Inferno: canto XXI
I due pellegrini giungono sul ponte che
scavalca la quinta bolgia, straordinariamente buia a causa della pece
bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri,
coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è
intento a guardare in basso, sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto
del ponte, getta nella pece uno degli «anziani» di Lucca, città nella
quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo
violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo
costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver
fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i
diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da
lui e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal
suo nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo;
occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché
desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio
indicazioni riguardo allo scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo
crollato, su quest’ultima, il ponte posto in continuazione di quelli che i
due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta un
gruppo di dieci suoi sottoposti, comandati da Barbariccia. I dieci diavoli
si mettono in fila e Barbariccia, attraverso uno sconcio segnale,
impartisce loro l’ordine della partenza.
Introduzione critica
Il problema del comico in Dante,
impostato dal De Sanctis nei suoi termini essenziali, è stato variamente
studiato dai critici. Alcuni hanno preteso - riallacciandolo al modo in
cui il Poeta raffigura se stesso in balìa, in un mondo di mostri e di
orrori, della propria paura - di individuare nel comico una tonalità di
non trascurabile rilievo nell’ordito complessivo del poema. Dante ritrae
se stesso in quanto protagonista della Commedia e personaggio tipico (non
dunque nei momenti di maggiore accensione, allorché la passione lo porta
ad identificare la propria proiezione nel narrato con la propria realtà di
autore) come "un uomo di media umanità, rifuggente da ogni atteggiamento
eroico, con l’animo aperto ai sentimenti che normalmente commuoverebbero
il petto dell’uomo, in quelle circostanze; fra i quali sentimenti deve
trovar posto... anche la paura" (Frascino). Nelle forme in cui questa
paura si viene atteggiando è stata riscontrata una comicità affine, per
alcuni versi, a quella che il Manzoni fa scaturire dal personaggio di Don
Abbondio. In questo senso si esprime ad esempio il Torraca nel commentare
un passo del canto ventunesimo dell’Inferno. Altri critici, più aderenti
alla tesi del De Sanctis, hanno fortemente limitato la presenza del comico
nel poema. Per il Parodi Dante è troppo seriamente impegnato in quello che
dice per potersi concedere una pausa di disinteressata, serena
contemplazione delle umane debolezze; carattere fondamentale del poema è
la tensione; più che di tonalità comica occorre parlare di realismo,
satira, sarcasmo. Il Pirandello, in un’analisi del primo canto dei
barattieri, attira l’attenzione sul fatto che "Dante non può far che Dio
scherzi punendo", ed aggiunge: "Non bisogna confondere il sarcasmo,
l’ironia, lo scherno, col comico. Che se talvolta comica appare
esteriormente la frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai
comica l’intenzione del poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica
sarà messa lì per ottenere un effetto di più cruda ripugnanza". Il Vossler
infine ritiene che, ove Dante avesse, nel regno della malizia, fatto luogo
"ad una comicità bonaria e spensierata", sarebbe andato contro quella che
è "l’intonazione fondamentale della Commedia, che per tutti i cento canti
rimane sempre saldamente etica".
Ora appare evidente - per poco che si
abbia dimestichezza con il poema - che le formulazioni del De Sanctis sono
in linea di massima esatte, che il riso di Dante è quasi ovunque amaro, si
apparenta al ghigno, alla smorfia di dolore, al disgusto, trova la sua
espressione nell’ironia crudele, sfocia, in modo ora più ora meno
esplicito, nell’invettiva. Ma, per alcuni dei luoghi del poema dove Dante
mostra se stesso alle prese con la paura e in particolare per i canti dei
barattieri, è altrettanto evidente che la tonalità che prevale è il
comico, mentre le forme appassionate e moralmente definite dell’ironia,
del sarcasmo, dello scherno sono come messe in ombra. Naturalmente, nel
fare menzione del comico a proposito di Dante, non dobbiamo intendere
questa categoria nei significati che è venuta assumendo in tempi diversi
da quelli del Poeta. Il comico in Dante ha una carica di immediatezza ed
una violenza di contorni quali non è dato riscontrare in secoli che hanno
sostituito all’interrogazione diretta del reale un gioco di schermi e
finzioni, alla ferma constatazione del negativo la fuga in un eliso di
armoniche parvenze.
Il Sapegno colloca la comicità
dell’episodio dei barattieri nella cornice di un "gusto schiettamente
romanico", il Sozzi scorge in essa "un’attenzione piena di curiosità di
fronte a quello che sotto l’aspetto filosofico è il mondo della naturalità
e della vitalità pura e fine a se stessa, il mondo « politico » nel senso
crociano del termine", nel quale i valori non riducibili all’utile
individuale sono del tutto ignorati e spietata si afferma la lotta per la
sopravvivenza e il successo. Il Del Beccaro, a sua volta, vede nella
quinta bolgia, come del resto nel cerchio ottavo preso nel suo complesso,
l’antitesi di quel "passato sereno, di patriarcali virtù", verso il quale
Dante nostalgicamente si protende e che aspira a veder ripristinato: "La
fisionomia del mondo, dei viventi, il mondo del « negozio », è qui più
corrente che altrove, quasi che Dante abbia voluto sottintendere una
condanna di principio alla preponderante attività degli uomini del suo
tempo, al sempre più libero e disinvolto commercio d’una società in fase
di espansione". La città della frode, agli antipodi della Gerusalemme
celeste, è quindi anche la città dei traffici, dell’attivismo senza
scrupoli che ha per fine il guadagno, di quella borghesia
razionalisticamente orientata che sarà, alcuni decenni dopo la morte
dell’Alighieri, la protagonista del Decamerone. Il quadro dell’arzanà de’
Viniziani (versi 7-15) non è soltanto una miniatura esuberante o meno - a
seconda dello schema critico cui viene commisurata - rispetto all’insieme
del canto, del quale costituisce il prologo. Esso ha un valore
emblematico, rappresentativo dell’intero clima di Malebolge, e
dell’episodio dei barattieri in particolare: un operare fervido, disgiunto
dalla considerazione di finalità fondate in un ambito morale, ha condotto
questi peccatori non a costruire, restaurando il distrutto, ma a
distruggere, a perdersi.
Quello che per il De Sanctis è lo stile
di Malebolge, la sua «prosa», la sua comicità densa e plebea, scaturisce
dalla natura stessa del peccato di frode, radicato, assai più di quelli di
incontinenza o di violenza, nell’intersoggettività del vivere sociale: di
qui il prevalere dei gruppi sulle grandi individualità isolate e quello
della rappresentazione dinamica sulla presentazione statuaria dei
personaggi. Tra le specificazioni della frode la baratteria rappresenta,
in modo più esplicito delle altre, il principio eversore di ogni
ordinamento civile, un germe di anarchia che trova, nell’individualismo
indocile dei dieci demoni, la propria persuasiva e sicura misura
poetica.
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