Paradiso: canto XXV
Dal gruppo dei beati, dal quale si era già staccato San
Pietro, esce un’altra luce, quella di San Giacomo apostolo, che
interrogherà Dante intorno alla seconda virtù teologale: la speranza. Tre
sono i quesiti che il Santo sottopone al pellegrino: che cos’è la
speranza, in che misura la possiede, quali sono le fonti dalle quali l’ha
ricevuta. Alla seconda domanda risponde subito Beatrice: nessun
appartenente alla Chiesa militante spera con più intensità del suo
discepolo. Agli altri due quesiti di San Giacomo risponde invece lo stesso
Dante, e ogni sua affermazione si fonda su salde conoscenze teologiche. Il
Poeta si sofferma particolarmente su ciò che promette la seconda virtù
teologale: la risurrezione del corpo, il quale dopo il Giudizio Universale
si ricongiungerà per l’eternità all’anima. Concluso il secondo esame di
Dante, una voce, che proviene dall’alto, canta il versetto di un salmo
davidico ("Sperent in te") e tutti i beati dell’ottavo cielo rispondono in
coro.Infine una terza luce si avvicina a quelle di San Pietro e di San
Giacomo: appare l’apostolo San Giovanni, al quale è affidato l’incarico di
interrogare Dante sulla carità. Prima, però, San Giovanni nega di trovarsi
in paradiso anche con il corpo, come vorrebbe una tradizione accolta da
molti scrittori medievali.
Introduzione critica
Un’imponente cultura teologica, che attinge alla
Scrittura, alla letteratura patristica e alla Scolastica, sorregge il
contenuto della terza cantica. La teologia di Dante è la teologia
dogmaticamente definita, che accetta nel suo insieme tutto il complesso di
articoli della fede che la Chiesa impone di credere, ma presenta anche un
carattere "personale" (che non ne infirma certo la validità), essendo il
Poeta portato, dal suo temperamento e dalla sua personalità, ad insistere
su un dogma piuttosto che su un altro, a mettere in rilievo determinati
rapporti fra le verità di fede, a sottolineare determinate conseguenze che
da queste derivano. Intervengono, cioè, nella sua prassi religiosa - e
perciò nella sua poesia - motivi preferenziali dettati da una
partecipazione sentimentale più o meno intensa: la meditazione della vita
dell’anima come movimento ascensionale che ha per suo termine Dio
infinito, come dinamico sviluppo che si concluderà nella gloria celeste, è
il motivo teologico che raggiunge in Dante un rilievo essenziale,
presentandosi come sintesi di tutta la sua spiritualità. L’appassionata
celebrazione di questa meditazione è l’animato sfondo poetico del
Paradiso, che è l’"epos della vita interiore come esultanza dello spirito
elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria
e dell’eterno" (Getto) e che appare, perciò, pervaso "da un sentimento
unico, da un entusiasmo ben definito, da un clima affettivo uguale e
preciso". A questo tema fondamentale - la dignità dell’uomo e il suo
destino di gloria come figlio di Dio - è strettamente legato un motivo
teologico al quale Dante ha già dedicato uno dei canti più belli del
Paradiso, il XIV: il motivo della risurrezione dei corpi, la quale
perfezionerà il destino di gloria e di beatitudine delle creature. Proprio
la risurrezione dei corpi è posta, nel canto XXV, come oggetto della
speranza Non solo per questo il canto che stiamo esaminando è fondamentale
al fine di capire la personale accentuazione che Dante conferisce alla
teologia del suo Paradiso. Se l’esposizione intorno alla fede impegna a
fondo le capacità intellettuali e il sapere teologico di Dante (che
paragona se stesso al baccellier in attesa dell’esame), quella intorno
alla speranza trova il Poeta pronto ad una partecipazione affettiva più
profonda. "La speranza è in verità la sua stessa vita. Tutta la sua opera,
la sua attività politica, la sua poesia sono nate dalla aspettazione,
dall’anelito più ardente verso la pace, la restaurazione. Il poema è la
voce della speranza: per una doppia via: perché con esso Dante spera di
vincere la crudeltà dei propri concittadini e di essere chiamato, coronato
in patria, e perché con esso egli pensa di avviare il processo di riscatto
della umanità traviata. In effetti all’inizio del canto - la cui prima
parola o, diremmo, la cui chiave, è se - egli dice questa speranza del
ritorno in parole commosse, piene di alta fede. Le due speranze sono in
qualche modo connesse nel suo animo." (Montano)Così la definizione
teologica della speranza (uno attender certo della gloria futura...) si
colora delle personali aspirazioni di Dante uomo e poeta, è possentemente
nutrita dalla sua coscienza di uomo di giustizia, di interprete del vero,
di maestro di spiritualità, mentre il canto acquista la scioltezza e la
varietà di una libera conversazione, laddove l’esame della fede si è
svolto attraverso una rigida e rigorosa concatenazione di domande e
risposte. Scompare anche l’intonazione drammatica che ha contraddistinto
il dialogo con San Pietro (la conquista della verità è apparsa, ancora una
volta, come una dura lotta dell’intelletto contro difficoltà, obiezioni e
contraddizioni di ogni genere): ormai certo che la fede è sostanza di cose
sperate, l’animo gioisce nell’attender certo della gloria futura e della
dolce vita del paradiso.La lettura del canto XXV può, perciò, fare cadere
facilmente l’accusa di astrattezza che la critica romantica ha addensato
sul Paradiso o quella di assurdità poetica perché esso vorrebbe essere una
rappresentazione del trascendente di cui l’uomo, finché resta sulla terra,
non può avere esperienza. Lo stesso De Sanctis, che per primo aveva
avanzato quelle accuse, tentava, in un secondo momento, di salvare la
poesia della terza cantica cercandola nelle immagini e nei sentimenti
terreni che la pervadono (con questa posizione concordava sostanzialmente
anche il Croce), per cui la monotonia del Paradiso si disperderebbe solo
quando lo sguardo del Poeta si volge verso la terra (allora "il Paradiso
si trasforma in una tribuna dalla quale si ammaestra e si riprende;
l’ordine divino diviene come tipo e modello delle cose umane") e la
teologia assumerebbe valore poetico solo quando viene "rappresentata" e
"calata in un contenuto perfettamente determinato" con immagini Tuttavia
anche questo contenuto poetico resta, per il De Sanctis, "troppo vuoto di
umanità. Dio, gli angeli, i santi, le intelligenze rimangono in un oscuro
indeterminato", perché l’Amore entusiastico della pura scienza" troppo
spesso prevale e portando il Poeta "negli aridi campi della mistica gli fa
dimenticare la terra".Ma il canto XXV dimostra che da ben altra fonte
nasce la poesia del Paradiso: da una personale, umanissima meditazione
teologica, che, prendendo l’avvio da una sofferta esperienza personale,
sale ad illustrare quei momenti " in cui l’anima trema ed esulta nella
parentela nuova che con Dio istituisce" (Getto). Perché la speranza
terrena - alla quale il Poeta ha affidato le sue più eroiche aspirazioni,
il suo bisogno, che è quello di tutte le creature, di dilatarsi nel tempo
e nello spazio diviene generatrice di sterili illusioni, immette l’uomo
nel cerchio chiuso di un immanentismo destinato a tradirlo e a beffarlo
continuamente, se non viene collegata alla speranza sovrannaturale, a
quella speranza, cioè, che ha come suo fine e come suo appagamento
Dio.
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