Paradiso: canto XXXI
Il Poeta osserva con stupore e arnmirazione, lo
spettacolo tripudiante dell’Empireo. Mentre gli eletti, seduti sui loro
seggi, contemplano la luce eterna di Dio, gli angeli volano, con moto
incessante, come intermediari d’amore, dai beati a Dio e da Dio ai beati.
Percorrendo con lo sguardo i gradini dell’immenso anfiteatro celeste,
Dante scorge i volti, luminosi e trasfigurati dalla gioia, dei beati,
osserva i loro atteggiamenti dignitosi e improntati alla più profonda
serenità. Desideroso di rivolgere a Beatrice alcune domande, il pellegrino
si volge verso di lei, ma al posto della donna amata trova un beato, in
atteggiamento benevolo e paterno. San Bernardo da Chiaravalle, il più
famoso mistico del secolo XII, particolarmente devoto alla Vergine. Egli,
quale simbolo della scienza contemplativa, sostituisce Beatrice per
guidare Dante alla visione finale di Dio. Poiché il Poeta vuole sapere
dove si trova ora Beatrice, il Santo gli spiega che è ritornata al suo
seggio, il terzo, a partire dall’alto, dopo quello della Vergine e di Eva,
accanto a quello di Rachele. Dopo che Dante ha innalzato alla sua donna
una fervida preghiera di ringraziamento per averlo guidato dal peccato
alla salvezza eterna e dopo che ha invocato, ancora una volta, il suo
aiuto, San Bernardo lo invita a percorrere di nuovo con lo sguardo tutto
l’Empireo, per prepararsi alla visione di Dio. Dante - esorta il Santo -
deve contemplare anzitutto la regina del cielo. La Vergine appare al
pellegrino nel punto più alto della candida rosa, avvolta in una luce
intensissima, circondata dal volo festoso di migliaia di angeli.
Introduzione critica
Mentre il canto precedente ha rivelato l’aspetto
esteriore della candida rosa, il XXXI ha il compito di rappresentare la
vita che anima tutto l’Empireo. I beati appaiono finalmente con la loro
figura umana; il Poeta può finalmente posare il suo sguardo sui loro
volti, seguire i loro gesti, scrutare ogni loro movimento. E’ questo, uno
dei momenti più importatori di tutta la Commedia, perché nel regno
dell’astrazione e della pura spiritualità "raggiunge il suo vertice la
determinazione della personalità o dell’individuo: il sommo ideale è il
sommo reale. Gli stessi angeli, che nel Primo Mobile non erano che
scintille di un unico immenso incendio, ci appariscono nella loro forma
personale con le facce di fiamma viva; ma specialmente le anime beate, che
negli astri si confondevano insieme in una comune uniformità di splendori,
qui si mostrano con immagine scoperta, nell’aspetto della loro
individualità terrena" (Parodi), perché la natura sale fino alla sommità
dell’Empireo. Essa, continua l’illustre critico nel suo studio dedicato
alla "costruzione" del paradiso dantesco, " dopo un primo baleno di una
visione, in cui... ricompare, co’ suoi incanti d’acque, di fiori, di
esseri alati, quasi a rammentare che è uno specchio divino del vero...
