Paradiso: canto XXVII
Tutti i beati innalzano un inno di lode alla Trinità,
mentre Dante prova un senso di smarrimento di fronte alla beatitudine del
paradiso, che egli percepisce con lo sguardo e con l’udito.San Pietro,
mentre la sua luce acquista un’intensa tonalità rosseggiante, inizia una
violentissima invettiva contro Bonifacio VIII, al quale rivolge l’accusa
di aver trasformato Roma, la città santa per tutti i fedeli, in una grande
cloaca di vizi e di corruzione. La Chiesa - continua San Pietro - non fu
fondata con il sangue di Cristo e allevata con il sangue dei martiri per
diventare uno strumento di arricchimento in mano a pontefici indegni, né
per provocare feroci divisioni e sanguinose lotte di parte fra cristiani
(è, questo, un riferimento diretto alle fazioni politiche dei Guelfi e dei
Ghibellini). Le chiavi pontificie devono essere simbolo dell’autorità
spirituale del papato, non insegna degli eserciti papali mandati a
combattere contro cristiani. L’immagine di San Pietro impressa sui sigilli
dei papi non può essere adoperata per sigillare privilegi e benefici
acquistati con la simonia. Tuttavia - conclude l’Apostolo - presto la
Provvidenza porrà fine a questa rovinosa situazione della Chiesa. I beati,
apparsi nell’ottavo cielo per assistere al trionfo di Cristo, risalgono,
in grandiosa processione, all’Empireo, mentre Beatrice incita il suo
discepolo a misurare il cammino percorso con il cielo Stellato nella
costellazione dei Gemelli. Poi entrambi ascendono al Primo Mobile,
l’ultimo dei cieli fisici, al di sopra del quale si trova solo l’Empireo.
Dopo avere spiegato le caratteristiche di questa sfera, Beatrice,
sull’esempio di San Pietro, rivolge una dura invettiva contro l’umanità,
accusandola di mirare solo ai beni terreni. Anch’ella, tuttavia,
preannuncia il prossimo, atteso rimedio a questa corruzione.
Introduzione critica
La critica, di fronte a quei canti del Paradiso nei
quali, come nel XXVII, la presenza dell’elemento "terreno" è
particolarmente avvertibile, tenta spesso una lettura a "contrappunto",
cercando di isolare i momenti di schietta intonazione paradisiaca da
quelli in cui lo sguardo è rivolto alla terra e alla sua corruzione
morale, e di verificare la loro sapiente alternanza. Questa tecnica di
lettura, di per sé feconda di risultati, se applicata continuamente e in
modo meccanico, rischia di fare considerare la terza cantica alla stregua
di una paziente opera di mosaico e il suo poeta un abile intarsiatore,
compiaciuto di ricerche di effetti. L’analisi contrappuntistica del canto
XXVII (tentata ultimamente dal Bezzola) opera queste determinazioni: la
presenza del divino risuona in forma di canto nell’inno iniziale dei beati
(versi 1-9), riprende con il ritorno dei beati all’Empireo (versi 67-75),
con l’ascesa di Dante e Beatrice al Primo Mobile (versi 88-99) e con la
descrizione del nono cielo (versi 100-120). Tale presenza si alterna con
quella della terra nell’invettiva di San Pietro contro i pontefici (versi
10-27), seguita dall’ira dolente dei beati e ripresa in forma amplificata
(versi 37-60). Allo sguardo di Dante, che segue il volo delle anime verso
Dio, fa riscontro lo sguardo rivolto alla terra (versi 76-87), mentre il
tema della degenerazione dell’umanità espresso nel dolore di Beatrice
sulla cupidigia degli uomini (versi 121-141) fa seguito alla
rappresentazione del nono cielo (versi 100-120). Le due invettive, quella
di San Pietro e quella di Beatrice, si concludono con una dichiarazione di
attesa e di speranza nel soccorso divino (versi 61-66 e 142-148), mentre
alla visione della terra si sostituisce l’ascesa al Primo Mobile (versi
88-99).A questo contrappunto tematico fa riscontro una calcolata struttura
numerica del canto, la quale distribuisce i temi a contrappunto su gruppi
di sei terzine (e poi di dodici nell’invettiva di San Pietro),
incorniciati per tre volte da tre terzine dedicate al coro dei beati, e fa
corrispondere, alle quattro terzine che descrivono la terra, altre quattro
terzine che narrano l’ascesa al Primo Mobile e, alle sette terzine sulla
natura di questo cielo le sette terzine sulla cupidigia terrena.
