Inferno: canto XVIII
Scesi dalla groppa di Gerione, i due
pellegrini si trovano sull’argine più esterno dell’ottavo cerchio, detto
Malebolge e diviso in dieci avvallamenti concentrici. Nel primo di questi
avvallamenti o bolge sono puniti i seduttori per conto altrui e quelli per
conto proprio. Divisi in due gruppi avanzano in direzioni opposte,
implacabilmente frustati dal diavoli. Nella schiera dei ruffiani Dante
riconosce il bolognese, Venedico Caccianemico, che indusse con discorsi
fraudolenti la propria sorella ad una condotta disonesta, e lo costringe a
confessare la sua colpa. Tra i seduttori per conto proprio Virgilio gli
addita Giasone; il leggendario eroe, colpevole nel confronti
dell’inesperta Isifile e di Medea, entrambe da lui tratte in inganno,
incede incurante delle sferzate dei diavoli, con atteggiamento regale,
senza manifestare il suo dolore.
Passati sul secondo argine attraverso un
ponte naturale che scavalca il primo avvallamento, i due poeti vedono
aprirsi davanti al loro occhi la bolgia degli adulatori. Tra questi Dante
riconosce, immerso nello sterco come i suoi compagni di pena, il lucchese
Alessio Interminelli e violentemente lo apostrofa. Poco oltre Virgilio gli
mostra una donna che con le proprie unghie si dilania e non trova pace né
in piedi né seduta: è la meretrice Taide, che in vita fu maestra nell’arte
di ingannare con l’adulazione.
Introduzione critica
Con l’ottavo cerchio ci troviamo di
fronte non solo ad una categoria del male difforme in tutto da quelle che
Dante è venuto sin qui illustrandoci nelle loro manifestazioni più tipiche
e salienti, ma ci accorgiamo che gli stessi parametri della sua poesia
appaiono profondamente modificati. La definizione del tema critico di
Malebolge in termini che ancor oggi si rivelano ricchi di suggestioni
feconde ad ogni nuova lettura, risale alle lezioni tenute dal De Sanctis a
Torino nel 1855 e alle pagine della sua Storia dedicate alla Divina
Commedia. L’insigne critico contrappone le regioni dell’alto e del medio
inferno, corrispondenti ai peccati di incontinenza e di violenza e nelle
quali grandeggiano isolate possenti individualità, a quelle del basso
inferno (frode), in cui le stature eroiche e tragiche di chi peccò per
passione risultano quasi del tutto assenti e sulla pittura morale e
psicologica prende decisamente il sopravvento quella del dato
esteriore.
"L’inferno degl’incontinenti e dei
violenti è un mondo poetico, in cui tutto avviene per impeto di passione o
per violenza di carattere e noi ammiriamo e ci commoviamo. L’inferno dei
fraudolenti è il mondo scaduto all’ultima prosa; è la passione che si muta
in vizio; è il carattere che declina a bassezza; è la forza che scende a
malizia... La passione ha virtù di muovere, concitare tutte le potenze
dell’anima, sì ch’elle prorompono al di fuori irresistibilmente; il vizio
è la passione risolta in una abitudine prosaica, una ripetizione uniforme
degli stessi atti, un fare perché si è fatto; è l’artista meccanizzato che
si chiama artefice; è l’arte profanata che sì chiama mestiere... La forma
estetica di questo mondo è la commedia. " Ma Dante non avrebbe il
necessario distacco dalla materia trattata per poter riuscire come autore
comico, talché in lui "di sotto la facezia spunta il disdegno, la sferza
gli si muta in pugnale". Ne deriverebbe che in Malebolge Ie situazioni
sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non è artistico; non ha
la sua immagine che è la caricatura, né la sua espressione che è il riso".
