Inferno: canto IV
Un tuono fragoroso risveglia Dante dal sonno
in cui era caduto sulla riva dell’acheronte. Egli si guarda intorno e si
accorge di trovarsi sull’orlo della voragine infernale, buia e profonda.
E’ preso da timore nel vedere che Virgilio impallidisce, ma il maestro lo
rassicura: il suo pallore non è dovuto a spavento, ma a pietà per la sorte
dei dannati.Entrati nel primo cerchio infernale, che è costituito dal
limbo, i due poeti odono i sospiri delle anime di coloro che vissero una
vita virtuosa senza aver ricevuto il battesimo. Per non essere state
cristiane, non possono ascendere al paradiso; d’altra parte, non avendo in
sé altra macchia se non il peccato di Adamo, non sono sottoposte a
tormenti: la loro pena è tutta spirituale: vivono nel desiderio, mai
appagato, di vedere Dio.Quattro spiriti si fanno incontro ai poeti: sono
le anime di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, venute a rendere onore a
Virgilio. Esse salutano benevolmente Dante e l’accolgono nella loro
schiera. I sei camminano insieme, discorrendo, e giungono in un luogo
luminoso, ai piedi di un castello difeso da sette cerchi di muta e da un
corso d’acqua, che essi attraversano come se fosse terraferma. Dopo aver
varcato, passando per sette porte, il settemplice giro di mura, il gruppo
dei sei poeti arriva in un prato verdissimo e fresco. Da un’altura
Virgilio indica a Dante alcuni tra i più nobili spiriti dell’antichità e
del Medioevo non cristiano.I due si separano quindi dai loro
accompagnatori e, lasciato il limbo, giungono nuovamente in un luogo privo
di luce.
Introduzione critica
Tra la squallida miseria degli ignavi e la
bufera, che mai non resta, che travolge nel canto quinto i lussuriosi, il
limbo inserisce una pausa di cogitabondo silenzio, di rassegnata mestizia.
Il Tommaseo vedeva in esso qualcosa "della serena aura della seconda
cantica". E infatti la spiritualità della pena che affligge le anime del
limbo, la compostezza dignitosa o solenne dei loro modi, la manifestazione
della loro malinconia, così discreta e lontana da ogni forma di drammatico
rilievo, concorrono a fare del canto terzo un capitolo a sé nel discorso
lirico e narrativo dell’Inferno.Una funzione analoga, di sereno
intermezzo, aveva avuto, tra gli incubi dell’incontro con le tre fiere e
l’ingresso nel regno dei morti, il "prologo in cielo il del canto
secondo.Ma la raffigurazione del limbo è forse più interessante, perché
qui Dante, scostandosi dall’opinione dei teologi, attribuisce una
condizione di privilegio a coloro che in terra hanno vissuto rettamente al
di fuori della fede, e una condizione di privilegio ancora più grande a
coloro che hanno nobilitato l’umana natura per altezza d’ingegno e di
opere.Il De Sanctis ha visto nel limbo dantesco, paradossalmente,
un’espressione di fondamentale laicità: " Qui nel limbo la mancanza di
fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco
dell’uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio
poetico, e dà ad alcuni un luogo distinto, non per la loro maggiore bontà,
ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e
delle opere. Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta
con Dante, e gli fabbrica un eliso pagano, un Pantheon di uomini
illustri".E certo è significativo che Dante, dopo aver collocato gli
ignavi all’ingresso dell’inferno, formulando nei loro confronti un
giudizio nuovo e personale rispetto alla dottrina teologica del suo tempo,
celebri qui con tanto fervore gli "infedeli negativi" e li isoli, in un
clima di sereno oltretomba virgiliano (ma, come ha notato un critico, la
classicità dell’episodio rivive in forme ancora tipicamente medievali),
sotto una cupola di luce, quasi a rendere tangibile, concreta, la luce
intellettuale che intorno a sé, in vita, diffusero i grandi spiriti
dell’antichità.Ma il pensiero di Dio informa di sé la sostanza del canto,
qui non meno che altrove nell’Inferno. Sostenere che nel limbo la mancanza
di fede sia un semplice accessorio, vuol dire precludersi la possibilità
di cogliere la poesia del canto nei suoi motivi più profondi, nella sua
tonalità più genuina. E’ vero che qui Dio non è visto, come in tutto il
resto della prima cantica, in una forma di intervento attivo, come
giustizia vindice, riparatrice dei torti. Ma, nei sospiri che fanno
tremare l’aria, Egli è presente come un Bene irraggiungibile.Non
diversamente, nella speculazione del maestro di color che sanno,
Aristotile, il Motore Primo, immobile nella sua perfezione, aveva
rappresentato, per gli esseri, la direzione costante del loro movimento.Il
tono elegiaco di queste pagine ha qui la sua motivazione: in questa
lontananza da Dio, non scelta, non voluta, ma subita come un destino,
nella imperscrutabilità dei suoi disegni, nella rinuncia ad interrogarli.
Le anime del limbo, di fronte al mistero, chinano la fronte, si raccolgono
in un sommesso meditare.Sulle terzine iniziali in cui, per bocca del
maestro, Dante manifesta la sua angoscia per la sorte dei dannati, grava
ancora la cupa atmosfera del canto precedente, ma poi via via la sua
parola si rasserena fino ad esaltarsi nella scena dell’incontro con i
quattro massimi poeti dell’antichità e nella celebrazione della grandezza
umana. Grandezza insufficiente, perché non illuminata dalla Grazia,
grandezza nobilmente accorata per questa mancanza non sua, grandezza
consapevole di aver operato rettamente nei limiti che le erano stati
concessi. Si è parlato per Dante di "umanesimo cristiano", e certo in lui
la fede non nega il sapere e l’azione, come nelle forme più radicali del
pensiero dei mistici, ma anzi li integra e li consacra, conferendo loro
una validità assoluta.Nel limbo, tuttavia, questo momento umanistico, che
ricollega il Dante della Commedia al Dante del Convivio, assertore
entusiasta della superiorità culturale dei Greci e dei Latini, ha una
linea di sviluppo ancora prevalentemente decorativa. Il significato della
grandezza degli antichi non è approfondito oltre la presentazione,
tutt’altro che fredda, ma sommaria e tradizionalmente atteggiata, del tipo
ideale del " saggio".L’angoscia delle genti, che fa impallidire Virgilio
all’inizio del canto, rivela una più commossa aderenza della parola al
tema trattato che non la filosofica famiglia o il nobile castello.In
questa seconda parte del canto, dove una scenografia composita ed illustre
rivive in particolari di fanciullesco candore (quasi ad alleviare,
portandolo sul piano delle nobili favole, un motivo di perplessità e di
smarrimento, un tema destinato ad essere affrontato con più maturo impegno
in altri luoghi del poema), "ammirazione, riverenza, malinconia sono
sentimenti accennati, ma non rappresentati " (Croce).Eppure, se teniamo
conto che, come per la scena del traghetto delle anime nel canto
precedente, anche qui il Poeta si è ispirato all’Eneide, l’episodio
dell’incontro con i grandi dell’antichità e la descrizione del nobile
castello ci consentono di rilevare alcune delle caratteristiche più
avvincenti dell’arte di Dante: ad esempio, rispetto alla solennità
sorvegliatissima del modello latino, un’adesione più diretta e cordiale ai
dati della leggenda, una familiarità più dimessa e fiduciosa nella
presentazione dei grandi nomi a lui cari, un entusiasmo per i valori della
ragione che nessun dubbio ancora è riuscito ad
incrinare.
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