Un’indagine critica di questo tipo rivela, innegabilmente, lo sconcerto di
certi critici di fronte al carattere terreno di questo canto (per cui ci
si affretta a rivelare la presenza di motivi ascetico-mistici) e la loro
perplessità di fronte alla sua unità (che essi si sforzano di fissare
attraverso una indagine sottile, ma esteriore). La soluzione critica di
canti, come il XXVII, a carattere politico, polemico, profetico, non può
essere cercata con un’indagine di superficie intorno a immagini e a
blocchi di versi ma su un piano più profondo e impegnativo, per ritrovare
anche in queste pagine quell’essenziale motivo mistico che pervade tutta
la terza cantica. In queste terzine, pur nell’invettiva e nel sarcasmo
(ma, precisa molto bene il Getto, qui c’è "la memoria di un’invettiva e di
un sarcasmo"), opera il massimo comandamento evangelico, duplice e unico
nella sua essenza - l’amore di Dio e l’amore del prossimo - che è l’humus
ideale dell’ispirazione di Dante. Tuttavia mentre in un San Bernardo da
Chiaravalle o in una Santa Caterina da Siena questo atteggiamento
religioso si configura sempre alla luce dell’amore, in Dante esso non
opera come un amoroso servizio fatto a Dio attraverso le creature, ma come
"volontà di instaurazione dell’ordine umano stabilito da Dio legislatore
universale. L’amore del prossimo, il servizio del prossimo, in Dante, si
traduce in lotta per la giustizia, battaglia per la fondazione di una
società, di una città terrena che assicuri all’uomo la beatitudo huius
vitae. Di questo ordine sociale politico Dante si fa... il teorico"
(Getto). Tuttavia la sua politicità è sempre di schietta ispirazione
religiosa, perché l’ordine che Dante vuole restaurare nel mondo (nella
Chiesa come nell’Impero) non è che il riflesso dell’ordine divino. E’ una
politicità, dunque, che non contrasta con il misticismo, ma che da esso
scaturisce: " di cui - conclude il Getto - l’accento religioso, profetico
e apocalittico della sua polemica". Non solo l’invettiva nel Paradiso è,
perciò, pienamente giustificata, ma assolve, secondo quanto abbiamo sopra
osservato, una funzione importantissima. Per ritornare alle invettive di
San Pietro e di Beatrice, occorre precisare che esse acquistano ancora
maggiore solennità per il fatto di essere pronunciate poco prima della
visione dell’Empireo, allorché l’animo del Poeta si accosta per l’ultima
volta alla terra (negli ultimi sei canti, infatti, la visione paradisiaca
ha il completo sopravvento: all’invettiva subentra la preghiera, al mondo
l’Empireo).Secondo il giudizio del De Sanctis la satira di San Pietro
contro il Papato è la più poetica fra tutte quelle - e sono numerose - del
Paradiso. "Magnifica è la parte teatrale. Dapprima vedi la luce in tutta
la sua magnificenza e la letizia celeste nella sua più alta espressione
lirica; indi come contrasto al trascolorare di San Pietro trascolora tutto
il paradiso ed acquista una fisionomia; [anche] Beatrice muta sembianza".
Poi "l’indignazione suscita l’immaginazione, e ne fa scoppiare immagini
originali e ardite". Tuttavia questa poesia appare, dalle parole del
critico, qualcosa di esteriore, affidata alla teatralità della voce e
dell’atteggiamento nonché alla originalità delle immagini, laddove essa è
nella forza vivificante del dolore e dell’indignazione e nella mirabile
unità drammatica di tutto il discorso. Questo, dopo la violenta
introduzione, si sviluppa in un crescendo che sale dal rimpianto (la Roma
di un tempo rivive attraverso la sua schiera di martiri in cruda antitesi
con quella attuale dei lupi rapaci) allo sdegno (versi 46-54) all’ira
(verso 57) senza fratture, come per un musicale intensificarsi, finché
l’ammonimento si chiude con la tipica clausola profetica di tutti gli
ammonimenti del Paradiso: ma l’alta provedenza soccorrà
tosto.
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