Inferno: canto VII
Con voce stridula e il volto
gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi
scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo
dei due poeti. Ma non appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si
compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il mostro, come privato
delle sue force, si accascia al suolo. Essi possono casì discendere nel
quarto ripiano, dove due fitte schiere di dannati spingono, in direzioni
contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente
opposti, in cui le schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i
peccati che le accomunano nel tormento disumano. Poi ciascun dannato si
volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro
punto d’incontro. La giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno.
Questi peccatori sono irriconoscibili: la mancanza di discernimento che li
spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li confonde ora tutti in una
massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono affidati al
governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno
per un attimo. "Dante coglie, da questa affermazione del maestro,
l’occasione per interrogarlo sulla natura della Fortuna. Essa non è -
spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce
i suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio
è voluto che i beni si trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia
all’altra, da un popolo all’altro. Stesso proprio quelli che dovrebbero
ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve
il suo compito imperturbabile e serena.
Introduzione critica
Il De Sanctis aveva diviso i
canti dell’Inferno in due categorie: quella dei canti in cui l’attenzione
di chi legge si accentra tutta intorno ad una figura dominante -rispetto
alla quale tutte le altre, non meno degli elementi paesistici o morali,
appaiono in posizione subordinata e quella dei canti in cui sull’accento
drammatico prevale quello descrittivo, e in cui troviamo "gruppi, non
individui". "Voi dite prima: il canto di Francesca, di Farinata, di ser
Brunetto Latini; qui dite: il canto dei falsari, dei ladri, dei
truffatori." Se accettiamo questa partizione, che nel De Sanctis è
legittimata dall’impostazione romantica della sua critica, anche il canto
settimo dell’Inferno dovrebbe rientrare nella categoria dei canti anonimi
e <<descrittivi >>, canti la cui" funzione sarebbe più
<< strutturale >> che poetica. In effetti riesce difficile,
leggendo Dante, proprio perché Dante ha saputo dar vita a personaggi così
complessi e drammatici da trovare pochi riscontri nella letteratura
mondiale, liberarsi di quello che potremmo chiamare il <<
pregiudizio del personaggio li. Eppure la poesia della Commedia è assai
più varia e ricca di toni di quanto le formulazioni fin qui avanzate in
sede di giudizio estetico, anche se amplissime, consentano di intravedere.
Dopo il 1920, anno di pubblicazione del saggio di Benedetto Croce
sull’opera di Dante, la critica non ha fatto che recuperare, sotto il
segno della poesia, vaste zone del poema considerate fino allora
meritevoli di attenzione solo sul piano della cultura, né può dirsi sia
giunta ad un punto tale da far considerare ormai di scarso interesse le
ricerche in questo senso.La bibliografia critica del settimo canto
dell’Inferno è un esempio di quanto certe posizioni desanctisiane siano
implicitamente operanti anche in autori altrimenti lontani dal clima in
cui l’opera del De Sanctis è maturata. "Canto senza figure, senza vivi
elementi di dramma... canto (si noti) intermesso, non solo con buona
ragione morale, ma con grande convenienza artistica, per effetto di
contrasto, fra i due, che ci ritraggono, meravigliosamente scolpiti, i
fiorentini Ciacco e Filippo Argenti. " Così si esprimeva il Bacci, in una
sua << lettura >> del canto agli inizi del secolo. Né diverso
parere manifestava il Torraca: "Al canto... manca la principale attrattiva
di tanti altri... un’ombra, un personaggio, che narri la sua storia
tragica o predica al Poeta il futuro, o in altro modo attiri la nostra
attenzione, c’ispiri compassione o ribrezzo ".Altro motivo su cui la
critica ha variamente insistito, è stato, come rileva il Marti, quello
della "frattura, che qui per la prima volta si verifica, tra il chiudersi
di una parabola narrativa e il concludersi dell’unità ritmico-poetica del
canto". In altre parole: mentre fin qui ad ogni canto corrispondeva la
descrizione di un cerchio e quindi una sola tonalità predominante, nel
settimo questa unità diargomento e di atmosfera sembra venir meno. Di qui
la preoccupazione, in alcuni critici, di trovare il legame segreto che
unisce l’episodio degli avari e prodighi alla descrizione della pena degli
iracondi, attraverso la digressione sulla Fortuna.Così, ad esempio, il
(letto ha voluto vedere in tutto il canto un distacco dell’autore dalle
scene cui assiste, "un puro guardare oggettivo", "un essenziale ritrarre,
senza volontà di commento", un "gusto grafico preciso, puntualmente
descrittivo, di linea ben calcolata". Effettivamente mancano, almeno
nell’episodio degli avari e prodighi e nel commento di Virgilio ad esso,
quei chiaroscuri che, nei primi canti dell’Inferno, denunciano una
partecipazione sentimentale dell’autore alle vicende dei dannati.Manca
l’angoscia che vibra in tutto il colloquio con Francesca, mancano perfino
espressioni di sdegno come quelle, divenute proverbiali, che la vista
degli ignavi suggerisce al sentimento morale del Poeta. Insistere però
sulla formula del "puro guardare oggettivo" e sui modi in cui questo
guardare si viene di volta in volta concretando, può, tuttavia, fuorviare
dall’esatto intendimento dei motivi ispiratori del canto. Dante non è mai
in primo luogo un << visivo>>. La straordinaria concretezza
che acquistano nella Divina Commedia anche gli spettacoli più allucinanti
e irreali, non nasce da un contemplare fine a se stesso, ma da un impegno
morale che spoglia le cose dei loro attributi esteriori, per penetrarne il
significato ultimo, per darne un giudizio definitivo. Equivale a
precludersi la comprensione del suo senso più profondo il voler parlare, a
proposito della poesia di Dante, di valori quali pittoricità, spazialità,
visività, frontalità dell’immagine, come ha fatto, con risultati del resto
apprezzabili, un altro attento studioso della Commedia, il Malagoli, senza
cogliere il fuoco nascosto che in questa immagine si esprime, la religione
dei valori morali che ad essa conferisce una compattezza mai eguagliata
nella letteratura mondiale.Per tornare al settimo canto dell’Inferno,
anzitutto il "puro guardare oggettivo", che sembra caratterizzarlo, almeno
fino al momento in cui i due viandanti scendono nel cerchio degli iracondi
(qui, come ha rilevato il Momigliano, l’atmosfera cambia, s’impregna di
spleen, di umor nero), nasce da una posizione di condanna senza attenuanti
per coloro che hanno fatto del denaro la loro unica ragione di essere. In
secondo luogo, tutta la scena iniziale, dall’incontro con Pluto alla
digressione sulla Fortuna, è, come ha rilevato il Marti, il risultato di
"un’arte ispirata più da sprezzo polemico che da un gusto realistico
obiettivamente distaccato" La rima difficile non meno che la metafora
esasperata e grottesca deformano violentemente una realtà che, proprio per
questo amaro intervento dell’autore, inteso a trasferirla interamente sul
terreno dell’exemplum, del significato etico e religioso, non può essere
considerata soltanto oggettiva.
|