Paradiso: canto XVI
Continua il dialogo fra Dante e Cacciaguida, che nel
canto precedente ha tratteggiato l’immagine della Firenze del passato. Ora
il Poeta gli rivolge una serie di domande precise: chi furono i comuni
antenati, in quale periodo il trisavolo visse, quali furono le
caratteristiche dell’ovil di San Giovanni nei tempi passsati e quali le
famiglie più ragguardevoli. Illuminandosi di gioia nel rispondergli,
Cacciaguida rivela di essere nato alla fine del secolo XI, aggiungendo che
le case della sua famiglia si trovavano dentro la prima cerchia di mura:
garanzia, questa, di antica nobiltà. La popolazione fiorentina era assai
meno numerosa di quella dei tempi del Poeta, ma di sangue più puro. Ora,
invece, essa è contaminata dalla presenza di famiglie venute dal contado,
che la città, nella sua progressiva espansione, è giunta ad assorbire.
Anche il numero dei nobili è aumentato, poiché molti feudatari, vinti dal
comune fiorentino, sono stati costretti ad abbandonare il contado e a
trasferirsi in città. Origine di questi sconvolgimenti sociali e politici
è l’intervento della Chiesa in campo temporale a danno degli interessi
dell’lmpero, che non può più opporsi all’espansione dei centri cittadini.
Tuttavia questa mescolanza di stirpi e di famiglie porterà ad un aumento
delle discordie e delle lotte civili e, quindi, ad una rapida decadenza
delle città.Nella seconda parte del canto Cacciaguida enumera moltissime
famiglie nobili della Firenze antica, ormai scomparse o in via di
decadimento e conclude il suo discorso ricordando le famiglie degli
Adimari e dei Buondelmonti, il cui dissidio causò le prime divisioni della
città.
Introduzione critica
Canto dei fiorentini antichi: così viene definito il XVI,
in contrapposto a quello di Firenze antica, il XV, e a quello dell’esilio,
il XVII. Chiuso fra due momenti centrali della Commedia - il ritorno al
passato per presentare quello che dovrebbe essere il volto nuovo e
rigenerato della società futura e la consacrazione ultima e definitiva
della missione di Dante - esso è apparso al Momigliano "troppo irto di
nomi", quasi una nuda cronaca, per cui farebbe l’effetto di "una delle
pagine un po’ secche e aride di Dino Compagni, dove non mancano profili
taglienti di personaggi e di fatti, ma questi sono non di rado dispersi in
un complesso poco animato, e non sono frequenti i quadri dal taglio
sicuro". Il Poeta è troppo "municipale" in questo canto, che "è l’unico...
della Divina Commedia in cui la fiorentinità di Dante confini con
l’angustia spirituale e poetica ". Tuttavia il giudizio dell’illustre
critico è troppo parziale, limitato a quelle terzine che presentano una
rassegna di nomi nella quale la vena poetica scade. Più esatta appare la
seguente puntualizzazione del Parodi: " L’enumerazione, che fa
Cacciaguida, delle più antiche e illustri famiglie fiorentine è uno
stupendo pezzo di poesia; solo qualche verso, composto di puri nomi, che
non dicono più nulla alla fantasia del lettore moderno, pare una foglia
morta in mezzo al fresco e fitto fogliame d’un albero rigoglioso ". Così
anche il Maier, che sottolinea la presenza, nel canto, di un forte motivo
lirico, quello della "rimembranza": Dante "ci dà qui, in nuce una storia
araldica a volo d’aquila, della sua città; e si sofferma con commozione su
ognuna delle stirpi gloriose, ne scandisce compiaciuto i bei nomi italici
trascolorati dalla guerra del tempo, s’indugia sui particolari che più
possono interessare e si prestino ad eloquenti e, direi, scultorie
caratterizzazioni". Nel suo atteggiamento di rievocatore dei fasti
fiorentini Dante, ancora una volta, fonda il mito e l’ideale su un dato
