Paradiso: canto X
Dante e Beatrice ascendono al
quarto cielo, quello del Sole, dove godono l’eterna beatitudine gli
spiriti sapienti. Dodici di essi, danzando, si dispongono a corona intorno
al Poeta e alla sua guida, mentre il loro gaudio è espresso non solo dalla
luce intensissima che irradiano, ma anche dal canto che accompagna ogni
loro movimento. E’ un trionfo di splendore e di amore che colma di
estatico rapimento l’anima di Dante, il quale si immerge nella
contemplazione di Dio.Da una di quelle luci si alza una voce che si
dichiara pronta a soddisfare ogni desiderio del Poeta. ~ il domenicano San
Tommaso d’Aquino, il quale condanna l’attuale corruzione morale
dell’ordine di San Domenico. Egli rivela poi i nomi dei suoi dodici
compagni, mettendo brevemente in rilievo le caratteristiche dell’opera di
ciascuno. La rassegna, incominciata con la figura del grande teologo
tedesco ,4lberto Magno, si chiude con il nome di Sigieri di Brabante, un
pensatore di indirizzo averroistico, il quale in vita fu accusato di
eresia. Ma Dante vuole esaltare, in questo canto, tutti coloro che amarono
la sapienza e dedicarono ad essa la loro esistenza, anche se talvolta si
lasciarono trascinare fuori del terreno dell’ortodossia.
Introduzione critica
L’esordio del canto decimo che fino al verso 33 celebra
l’ordine dell’universo sotto l’amorosa guida di Dio, ripete il carattere
di sacralità e di meditazione solenne, oltre che la complessità del giro
sintattico, di tutto il canto primo. Uno è l’inno proemiale della terza
cantica, l’altro è non solo introduttivo dei cinque canti dedicati al
cielo del Sole ma anche di tutto il secondo tempo del Paradiso, dove, a
differenza delle prime tre sfere, appariranno le anime specificate da
qualità totalmente positive. Il Poeta entra in un mondo dove la carità,
l’unione e la perfezione dei beati sono ancora più intense (determinandosi
esteriormente nella perfezione di un segno: il cerchio, la croce,
l’aquila, la scala) ed egli avverte questa nuova ricchezza di spiritualità
con intimo godimento di uomo e di poeta, perché, nonostante le negative
posizioni della critica romantica a questo proposito, al progressivo
arricchimento del suo spirito corrisponde sempre, in Dante, un nuovo
arricchimento della sua poesia. Bruciata tutta la materia terrena dei
primi tre cieli nel grido profetico di Folco da Marsiglia, il Poeta
esperimenta la nuova dimensione paradisiaca e, contemporaneamente, la sua
nuova disposizione interiore: "dall’alto ormai, sogguarda; e come la
distanza della terra è più grande, non avverte lo sforzo drammatico del
distacco. Non che l’astrazione prevalga sulla concretezza: tutt’altro: la
realtà, nell’intelligenza dantesca, si domina tanto più fermamente quanto
più dall’alto; ma il giudizio, che è d’amorosa sapienza, discende più
severo e sereno, con una sovranità pacifica di gesto regale che impartì"
(Apollonio). La resa poetica di questa nuova atmosfera avviene, nel canto
decimo, attraverso un fiorire continuo, incalzante, di metafore nelle
quali è evidenziata al massimo la poesia delle immagini del Paradiso.La
distesa rappresentazione ad apertura di canto del mistero della Trinità
che crea e regge tutto l’universo è riecheggiata nell’immagine delle onde
concentriche dei cieli, le alte ruote, che si distendono allo sguardo
rapito della piccola creatura, finché esso viene a posarsi in un punto, là
dove convergono tutti i moti degli astri. L’oblico cerchio che i pianeti
porta amplia i confini del cielo misterioso al di sopra di un mondo che
per vivere ha bisogno di "chiamare" in suo aiuto tutti gli astri. Poi
l’inquieta fantasia che ha sollevato il lettore alle alte ruote lo
riporta, perché si renda consapevole della sua limitatezza, al suo banco
di discepolo. Ma è un riposo momentaneo, prima di intraprendere una
ricerca più approfondita (omai per te ti ciba): il Poeta invita ad un
banchetto di sapienza, diverso però da quello che aveva preparato, con le
sue canzoni e i suoi commenti nel Convivio. Nel trattato era un’indagine
intellettuale superbamente sicura di sé, tanto da non ritenere necessaria
la dipendenza dalla verità rivelata. Qui " la sapienza è rivelazione che
irraggia dall’alto" (Apollonio), è "coscienza di una elezione della
Grazia, di un amor divino che... innalza la dignità della creatura", non è
più orgoglio intellettuale e scolastico: "al convito della Sapienza... il
cibo, anziché sillogistico, è eucaristico". Questo spiega, secondo
l’illustre critico, anche la centralità del tema dei canti del Sole,
quello della meditazione della vita trinitaria (dal proemio - guardando
nel suo Figlio con l’Amore - alla rappresentazione degli spiriti sapienti
appagati dalla contemplazione del Padre che mostra loro come spira e come
figlia, all’inno del canto XIII - lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre
persone in divina natura, ed in una persona essa e l’umana -). E
l’immagine della Trinità spiega il prorompere, a partire dal verso 28, di
quelle della luce (con uno scoperto simbolismo: la sapienza è luce che
illumina la mente umana e questa luce è irraggiata dalla mente divina e
questa sapienza diventa luce d’amore). E’ un luminismo diffuso che si
affida allo splendore solare (versi 28-33), allo scintillio, che supera
quello dell’astro che le contiene, delle anime beate, alla metafora del
Sole-Dio (verso 53), allo splendor delli occhi... ridenti di Beatrice, che
prepara Dante ai fulgor vivi che formano la prima corona, all’abile
contrappunto di luce e di ombra nella scena notturna dell’alone lunare,
finché le anime beate diventano esse stesse ardenti soli. Poiché
l’immagine iperbolica costituisce un limite al di là del quale il Poeta
non può procedere, l’intuizione della luce trapassa in un’intuizione di
suono e di moto e infine in una pausa di immobilità e di silenzio (versi
79-81), finché la poesia riprende, inesausta, il filo del suo immaginare:
la scala, il fin della fiala, l’acqua ch’al mar non si cala, le piante, la
ghirlanda, gli anni della santa greggia, il serto, il cero, l’orologio che
chiama al mattutino, la rota.La fantasia si rifrange su mille oggetti, la
vita spirituale si moltiplica in mille direzioni, perché l’animazione
etica del Poeta di fronte al tema della sapienza che è conoscenza di Dio,
la quale, una volta conseguita, ci lega per sempre a Lui, ha qualcosa di
trascinante, qualcosa di inebriante. La dottrina è diventata fede, e la
fede si è tradotta in poesia. Proprio questo suo fervore fa si che egli,
nel canto dei teologi e degli studiosi, rifugga da ogni didascalismo, da
ogni disquisizione scientifica, da ogni punta polemica. Gli piace andar
col riso girando su per lo beato serto di quell’ "Atene celestiale" che
aveva vagheggiato per i filosofi pagani nel suo Convivio, di
quell’aristocrazia della mente che, a differenza di quella degli spiriti
magni del limbo, ha trovato in Dio la sua giustificazione e il suo fine.
Non ingombrante rassegna, dunque, quella che chiude il canto, bensì epica
rievocazione di chi, nella fatica, nelle veglie, nel martirio, ha
testimoniato a quali altezze possa pervenire l’umana sapienza quando essa
è saldamente avvinta alla Rivelazione e all’amore divino.
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