Purgatorio: canto XXIX
Matelda si muove lentamente lungo la riva del Letè, e Dante la segue, rimanendo sull'altra sponda. La divina foresta del paradiso terrestre è illuminata improvvisamente da un forte lampo che, invece di scomparire subito dopo, diventa sempre più luminoso, mentre si diffonde una dolce melodia. Il Poeta invoca ora il soccorso delle Muse, in modo particolare di Urania, per poter narrare in versi quanto i suoi occhi vedono, poiché egli si accinge a descrivere la mistica processione della Chiesa, processione nella quale ogni oggetto e ogni figura rivestono un valore allegorico, perché viene presentata in sintesi la storia della Chiesa. Sulla sponda del fiume opposta a quella sulla quale si trova Dante, appaiono sette candelabri che si muovono lentamente, lasciandosi dietro sette lunghissime strisce luminose. Procedono sotto questi particolari stendardi ventiquattro seniori vestiti di bianco, con in capo una corona di gigli; essi cantano un inno nel quale esaltano la grandezza della Vergine. Sono seguiti da quattro animali, coronati di fronde verdi, ciascuno con sei ali cosparse di occhi. Lo spazio libero tra i quattro animali è occupato da un carro trionfale, tirato da un grifone, il cui corpo ha l'aspetto di un'aquila nella testa e nelle ali, e di un leone nelle restanti membra; le ali si innalzano verso il cielo passando tra le strisce luminose dei candelabri. Il carro ha alla sua destra tre donne che avanzano danzando: la prima appare tutta rossa, la seconda verde, la terza bianca. Alla sinistra le figure femminili danzanti sono quattro, e tutte appaiono vestite di un abito rosso. Questo gruppo è seguito da due vecchi pieni di dignità: l'aspetto di uno è quello di un medico, mentre l'altro tiene in mano una spada. Dopo di loro avanzano, in umile atteggiamento, altre quattro figure, che precedono di poco un vecchio, solo e immerso nel sonno. Questi ultimi sette personaggi sono tutti vestiti di bianco, e coronati di una ghirlanda di rose e fiori rossi. Allorché il carro giunge proprio di fronte a Dante, si ode un tuono, dopo il quale tutta la processione si ferma come se non potesse procedere oltre.
Introduzione critica
A partire dal canto XXIX la natura, che ha costituito nei due canti precedenti la sede maestosa di una ritrovata integrità e pace dell'uomo, diventa lo sfondo di una rappresentazione scenica avente per suo oggetto la storia. Tale rappresentazione scenica ripropone, nei suoi termini più ampi e necessari, la meditazione, fin qui svolta episodicamente, sulle cause della corruzione della società umana dopo il sacrificio di Cristo. Dopo la parentesi dei canti XXVII e XXVIII, che aveva astratto la vicenda del Dante protagonista della Commedia da quella del Dante autore e uomo legato alle vicissitudini del suo tempo, la storia occupa un posto determinante nel giardino della prima innocenza, ma con un significato opposto a quello che aveva nella sezione del poema dedicata al peccato, all'imperfezione.
