LETTERATURA ITALIANA: DANTE ALIGHIERI

 

Luigi De Bellis

 


  HOME PAGE

Inferno: canto XIX

La vita e la personalità

Biografia

Dante e Dio

Le opere minori

Dante: autore e personaggio

La Divina Commedia

Introduzione alla Divina Commedia

Introduzione all'Inferno

Introduzione al Purgatorio

Introduzione al Paradiso

Sintesi e critica della Divina Commedia

La Divina Commedia in prosa

Introduzione alla Vita Nova

Introduzione alle Epistole

Introduzione al Convivio


Iscriviti alla mailing list di Letteratura Italiana: inserendo la tua e-mail verrai avvisato sugli aggiornamenti al sito

   
   

Iscriviti
Cancellati




Dante: la Divina Commedia in prosa


Inferno: canto XVIII

Vi è nell’inferno un luogo chiamato Malebolge, fatto interamente di una pietra del colore del ferro, come la parete rocciosa che tutt’intorno lo circonda.

Il canto inizia con la descrizione della topografia dell’ottavo cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida. Il cerchio è diviso in dieci bolge (borse, sacche: cioè fossati, avvallamenti) concentriche. Il verso di apertura, così solenne e sobrío, segna un netto distacco dalla fine del canto precedente, tutto dominato dalla presenza del sovrannaturale e culminante nella miracolosa sparizione di Gerione. Esso, se da un lato rimanda, per la sua struttura, ad altri inizi di discorsi o di narrazioni dell’Inferno, come, ad ‘esempio, all’endecasillabo, così delicatamente atteggiato, siede la terra dove nata fui del canto di Francesca, e a quello che apre la leggenda del Veglio di Creta, in mezzo mar siede un paese guasto, da questi si distacca per la scansione severa, che nulla concede al patetico o al fiabesco.

Proprio nel centro di questo piano malvagio si apre un pozzo molto largo e profondo, del quale descriverò la struttura quando sarà il momento.

Il pozzo che si apre nel centro di Malebolge porta dall’ottavo al nono cerchio, nel quale sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, cioè i traditori. In questa descrizione preliminare della parte più bassa dell’inferno la natura è "contemplata con distacco, nella sua definizione architettonica" (Sanguineti) : di qui l’uso del termine pozzo per designare l’ultimo precipizio della voragine infernale. La rigorosa geometria dell’ottavo cerchio è la manifestazione visibile "della mente ordinatrice che ad ogni colpa ha assegnato il suo luogo di punizione" (Gallardo).

Quella fascia che resta tra il pozzo e la base dell’alta parete rocciosa è pertanto circolare, e ha la superficie suddivisa in dieci avvallamenti.

Quale aspetto presenta, dove numerosi fossati circondano i castelli, per proteggerne le mura, il luogo in cui questi si trovano,

tale figura offrivano lì quegli avvallamenti e come tali fortezze hanno dalle loro soglie fino alla riva esterna dell’ultimo fossato dei piccoli ponti,

così dalla base della parete partivano ponti di pietra che attraversavano gli argini e i fossati fino al pozzo che li interrompe e nel quale convergono.

Opportunamente il Grana rileva che in questa descrizione "la grandiosa topografia del basso inferno è come rimpicciolita in un plastico, semplificata e spoglia di particolari, ridotta a forme e dimensioni rigorosamente geometriche. Nel corso della discesa, Malebolge rivelerà un cumulo di forme sconvolte, informi, con tutti gli orrori che la giustizia divina vi ha racchiusi; ma ora, nella sua conformazione generale, offre una visione gelida, e impressionante di armonia, una forma orrida ma mirabile per precisione e simmetria: orma dell’Eterno Fattore impressa anche nell’inferno, come in tutto il creato, secondo il disposto d’una " alta Provvedenza ", visibile nella natura del luogo di pena, come nei tormenti inflitti ai dannati". Eppure anche in una descrizione così volutamente distaccata e impersonale, il linguaggio prepotentemente dinamico e drammatico del Poeta sa ricondurre la vita. Movìen, ricidìen, tronca e racco’gli sono immagini che rendono la natura geometrica di questo cerchio "quasi partecipe dell’atto di giustizia che l’ha plasmata" (Grana).

