la mano si sforza di accertarlo, e cerca e trova e compie la funzione che non si può esercitare con la vista;
e con le dita della mano destra allargate costatai che erano solo sei i segni che l'angelo portiere mi aveva inciso sulla fronte:
Chiude il canto un particolare realistico, un quadretto di sorridente mimica, nel quale si dissolve la tensione via via accumulatasi nella drammatica raffigurazione della superbia: non momento inutile, ma elemento strutturalmente importante, perché riporta il lettore, con un frammento umano e familiare, alla disposizione serena e pacata del Purgatorio. Ci piace osservare Dante che, ancora incredulo dell'azione della Grazia in lui, ne va cercando il segno visibile e Virgilio sorride di quest'ultima debolezza, e sorride anche il lettore nel trovare il Poeta pronto a mettere in rilievo la propria comica ingenuità.
Virgilio sorrise vedendo il mio gesto.
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