obiettivo, un cenno biografico, un segno concreto, come, in questo canto,
la domanda rivolta a Cacciaguida: ditemi... quai fuor li vostri antichi, e
quai fuor li anni che si segnare in nostra puerizia. Dalla nobiltà della
propria stirpe e dalla storia della propria famiglia il Poeta trapassa poi
alla visione della nobiltà e della storia di Firenze, finché la
prospettiva poetica si allarga ancora. Le notizie d’interesse puramente
locale sono viste dentro un più alto ordine di cose e i versi acquistano,
come ben nota il Maier, "un senso di fatalità storica ed un tono solenne,
come di profezia (sarìesi Montemurlo... sarìeno i Cerchi...)" che si
conclude in una grave sentenza (sempre la confusion delle persone
principio fu del mal della cittade...), quasi una sintetica proposizione
di filosofia della storia. Anche i versi seguenti mantengono questo tono
austero e sentenzioso, nel quale esemplificazioni circostanziate (la sorte
di Luni, Urbisaglia, Chiusi, Sinigaglia) si concludono in riflessioni
profonde e universali, dove torna il senso, tanto vivo in Dante,
dell’effimero e fugace trascorrere dei beni mondani affidati al misterioso
giudizio e alle incessanti permutazioni della Fortuna: le cose umane
passano e muoiono, le schiatte scompaiono, le città hanno termine. Dopo
queste cosmiche considerazioni il discorso di Cacciaguida si volge
nuovamente a Firenze e alla fatalità della sua sorte, cosicché la città,
nella sua vicenda di splendore e di decadenza, diventa la concreta
incarnazione delle oscure leggi del destino, della capricciosa azione
della Fortuna. Da una questione di genealogia (ditemi... qual fuor li
vostri antichi) Dante è dunque assurto alla lirica e all’epopea, perché,
dopo essere stato "il cantore dell’epopea propria, dalle glorie vetuste
de’ suoi avi alla gloria del proprio incontaminato esilio", fonde nel suo
"poema personale... in una stupenda e indivisibile unità il poema di
Firenze, e il fato di Firenze si lega col fato degli Alighieri e la
tragedia della sventura di Dante è la tragedia dell’intera città" (Parodi)
e del mondo intero, dove tutto si corrompe e tramonta sotto la silenziosa
e impenetrabile figura della Fortuna. L’intonazione fondamentale del
canto, infatti, è drammatica, nonostante l’immagine iniziale della
sorridente e divertita Beatrice (versi 13-15). Dante, sulla base della
rassegna che Anchise fa ad Enea dei suoi grandi pronipoti nel sesto libro
dell’Eneide, imposta il sirventese degli alti Fiorentini, unendo, con
improvvise mosse satiriche, la commozione suscitata dai grandi nomi del
passato all’invettiva e al sarcasmo più violento, che non disdegna di
scendere al pettegolezzo di famiglia e di vicinato (versi 112-120) e
Cacciaguida, il crociato martire della fede, diventa veramente l’eco, nel
realismo di questi ricordi, dello sdegno e della collera di Dante.Il canto
si affretta alla conclusione con un crescendo di cupe visioni, in un
pianto senza lagrime sull’inevitabile rovina di Firenze, voluta dalla
sorte, che non soffocò, nei gorghi di un fiume impetuoso chi sarebbe stato
causa di quella rovina (versi 142-144), e che fece piovere sulla
sventurata città i malefici influssi delle stelle e di una sinistra statua
pagana, alla quale fu offerto un sacrilego sacrificio (versi 145-147). Il
canto di gloria degli alti Fiorentini si chiude, "in una potente e
originale fusione di leggende popolari e di alti pensieri civili"
(Parodi), con un tragico rosseggiare di sangue (il cadavere di
Buondelmonte ai piedi del rozzo e monco idolo e il rosso giglio levato
alto sulla nuova Firenze): una plastica contrapposizione alla mitica
immagine della Firenze di Cacciaguida, I’ovil di San Giovanni.
|