In questo luogo ci venimmo a trovare, scesi dal dorso di Gerione; e Virgilio si diresse verso sinistra, e io mi avviai dietro di lui.

Vidi verso destra nuovo dolore, pene mai prima vedute e fustigatori di nuovo genere, di cui il primo avvallamento era pieno.

I dannati stavano nudi nel fondo: dalla metà della bolgia verso l’esterno procedevano in direzione contraria alla nostra, dall’altra parte camminavano nella nostra stessa direzione’, ma più velocemente’,

come i Romani a causa della grande folla, nell’anno del giubileo, hanno trovato un espediente per far transitare la moltitudine sul ponte (di Castel Sant’Angelo),

in modo che da un lato del ponte tutti avevano la fronte rivolta al Castello e si dirigevano verso San Pietro; dall’altro lato andavano verso il monte (Giordano: collina sta alla sinistra del Tevere).

Nel 1300, anno del giubileo indetto Bonifacio VIII, Roma fu visitata da un gran numero di pellegrini. Scrive in proposito il Villani (Cronaca VIII, 36): "al continuo in tutto l’anno durante avea in Roma, oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini, sanza quegli ch’erano per gli cammini andando e tornando". Per regolarne il transito sul ponte di Castel Sant’Angelo, esso fu diviso con un tramezzo, in modo che tutti quelli che camminavano nella medesima direzione si trovassero dalla stessa parte.La prima bolgia è idealmente divisa in due zone concentriche. In quella esterna camminano, sferzati dai diavoli, i seduttori per conto altrui (ruffiani), nella seconda, sottoposti ad analogo tormento, i seduttori per conto proprio. L’ordine rigoroso messo in luce nella descrizione della topografia del cerchio è presente anche in questa veduta d’insieme della bolgia. "Senza posa, per l’eternità, con una simmetria, che piace a quell’architetto che è Dante (come piaceva ai suoi contemporanei educati alla logica della scolastica) conservare anche nello inferno, circolano così i frodatori dell’onore e della verginità femminile." (Gallarati-Scotti)

Da tutte le parti, sulla buia pietra vidi diavoli cornuti con grandi fruste, che Ii percuotevano spietatamente sulla schiena.

Ahi come facevano loro alzare le calcagna fin dai primi colpi! nessuno certo aspettava i secondi e i terzi.

Il linguaggio astratto e solenne delle prime terzine è qui dei tutto dimenticato. Ancora nel presentare la visione della bolgia (versi 22-24) il Poeta si era servito di termini estremamente generici (pièta, tormento, frustatori nel senso di tormentatori) o letterari (il latinismo repleta). Qui la stessa scena, veduta nella sua concretezza, dopo il paragone con l’essercito molto, che mirava a cogliere in essa un significato di portata universale - l’ordine che si riflette, in quanto manifestazione della mente di Dio, anche nell’inferno - si rivela comica e volgare. "I frustatori sono adesso ritrascritti come i demon cornuti, il tormento, così astrattamente posto all’ínizio, si traduce ora in aperta visione: li battien crudelmente; la nova pieta trova alfine una esauriente illustrazione." (Sanguineti)

Mentre camminavo, il mio sguardo s’imbatté in uno di loro; e immediatamente dissi: "Non è la prima volta che vedo costui ";

perciò per poterlo osservare meglio mi fermai: e la mia cara guida si fermò con me, e acconsentì che tornassi un po’ indietro.