La distinzione che il De Sanctis istituisce fra comico in sé (le
situazioni che "sono comiche") e comico risolto nel linguaggio (il comico
che è "rozzamente formato") porta nelle sue formulazioni su Malebolge un
germe di astrazione e di antinomia. Esso è all’origine di tutta la sua
valutazione dei due ultimi cerchi dell’inferno, costantemente combattuta
fra l’ammirazione per il modo in cui Dante ha saputo risolvere in
concezioni fantastiche la "prosa" di una estrema degradazione morale ed il
fastidio per un cosmo dal quale la grande musa romantica, la passione, è
stata estromessa.
La critica più recente, pur mantenendo
quanto è di valido nelle affermazioni del De Sanctis, ha messo ampiamente
in luce, nel canti di Malebolge, oltre la straordinaria ricchezza
inventiva già dal De Sanctis sottolineata, una maturità artistica di cui
non si ha l’esempio nei canti dal I al XVII e che si traduce in un
discorso narrativo e lirico assai più variamente articolato e vivace. Per
quel che riguarda il canto XVIII, è stato notato (Caretti) come gli
"strumenti interpretativi dedotti dalla psicologia sentimentale
d’ascendenza romantica" si dimostrino insufficienti ai fini di una
definizione della sua unità narrativa e poetica. Questa poggia su di una
rigorosa bipartizione, la quale, lungi dal restare esteriore rispetto agli
esiti espressivi in cui la narrazione viene di volta in volta sfociando,
li determina; non diversamente, in un polittico, la disposizione di masse
e colori, pieni e vuoti risulta direttamente influenzata dal rapporti
spaziali che legano tra loro le singole parti di esso. Dopo il prologo
(versi 1-18) il canto risulta infatti nettamente diviso in due parti,
corrispondenti ciascuna alla descrizione di una bolgia e delle quali la
seconda (versi 100-136) riflette fin nel particolari più minuti le
articolazioni della prima, non senza tuttavia deformarle nel senso di una
più accesa espressività caricaturale e farsesca. Ai due esempi di vizio
punito nella prima parte del canto, di cui uno tratto dalla cronaca dei
tempi del Poeta (Venedico Caccianemico) ed uno dalla tradizione letteraria
classica (Giasone), fanno riscontro, nella seconda, l’esempio medievale di
Alessio Interminelli e quello antico di Taide. Gli esempi medievali si
risolvono ciascuno in un dialogo, nel quale, impietoso, si afferma il tema
della denuncia e del ravvisamento (nel primo: Venedico se’ tu
Caccianemico; nel secondo: e se’ Alessio Interminelli da Lucca), mentre
quelli antichi emergono già moralizzati attraverso la parola di Virgilio.
Ma parallelismi e rispondenze sono assai più intimi e puntuali di quanto
questi cenni non lascino supporre e si ripercuotono fin dentro la
struttura delle singole terzine e nel lessico. Quest’ultimo,
caratterizzato nel prologo - esso pure diviso in due parti: la geometrica
descrizione iniziale dell’ordigno di Malebolge ed il successivo raffronto
di questa astratta struttura con un manufatto umano, I castelli - da un
massimo di esattezza e di impersonalità, degrada poi, attraverso il
patetico e l’aulico (pièta, repleta), nel comico e nel plebeo (le berze),
per sollevarsi nuovamente a dignità epica nella presentazione della figura
e della colpa di Giasone, prima di precipitare decisamente nello sconcio e
nel farsesco (l’esempio di Taide riproduce, rovesciato nel laido, lo
schema di quello di Giasone). Tanto rigoroso geometrismo non costituisce
struttura inerte, poiché in esso si esprime il distacco del Poeta
dall’abietto argomento trattato, la perfetta adesione del suo sentimento
ai criteri della giustizia divina. Non c’è più infatti, in questo canto,
come rileva il Caretti, "conflitto tra il Dante "personaggio" e il Dante
"poeta" e lo stile, lucidamente ironico e sferzante, fa tutt’uno con il
giudizio morale. L’estremo del " comico " s’identifica perciò
compiutamente con l’estremo del disprezzo e del distacco
sentimentale..."
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