Inferno: canto XXVII
Appena l’Ulisse ha finito di parlare,
un’altra fiamma attira l’attenzione dei due poeti, agitandosi e
rumoreggiando. Quando infine il sibilo riesce a trasformarsi in parole, la
fiamma chiede a Virgilio, che ha riconosciuto per italiano dal modo di
parlare, notizie sulla Romagna. Su invito del maestro, Dante delinea un
quadro delle condizioni politiche di quella regione, dominata da tiranni
sempre pronti alla guerra; poi chiede al peccatore chi egli sia. E quello
si fa conoscere, certo di parlare a chi mai potrà tornare fra i vivi, per
riferire intorno alla sua pena eterna. "Fui guerriero - dice - e poi frate
francescano, credendo in tal modo di riparare al male da me fatto. E non
sarei qui fra i dannati, se non fosse stato il pontefice stesso a farmi
ricadere nella vita malvagia alla quale avevo voltato le spalle. Nel
periodo in cui, con somma ipocrisia, aveva bandito una crociata contro gli
stessi cristiani (la famiglia romana dei Colonna), senza alcun ritegno,
fattomi chiamare, Bonifacio VIII mi chiese che gli suggerissi il modo
migliore per impadronirsi della roccaforte di Palestrina. Le sue parole mi
parvero quelle di un uomo fuori di senno. Tacqui. Allora, dopo avermi
ricordato che era in suo potere aprire e chiudere le porte del cielo, mi
assolse dal peccato che avrei commesso dandogli il consiglio richiesto. Fu
così che gli suggerii di promettere molto ai suoi nemici per poi non
tenere fede alle promesse. Quando morii, San Francesco venne per portare
la mia anima in cielo, ma il diavolo lo fermò con queste parole:
"Quest’anima deve seguirmi nel regno dell’eterna dannazione, poiché è
contraddittorio che ci si possa pentire di una colpa che si ha
l’intenzione di compiere. Io sono uno spirito logico". Quando fui davanti
a Minosse questi avvolse otto volte la coda intorno al suo corpo,
destinandomi in tal modo nel cerchio ottavo." Ciò detto, la fiamma si
allontana. I due pellegrini procedono oltre e giungono sul ponte che
sovrasta la bolgia dei seminatori di discordia.
Introduzione critica
L’episodio di Ulisse e quello di Guido da
Montefeltro, i due grandi fraudolenti dell’ottava bolgia, si
contrappongono l’uno all’altro come le due parti di un dittico. Da un lato
il Poeta ci presenta l’antichità pagana in una delle sue più alte
manifestazioni, dall’altro la cronaca dei suoi tempi, imbevuti di spirito
cristiano e consapevoli, a differenza dell’umanità incarnata da Ulisse,
della ineliminabile imperfezione della natura umana. L’episodio di Ulisse
è svolto nello stile dell’alta tragedia, di Guido avanza esplicitamente,
fin dall’inizio, la soluzione del plurilinguismo (e che parlavi mo
lombardo, dicendo "Istra ten va; più non t’adizzo"): mescolanza di stili
che appare originarsi in una concezione del sublime opposta a quella degli
antichi ed ha, come ha mostrato l’Auerbach, il suo modello nella Sacra
Scrittura: è a questa mescolanza di stili che compete, secondo quanto
Dante stesso ha dichiarato nell’Epistola a Cangrande della Scala,
I’appellativo di "commedia". La tragedia di Ulisse rimane estranea al
peccato che ha condannato l’eroe nella bolgia dei consiglieri fraudolenti;
quella di Guido al contrario si identifica interamente con questo peccato
(perché diede il consiglio frodolente). La figura di Ulisse, perché possa
inquadrarsi nella cornice teologica che regge l’intero poema, deve essere
fatta oggetto di una interpretazione moralizzata in senso
"simbolico-figurale" (cfr. in proposito le osservazioni del Mattalia:
canto XXVI, versi 109-111); quella di Guido non ha bisogno di una siffatta
moralizzazione: Guido infatti analizza con una lucidità ed un rigore
concettuale inconcepibili anteriormente all’affermarsi della Scolastica (e
come e quare) le fasi ed il senso della propria perdizione. Il linguaggio
di Ulisse, proprio perché l’eroe greco ignora Dio e il rimorso, è di una
semplicità estrema, volto a rendere conto unicamente dei fatti; quello di
Guido è contraddittorio e complesso, fin dalle sue prime parole: pesa sul