Dante non solo rinuncia a darci un ritratto di questo personaggio, ma, quasi a sottolinearne l’abiezione, il nessun conto in cui deve essere tenuto, lo indica attraverso un pronome indefinito: uno. Questa designazione anonima acquista tuttavia il suo intero significato soltanto se messa in rapporto con l’episodio che qui ha inizio e nel quale Dante costringerà il dannato a confessare la sua colpa, facendogli capire di averlo riconosciuto e chiamandolo per nome.

E quel frustato credette di nascondersi abbassando il viso; ma a poco gli servì, poiché io gli dissi: " O tu che volgi lo sguardo a terra,

se le tue fattezze non sono ingannevoli, tu sei Venedico Caccianemico: ma quale peccato ti conduce a così brucianti supplizi ? "

Il bolognese Venedico Caccianemico (c. 1228-1302) fu a capo del partito guelfo nella sua città e ricoprì la carica di podestà in diversi comuni dell’Italia centrale e settentrionale. Favorì la politica degli Estensi, che miravano ad estendere la loro influenza su Bologna, e, secondo la diceria alla quale Dante mostra di dar credito, indusse sua sorella Ghisolabella, già sposata, a concedersi a uno di loro (Obizzo II o Azzo VIII). Le parole che Dante rivolge a questo dannato sono, "sotto l’apparenza della corretta educazione" (Caretti), crudeli e sarcastiche. Il frustato ha cercato di non farsi riconoscere: non vuole che nel mondo dei vivi si sappia che egli è nell’inferno per una colpa così abietta. Il Poeta, per mostrare di averlo riconosciuto, ne pronuncia il nome, ma, per maggiore derisione, finge di non essere del tutto certo del suo riconoscimento (se le fazion che porti non son false). Infine, per far ben capire a Venedico di averlo identificato, si serve del termine salse, che, se in un’accezione immediata è soltanto una metafora per " supplizi ", rappresenta anche il nome di una valle nei pressi di Bologna, dove venivano gettatí i cadaveri dei giustiziati, dei suicidi e degli scomunicati.

Ed egli: " Lo dico controvoglia; ma mi costringono le tue precise parole, che richiamano alla mia memoria la vita terrena.

lo fui colui che indusse Ghisolabella a cedere alle brame del Marchese, comunque venga narrata questa turpe storia.

Ma non sono il solo bolognese che qui dolorosamente sconta la sua colpa; al contrario, questo luogo è così pieno di Bolognesi, che attualmente non vi sono tante lingue avvezze

a dire "sia" tra i fiumi Sàvena e Reno; e se di questo fatto vuoi una prova sicura, ricordati del nostro animo avido ".

"Sipa": è forma dell’antico dialetto bolognese per la terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo essere. La risposta di Venedico - osserva il Caretti - "non fa che perfezionare il tono di cinica commedia, già reperibile nell’allusiva interrogazione... Costretto a ricordare il mondo antico, Venedico non sa infatti far altro che sciorinare impudicamente il poco onorevole catalogo delle proprie benemerenze ....."

Mentre così parlava un diavolo lo colpì con la sua frusta, e disse: " Vattene, ruffiano! qui non ci sono donne da prostituire ".

lo mi riaccostai alla mia guida; poi, percorsi pochi passi, arrivammo in un punto dove dalla parete rocciosa si staccava un ponte di pietra.

Salimmo su di esso con molta facilità; e, diretti verso destra, su per la sua superficie scheggiata, ci allontanammo da quell’eterno girare.

Quando fummo nel punto in cui (il ponte) è vuoto sotto di sé per consentire ai frustati di passare, Virgilio disse: " Fermati, e fa in modo che cada

su di te lo sguardo di questi altri sciagurati, dei quali ancora non hai veduto il volto poiché hanno camminato nella nostra stessa direzione ".

Dal ponte antico osservavamo la fila che avanzava nella nostra direzione percorrendo l’altra parte della bolgia, e che la frusta sospingeva così come faceva con i ruffiani.

