Inferno: canto XXIII
Inferociti per lo smacco subito, i
Malebranche inseguono i due pellegrini, ma questi riescono a porsi in
salvo calandosi per il dirupo che porta nella sesta bolgia. Qui una folla
di anime, quelle degli ipocriti, avanza a passi lentissimi, oppressa da
pesanti cappe di piombo, tutte dorate esteriormente. Due dei dannati
pregano Dante e Virgilio di sostare ed uno, invitato dal Poeta, parla di
sé e del compagno e accenna alla loro colpa: bolognesi e frati Gaudenti
entrambi, ricoprirono insieme a Firenze la carica di podestà, con il
compito di riportare la pace fra i partiti. I risultati della loro
doppiezza sono ancora visibili nei pressi del Gardingo, dove un tempo
sorgevano le dimore degli Uberti, poi rase al suolo. Dante di nuovo
rivolge loro la parola, ma all’improvviso tace, poiché il suo sguardo si
ferma su un peccatore crocifisso a terra per mezzo di tre pali. Uno dei
due frati Gaudenti gli spiega che si tratta del gran sacerdote Caifas, il
quale suggerì al Farisei di suppliziare e uccidere Cristo; poi rivela che
nessun ponte scavalca la sesta bolgia. Malacoda ha dunque mentito.
Virgilio, crucciato, si allontana a gran passi, seguito dal discepolo.
Introduzione critica
Anche nell’episodio degli ipocriti
sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Sannia, V. Rossi),
quell’elemento comico che costituisce la tonalità principale
dell’intermezzo - fondamentalmente spensierato e alieno dal definirsi nei
termini consueti dell’ethos e della religiosità danteschi, pur senza
contrastare con questi ultimi - dei canti XXI e XXII. Secondo questo punto
di vista la commedia degli ipocriti non ha, né del resto potrebbe avere,
dato il carattere dei suoi protagonisti, l’evidenza rude e immediata che
caratterizza quella dei barattieri. La comicità di questo episodio
richiederebbe, per essere assaporata in tutte le sue sfumature, una
lettura volta a cogliere, oltre l’evidenza delle immagini, il sottile
gioco di sottintesi che Dante sarebbe riuscito a celare in questa sua
pagina e risulterebbe, più che dall’insieme dell’episodio, da una somma di
particolari. Questi, illuminandosi a vicenda, sarebbero in grado di
svelarci lo stato d’animo con il quale il Poeta avrebbe immaginato lo
spettacolo della sesta bolgia e il suo incontro con i due frati Gaudenti.
E’ pertanto sui particolari che questi critici hanno fermato la loro
attenzione, isolandoli, al fine di legittimare la loro tesi, dal contesto
in cui sono inseriti.
Per il Sannia, ad esempio, l’invocazione
con cui uno dei due podestà bolognesi si rivolge a Dante e Virgilio
(tenete i piedi ... ) avrebbe un sapore comico, comico essendo il
contrasto fra la sua "smania del pervenire e la tardità forzata" laddove
V. Rossi scrive, sempre a proposito di questa invocazione, che "Catalano
fa, senza volerlo, la caricatura del suo tartarughesco andare".
E’ invece evidente, a chiunque legga
questo canto senza preconcetti, che in esso riaffiora solenne, maestoso,
reso più grave dal ritmo lento delle terzine - in cui pare riflettersi
qualcosa del penoso incedere degli ipocriti - il motivo del sovrannaturale
rimasto in ombra nei due canti precedenti e che, tra l’altro,
l’invocazione dei versi 77-78, lungi dall’essere caricaturale, è tragica,
sconsolata.
Come è assurdo il voler riscontrare
spunti comici - a meno di definire comica la paradossalità, nella quale si
esprime tragicamente una giustizia superiore a quella umana, della
condizione dei dannati - nella pena avvilente dei sodomiti del canto XVI,
e nel modo in cui alcuni di essi, gli artefici della grandezza di Firenze,
parlano del loro stato, altrettanto assurdo è il voler trovare,
nell’episodio della sesta bolgia, un’intenzione beffarda o caricaturale
non riconducibile a quelle che sono le costanti morali e religiose del
pensiero del Poeta.