trionfa nell’immagine umana delle anime beate". L’uomo, che avevamo
incontrato all’inizio del paradiso ancora legato alla natura, ma pur da
essa diviso e come assorto nello sforzo di liberarsene in una sempre più
alta spiritualità, ora ha trovato con essa il suo equilibrio,
riconquistandola e con essa identificandosi in una realtà compiuta e
suprema. L’aspetto corporeo delle anime non è che "la luce della loro vita
individuale, che Dante vede e distingue nel divino lume, è l’eterno
suggello che in sé riportarono impresso della loro penosa ma cara e
indimenticabile prigione terrena " (Parodi), perché se l’anima è forma del
corpo, Dante, forse, intravede, nell’Empireo, che anche il corpo è forma
dell’anima. Sotto questo punto di vista il dogma della risurrezione della
carne non ha mai avuto una più alta e più poetica interpretazione. Il
poeta cristiano - questa è la conclusione del Parodi - "è così riuscito a
portarsi con sé, anche lassù nelle somme vette dell’Empireo, la sua cara
terra", simboleggiando una perfezione umana dove il corpo, la terra e ogni
bellezza sensibile rivendicano i propri diritti accanto a quelli del puro
spirito. Se per il mistico Medioevo le due realtà dello spirito e della
materia si compendiano nella lotta della terra con il cielo, del senso con
l’intelletto, le nell’aspirazione - profondamente avvertita - dello
spirito a spogliarsi di ogni legame terreno per immergersi nella volontà e
nell’essenza divina, in Dante non esiste più alcuna lacerazione di
opposti, bensì una concordia metafisica, per cui le due forme dell’essere
si armonizzano in cielo. Nel canto XXXI culmina la potenziale poesia
drammatica di tutta la filosofia scolastica, impegnata appunto a
distinguere per unire, per risolvere in unità tutta la creazione,
superando la tendenza manichea pronta a lacerare il mondo nei due opposti
principii della materia (principio del male) e dello spirito (principio
del bene). L’ "ampio respiro epico" che il Sapegno vede in questo canto,
la "voce piena fluente e maestosa, che sottolinea la chiara armoniosa
struttura dello spettacolo fantastico e la grandiosità della concezione
ideale", l’"ebbrezza di una realtà trascendente ", lo " stupore estatico
del contemplante " trovano la loro origine proprio in questo raggiunto
equilibrio metafisico. Il paradiso dei nove cieli fisici è un grande mito
poetico che ha il compito di far segno (cfr. canto IV, verso 38) agli
uomini dell’ordine gerarchico di tutti gli esseri e di tutti i concetti,
ossia dell’ordine e della bellezza - morali e materiali - che regnano
nell’universo e che, fluendo da Dio, a Dio ritornano. Questo mito poetico
raggiunge la sua compiuta espressione nell’aspetto umano delle anime
dell’Empireo, quando, come nei miti platonici, la luce della poesia
scaturisce dall’ardore di una profonda idea.Non è causale l’accenno che
abbiamo fatto a Platone: la singolare ma grandiosa concezione del mondo
come un flusso continuo di raggi luminosi che dalla Causa Prima scendono,
riflettendosi in innumerevoli specchi e perdendo via via, una parte del
loro splendore, fino all’ultima delle cose e portano dovunque il pensiero
di Dio, costituendo quell’infinita gradazione di esseri nella quale
appunto risiedono l’ordine e l’armonia, risale a Platone. Platonica, o
meglio neoplatonica, oltre che la teoria della processione delle cose da
Dio, è anche quella del loro ritorno, come quella della indivisibile unità
di Dio che splende nel molteplice o quella della luce come struttura
dell’universo. E’ una conclusione evidente (e unanimemente accettata dalla
critica) che il mondo filosofico che esercita su Dante una suggestione di
ordine artistico, è essenzialmente quello neoplatonico-agostiniano, il
quale, per di più, offre al Poeta una tradizione di linguaggio
potentemente figurativo. Sarebbe sufficiente confrontare la prosa di
Aristotile e di San Tommaso con quella di Dionigi e Sant’Agostino per
rendersi conto della diversa quantità e qualità di suggestione da esse
esercitate, perché è la concezione stessa del mondo neoplatonico che non
si affida solo al rigore logico, ma ha in sé una ricchezza poetica. Quel
mondo dove l’essere è luce nel senso più proprio, e i corpi fatti di luce
visibile sono segni e vestigia della vera luce, dove la separazione fra
spirito e materia è estremamente esigua e il simbolo e l’analogia hanno
valore essenziale di conoscenza, è certamente un mondo dove la logica si
allea alla poesia per meglio comprendere ed esprimere la realtà. Ed è
appunto questo mondo che è alla base della struttura stessa del Paradiso e
che trova il suo compimento, nell’Empireo, nella figura umana dei
beati.
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