E Virgilio, senza che io facessi domande, mi disse: " Guarda quel grande che si avvicina, e che non sembra versare lagrime per il dolore.

Quale portamento regale ancora conserva! Quello è Giasone, che con il coraggio e la saggezza privò i Colchi del montone.

Giasone è un personaggio della mitologia del quale Dante ebbe notizia probabilmente attraverso la Tebaide di Stazio (V, 404-485). Figlio di Esone re della Tessaglia, questo eroe guidò la spedizione degli Argonauti nella Colchide per conquistare il vello d’oro. La figura di Giasone si isola nella folla grottesca dei dannati di questa bolgia. Egli non alza le berze per fuggire, ma incede dignitosamente, come si addice ad un sovrano: vene. Non diversamente da Capaneo, egli è additato come quel grande, non diversamente da Capaneo anche Giasone sa dominare il proprio dolore. La presentazione di questa figura ad opera di Virgilio richiama anche il modo in cui lo stesso Virgilio indica Omero al suo discepolo, nel quarto canto (versi 86-88).Come nota il Fubini, a Virgilio è affidato, nella grottesca commedia dell’ottavo cerchio, "il compito di ricordare gli eroi e i miti della poesia antica, e per le sue parole si dischiude nella greve atmosfera di Malebolge un’apertura verso un mondo diverso, quello che già commosse l’animo suo e degli altri antichi poeti e che commuove tuttora l’animo di Dante".

Egli passò per l’isola di Lemno, dono che le audaci donne senza pietà avevano ucciso tutti i loro uomini.

Qui con gesti e con parole lusinghiere ingannò Isifile, la giovane che prima aveva ingannato tutte le altre donne.

La abbandonò lì, incinta, sola; questo peccato lo rende meritevole di tale supplizio; e si rende giustizia anche per il male da lui fatto a Medea.

Con lui va chi usa l’inganno in tal modo: e basti questa conoscenza della prima bolgia e di coloro che essa strazia ".

Ci trovavamo già nel punto dove l’angusto sentiero s’incrocia con il secondo argine, e di questo fa sostegno per un altro arco di ponte.

Di qui udimmo gente che emetteva lamenti soffocati nell’altra bolgia e soffiava rumorosamente, e percuoteva se stessa con le palme aperte.

Le sponde erano incrostate di muffa, a causa delle esalazioni che, provenendo dal basso vi si solidificavano formando come una pasta, la quale irritava la vista e l’olfatto.

Il fondo è così profondo, che non vi è luogo adatto per vedere in esso, a meno di salire sulla sommità dell’arco, là dove il ponticello di píetra è più alto.

Arrivammo in quel punto; e di là vidi in basso nella bolgia una moltitudine immersa in uno sterco che sembrava provenire dalle latrine umane.

E mentre io percorrevo con lo sguardo il fondo della bolgia, scorsi uno con la testa, così imbrattata di sterco, che non si distingueva se avesse o no la tonsura.

Quello mi apostrofò " Perché sei così avido di fermare il tuo sguardo su di me più che sugli altri insozzati ? " E io: " Perché, se ricordo bene,

io ti ho già veduto quando i tuoi capelli erano puliti, e sei Alessio Interminelli di Lucca: per questo ti osservo più di tutti gli altri ".

Ed egli allora, picchiandosi il capo: " Mi hanno fatto affondare in questo luogo le adulazioni delle quali non ebbi mai sazia la lingua ".

Poi Virgilio mi disse: " Fa in modo di spingere lo sguardo un po’ più avanti, in modo da raggiungere con gli occhi la faccia

di quella sudicia e scarmigliata donnaccia che si graffia laggiù con le unghie lorde, e ora si siede in terra, e ora è dritta in piedi.

E’ Taide, la meretrice che al suo amante, quando costui le chiese "Ho io per te grandi meriti?" rispose: "Più che grandi, straordinari!"

E di questo spettacolo i nostri occhi siano sazi ".





2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it