Il motivo del sovrannaturale si manifesta
anzitutto nella forma del contrappasso, nella quale appare eccessiva
sottigliezza scorgere anzitutto un’espressione di ipocrita ironia verso
coloro che in vita fecero dell’ipocrisia la loro arma, la loro abitudine.
Considerazioni del genere si saranno forse imposte al Poeta, ma come
motivo marginale, come tema astratto: il ritmo e le immagini delle sue
terzine le hanno relegate in secondo piano. Nella pena degli ipocriti non
sfavilla infatti un atteggiamento ironico - e quindi necessariamente
scettico e indulgente - nei confronti delle umane debolezze, ma si
afferma, dolorosa, intransigente, una certezza che non conosce remissioni.
La grandezza di Dante, qui come altrove, sta nel condividere, da uomo, il
dolore dei dannati, senza che per questo la sua fede nella giustizia
divina risulti incrinata o scossa. Come nel canto XVI, anche nel XXIII la
degradazione dei dannati è suggerita attraverso una metafora che li riduce
a strumenti (le bilance) e attraverso la sottolineatura dei particolare
fisico considerato a sé (ad ogni mover d’anca... tenete i piedi...
all’atto della gola), né diversamente che in quello il sentimento di Dante
è di pena per lo spettacolo che si dispiega sotto i suoi occhi e di
reverenza per Colui che ne è l’autore.
Un acuto lettore di questo canto, il
Bertoni, lo ha definito "il canto della stanchezza e della malinconia",
rilevando che nell’episodio degli ipocriti "il terrore cede il posto a un
senso di scoramento e di pena e al movimento è sostituita una gravosa
lentezza" e caratterizzando questi dannati, dopo aver messo in luce la
somiglianza del loro castigo con quello dei superbi e degli invidiosi
della seconda cantica, come degli "umiliati e vinti, incapaci di
pronunziare una parola che provochi ira o disgusto". Sempre per il Bertoni
"nel contrasto fra l’impaccio dei dannati e la sollecitudine e la fretta
di raggiungere presto i due poeti e nel loro sguardo bieco" non c’è nessun
tratto umoristico, "ma piuttosto il segno di un desiderio vano di sollievo
e di liberazione in tanta e così penosa costrizione". In termini analoghi
si esprime un altro critico, il Bonora, per il quale, tra l’altro, la
preghiera rivolta da uno dei due frati Gaudenti a Dante e Virgilio ha
"solo il valore di quei suoni che rendono più assorta un’atmosfera di
silenzio", per cui nelle loro parole si avvertirebbe "solo la vibrazione
della fatica disumana cui sottostanno questi incappucciati". Anche nelle
parole che Dante rivolge loro - o frati, i vostri mali... - il Bonora
scorge "il medesimo senso di soffocazione" che è caratteristico di tutta
la seconda parte del canto: in questa infatti si riflette "quel sentimento
dì dolore che non ha voce per esprimersi, quella fatica immensa" che
"trovano la loro compiuta figurazione nel versi rallentati, scanditi dalla
successione faticosa dei gruppi consonantici", con cui l’episodio degli
ipocriti si apre.
Il canto XXIII è una pagina
caratterizzata da una fortissima unità tonale, nella quale la definizione
di una diffusa atmosfera di tristezza, di silenzio, di angosciata
rassegnazione prevale sulla caratterizzazione drammatica e psicologica di
personaggi e situazioni. Per questo soltanto la critica più recente, non
più condizionata dalle premesse che furono proprie degli orientamenti
romantici e positivisti, è riuscita ad intenderlo nella concretezza dei
suoi esiti espressivi.
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