montefeltrano il carico delle proprie colpe, egli è consapevole di aver
trasgredito una legge superiore a quella degli uomini, superiore agli
stessi suggerimenti del vicario di Dio in terra.La sua è una
consapevolezza tanto più dolorosa, quanto più cauto è stato il coordinarsi
delle sue azioni in vista del fine che si è proposto di raggiungere,
quanto più prudente il significato da lui attribuito ad esse. Questo
guerriero non ha smentito, nemmeno negli ultimi anni di vita, la sua fama
di uomo astuto: ha saputo spogliarsi dell’armatura e cingersi di un umile
cordiglio nel momento ritenuto più opportuno (ove ciascun dovrebbe...) per
una tale conversione. Mai la sua volontà di dominio ha conosciuto un
cedimento, una caduta nella spontaneità, nella fede genuina, mai ha saputo
fare sacrificio di sé a Dio, mai Guido ha chiesto al Redentore di
redimerlo dalla cupidigia di affermarsi al disopra e a danno degli altri,
di riscattarlo dal desiderio di una gloria effimera.Quando comprese di
dover fare i conti, oltre che con gli uomini, con Dio, da buon
calcolatore, da esperta volpe, si illuse di poter usare anche con Dio
quell’astuzia che lo aveva reso potente ed invidiato fra gli uomini (e sì
menai lor arte, ch’al fine della terra il suono uscìe). È questa l’origine
del suo peccato, la ragione profonda per la quale si indusse ad aderire
alla richiesta formulata con ebbre parole da Bonifacio VIII.La sua
conversione era stata soltanto formale, dettata dall’opportunità, dalla
convenienza, il cordiglio francescano non aveva cinto un uomo nuovo.
Perciò, di fronte alla proposta di Bonifacio, egli è colto sì da un senso
di smarrimento e di orrore, ma questo smarrimento e questo orrore palesano
unicamente la sua paura di mettere a repentaglio la salvezza della propria
anima, per la quale ha tanto penato, non considerano l’empietà di questa
proposta in sé, per quanto essa contiene di antitetico al messaggio
cristiano. Guido da Montefeltro trova in Bonifacio VIII un essere più di
lui assetato di potere, più di lui smaliziato nel gioco dei compromessi
con le coscienze. Dall’alto del suo seggio il principe de’ novi Farisei
sembra aver perduto la nozione che un Dio esiste indipendentemente dalle
affermazioni e dai capricci umani (lo ciel poss’io serrare e diserrare),
che esiste un ordine giusto che non può essere costretto nei cavilli e
nelle scappatoie di una formula di assoluzione dettata dall’odio e dalla
sete di vendetta. Guido è tratto in inganno da Bonifacio VIII perché
costui rappresenta, nel male, un termine di perfezione irraggiungibile.
Gli scrupoli che ostacolano lo emergere nella coscienza di Guido del suo
essere di sempre - spregiudicato circa i mezzi da usare per vincere ogni
volta che non abbia a soffrirne la propria persona o la proiezione di esse
nel mondo (il potere, la fama) - sembrano non aver mai sfiorato l’animo
del suo beffardo antagonista e signore. Di fronte a questa fermezza
inumana e grandiosa - che nessuna esitazione morale, nessun sospetto
metafisico riescono a scalfire - Guido, il razionalizzatore, capitola,
come preso nelle spire di un fascino che lo restituisce interamente alla
sua natura peccaminosa.Secondo una suggestiva osservazione del Mattalia,
nel drammatico colloquio che lo oppone al pontefice, Guido, proprio perché
è rimasto l’uomo di sempre, irretito negli appetiti del mondo anche quando
ha calcolato di liberarsene - anzi, maggiormente irretito in essi proprio
nell’atto in cui ha voluto dare ad intendere, alla sua coscienza e a Dio,
di essersene liberato - appare "incapace di realizzare in sé l’unione del
candore della colomba e della prudenza del serpente consigliata dal noto
precetto evangelico"; la sua anima non è infatti "né sufficientemente
candida né, per neutralizzante effetto del candore, sufficientemente
astuta quando pur le avrebbe giovato esser tale per conservare il tesoro
del suo stesso candore".
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