Adombrata nel rituale di una processione sacra, al quale farà seguito uno sviluppo drammatico - la confessione di Dante, in presenza di Beatrice, nei canti XXX e XXXI, e la sua investitura a profeta - la storia afferma se stessa, nel canto XXIX, come esplicazione di un disegno provvidenziale, che il male non turba. Il trionfo della Chiesa coincide, nello spettacolo che si svolge in questo canto davanti agli occhi del protagonista, con l'affermarsi di un ordine che i secoli hanno concorso a creare, oltre ogni apparente divergenza fra genti e genti, fra età ed età. Solo nel canto XXXII quest'ordine apparirà sconvolto, e l'ombra del peccato si proietterà sinistra sulla divina foresta, a significare che il cammino che ha portato Dante dalla selva del peccato alla sommità del monte che è più vicino al cielo; non può considerarsi concluso l'umanità non può riacquistare, dopo il peccato d'origine, lo stato d'innocenza dei suoi progenitori se non come grado necessario per una più spirituale beatitudine, quella schiusa dal sacrificio di Cristo. Il lento incedere delle personificazioni che riempiono lo spazio della gran foresta, a seguito di una luce sovrannaturale che assomma in sé l'intensità di un lampo e la quiete di un plenilunio, riproporrebbe, secondo il Bosco, i ritmi solenni che caratterizzano i mosaici di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna. Il Bosco mette in rilievo, in una sua analisi del canto, come la processione della Chiesa trionfante sia concepita dal Poeta anzitutto in termini visivi, secondo principi di composizione che sono propri delle arti figurative, ed in base a criteri che rispondono alla religiosità disincarnata e accesa dei Bizantini: Alle osservazioni del Bosco il Momigliano obietta che esse, per quanto preziose ai fini di intendere nella sua genesi e nella sua strutturazione questa pagina della Commedia, non consentono di formulare in merito un giudizio positivo, in quanto lo schema figurativo, che Dante ebbe presente nel concepire la processione, non si sarebbe tradotto in accenti di poesia, in una partecipazione affettiva del protagonista all'actio scaenica. Il motivo della processione sacra, rileva il Momigliano, "passando dal mosaico alla poesia è diventato poco più di un freddo schema ", fatta eccezione per pochi tratti, che manifestano nel Poeta un interesse non puramente concettuale per la materia trattata. Le variazioni luministiche sul tema dei sette candelabri rivelano, ad esempio, una freschezza di sguardo, una gioia per il colore in quanto tale, che ne avvicina il comporre a quello della pittura dei primitivi. L'intensità che acquistano i colori e le luci nella pittura dei primitivi non meno che nella poesia di Dante dall'assenza di gradazioni tonali, risulta evidente in più punti del canto, ma trova i suoi sviluppi più ricchi all'inizio della descrizione del sacro corteo, allorché l'animo del pellegrino è ancora occupato dal prodigio della luce che ha inondato la foresta come lampo destinato a persistere. Ogni particolare appare qui disposto unicamente al fine di far risaltare maggiormente questo miracolo: dalla similitudine dei versi 53-54 - ove l'attenzione portata sul progressivo determinarsi delle immagini introduce, attraverso il collettivo arnese, al diffondersi pacato di quella luce che in un primo momento era stata paragonata al balenare di un lampo - al trasferimento della proprietà di « ardere » dall'oggetto contemplato al soggetto che nella contemplazione di esso si è interamente assorbito (perché pur ardi sì nello aspetto delle vive luci), alla notazione dei versi 67-69, che fa riaffiorare uno dei motivi più ricchi di suggestione simbolica delle due ultime cantiche: quello della luce riflessa. Quanto al resto non si può non concordare sostanzialmente con il Momigliano, per il quale "la processione è concepita assai più ordinata che solenne". Uno spirito assai diverso da quello che è alla base della Commedia animava, infatti, i mosaicisti bizantini di Ravenna, onde la solennità ieratica dei mosaici, se effettivamente può aver suggerito alcuni aspetti della rappresentazione dantesca, non si è trasferita nella pagina che ad essi è stata dal Bosco accostata. La poesia di Dante non è poesia del divino disincarnato quale appare nella spiritualità bizantina, ma del divino che corona lo sforzo dell'uomo nel mondo.
La descrizione della processione della Chiesa nel canto XXIX rappresenta un momentaneo venir meno, sia pure riscattato dalla riuscita di numerosi particolari, delle qualità più rilevanti del poetare dantesco, una parentesi - fra l'evidenza della luminosa raffigurazione della divina foresta e quella del drammatico confronto con Beatrice - in cui le simmetrie concettuali e formali non riescono a tradursi in una costruzione organica e viva. Essa è quindi una pagina discontinua, in cui si avvertono con più frequenza che altrove le remore che l'allegorismo, quasi ovunque risolto in poesia nella Commedia, opponeva a Dante allorché veniva dal Poeta interpretato come il fine esclusivo, la traduzione immediata e puntuale dell'immagine poetica in termini intellettualistici.
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